Categoria: Elaborazione e narrazione (una storia personale)
Questa categoria nasce dall’esperienza di “affiancamento” di mia mamma, colpita da una malattia rara. In essa sono raccolte riflessioni sulla vicenda, estrazione di personali strategie utili a superare momenti così complessi (una personale “elaborazione”), libri legati all’argomento (ma anche utili a comprendere e metabolizzare, nonché a cercare nuovi stimoli in un processo di ricerca) ed esplorazioni all’interno del mondo della Medicina Narrativa.
E alla fine l’onda lunga è arrivata. Dopo un anno e mezzo è arrivata.
Si è manifestata ieri sera sul tardi e mi ci sono dovuta immergere per aiutarmi con la pressione emotiva che aumentava gradualmente il peso sul cuore, accorciando anche il respiro.
La aspettavo e sapevo che era solo questione di tempo.
Che sia stata provocata dal nervosismo di questi giorni, o che il nervosismo di questi giorni fosse un segnale, poco importa. È arrivata. Ed è stata forte. Gentile ma di una forza ferma e crescente.
E nel mezzo dell’onda (nel mentre annaspavo cercando un modo) mi sono tornate in mente due considerazioni fatte dal responsabile e dalla psicologa della Terapia Intensiva: il primo mi disse che era “straordinaria la capacità di elaborazione che avevo sviluppato [riferendosi a tutto il processo di scrittura condotto immediatamente a valle dell’evento]”, mentre la seconda mi aveva parlato di “presenza interiore”. Sto… tubo!, ho ruggito nella mia testa ieri sera a tarda ora con un barlume di lucidità, nel mezzo dell’onda emotiva.
E mi sono ricordata anche di quello che mi disse una amica l’anno scorso: mi disse che il tempo sulla lunga distanza (purtroppo) avrebbe fatto sentire la mancanza. Così come un’altra amica qualche giorno fa, davanti ad un caffè, mi ha confessato che dopo tanti anni non ha ancora metabolizzato l’assenza.
Temo in questi mesi di essere stata sempre in fuga. Tradendo – tra l’altro – me stessa. E la promessa che mi ero fatta dopo quello che era successo. Quella di voler godere delle cose belle, dei libri, delle passeggiate, dei momenti di relax…
Invece ho saturato il tempo in ogni anfratto, fuggendo. Fuggendo dai Dàimon (di filosofica memoria) che una (terza) amica mi aveva suggerito di fermarmi e accogliere.
E l’onda lunga di ieri sera (portata, o forse portatrice del Dàimon) si è presentata all’uscio con il conto emotivo da saldare.
Un mese fa – a distanza di un anno – ho (ri)varcato la soglia della Terapia Intensiva del Blocco DEA. E questa volta sono entrata con un cappello in testa diverso: visitatore ed ex-parente della paziente (mia mamma) che – un anno fa – ha soggiornato per tre settimane nel reparto.
In foto il pannello all’ingresso della Terapia Intensiva del Blocco DEA Niguarda
Rimetterci piede è stato un lungo lavoro, per me.
Un lavoro preoccupato della possibile reazione al mio ripercorrere quella strada e al conseguente risvegliarsi di “ricordi faticosi”. Accompagnato – mentre attraversavo l’ospedale per raggiungere l’edificio – dal timore che emergesse una “bolla emotiva imponente” che mi mettesse in ginocchio e mi facesse fare dietrofront.
Sì, perché è vero che ho scritto sui social, condividendo il durante ed il dopo, ho parlato con amici e parenti (durante e dopo), ho vissuto momenti di quella paura mostruosa dell’inevitabile (una paura che ti terrorizza), ho scritto la testimonianza per i medici (dopo), ho alzato muri di silenzio (durante) rigettando qualsiasi aiuto percepito (da me) come interferenza,… insomma di tutto e di più…
Ma temi che la tua calma troppo logica e glaciale (a parte una certa tachicardia all’avvicinarsi all’edificio, a prendere l’ascensore e a fermarmi qualche secondo davanti alla porta chiusa della sala d’aspetto) possa nascondere una “bestia” ben acquattata nell’oscurità, pronta a stringerti in una morsa paralizzante…
Invece al varcare quella porta chiusa (“1, 2, 3… vai!… Apri la porta ed entra, cazzo!”, mi sono detta), entrando nella sala d’attesa (e vedendo le piccole ma fondamentali migliorie che fanno una enorme differenza in situazioni simili), sedermi qualche minuto ad osservare e respirare l’ambiente, essere poi accolta dalla Coordinatrice Infermieristica e – con molto tatto e gentile fermezza – accompagnata dentro il reparto, e sentire una stravagante calma (“Io devo avere qualcosa che non va…”, le ho detto condividendo le sensazioni di calma), è stata una esperienza interessante.
Forse ho guardato in faccia un mostro, scoprendo che è molto meno feroce di quanto mi figurassi nella mente.
E questo però non l’ho fatto da sola. Chi (a vario titolo e ognuno come meglio ha potuto) mi ha dato una mano, ha dato tempo al tempo per far sì che accadesse al momento giusto. (Restando in contatto in tutti questi mesi con alcune figure del reparto in una sorta di rapporto epistolare 2.0.)
“Fa che quel che sia accaduto non sia accaduto invano” è stato (ed è) un mantra che mi recito ogni santo giorno da un anno a questa parte. Un mantra comunque valido per qualsiasi cosa. Non solo per eventi “complessi”. Ma anche importante per cogliere e apprezzare quello che la vita e la quotidianità ti porge (che ti piaccia o no).
Alla fine – tornando a casa al termine della giornata – mi sono ritrovata un po’ fiaccata. [Una (comprensibile) questione di emozioni.] Ma ho continuano (e continuo) ad essere calma.
[11 aprile 2018] Nonostante sia andata come è andata, mio padre scrisse una lettera al Corriere della Sera per raccontare questa realtà.
Chiudo questo post con due immagini. La prima – qui sopra – è la foto alla lettera che mio padre inviò al Corriere della Sera: sentì l’esigenza di far conoscere l’eccellenza dell’operato di questo “manipolo” di persone. Esigenza che fu colta e rilanciata dalla testata milanese.
La seconda – qui sotto – è tratta da un pdf scaricabile dal sito dell’Ospedale Niguarda, pagina dedicata alla Umanizzazione delle cure (progetto in corso all’interno del reparto). Un pdf che offre una sguardo (apre una finestra) sui pensieri dei parenti dei pazienti ricoverati e fa conoscere i volti di questo reparto molto particolare.
Dateci una lettura. E’ toccante, è emozionante ma è anche incoraggiante perché in un mondo dove sembra che tutto vada a scatafascio e ti devi destreggiare in un mare di informazioni disfattiste, ti rendi conto che ci sono persone che ogni santo giorno si alzano e vanno a combattere una battaglia per la vita e in onore della vita, nel rispetto dell’essere umano.
Una pagina de “Il quaderno della Terapia Intensiva”
Il “giro dell’orologio” continua implacabile. Come è giusto che sia.
Domani andrò a Torino per partecipare e collaborare ad una delle cose che mi sono più care: TEDxTorino. (E credo che non smetterò mai di ringraziare chi mi ha ricoinvolto dopo un periodo di mio allontanamento.)
Ma domani, un anno fa, era anche l’inizio della fine. Infatti un anno fa, il 9 mattina, accompagnavo mia mamma al pronto soccorso ed iniziava un periodo del quale credo di non avere ancora completamente metabolizzato tutto l’andamento.
L’altra sera, tornando a casa, ho avuto un momento di sconforto. Però – camminando e parlando (mentalmente) tra me e me – sono riuscita a tranquillizzarmi e a superare l’impasse.
E ieri sera, dialogando via Whatsapp con mia cugina, riflettevo su come la percezione distorta del tempo faccia sì che quanto è accaduto, sembra sia accaduto ieri. Invece ci stiamo avvicinando all’anno.
Riflettevo con lei che adesso si entra nel periodo dove sono quattro le date cardine di questa vicenda: 9 febbraio (ricovero in ospedale), 26 febbraio (suo compleanno ed inizio dell’escalation), 28 febbraio (ingresso in Terapia Intensiva), 24 marzo (trasferimento in Hospice), 28 marzo (“fine dei giochi”).
Foto Pixabay su Pexels.
Come mi sento? Scissa. Continuo a sentirmi scissa.
Non so se si tratta di una reazione della mente o di una delle fasi di elaborazione. So solo che è come se la parte emotiva fosse incomprensibilmente quieta su questo aspetto (cosa che osservo da mesi e non so se è sfinimento o continua ed inconsapevole ricerca di stati di calma), mentre la parte razionale va dall’iperattività all’iperlucidità, rasentando momenti di freddezza e cinismo…
Adesso credo di capire il perché si dice che l’elaborazione di un lutto può durare anche due anni (cosa che ai tempi mi fece strabuzzare gli occhi).
Ma appallottolarsi in un angolo, e ripiegarsi su se stessi, non va bene.
Hanno senso momenti che richiedono il lasciarsi andare (non si può restare “in bolla” sempre e comunque, perché comunque poi le questioni “bussano alla porta” chiedendoti il conto). Ma ha senso (e può essere anche un modo per onorare chi non c’è più) fare del proprio meglio, accogliere le opportunità che si incontrano sulla propria strada, conservando il ricordo e continuando a progettare e costruire .
Recentemente ho tenuto un discorso al club Toastmasters di cui faccio parte. Si è trattato di un speech costruito sulla traccia di uno dei manuali avanzati del percorso formativo, riguardante “discorsi tecnici” (Technical Presentation) rivolto in particolare ad un pubblico non tecnico (The nontechnical audience).
È stata l’occasione per condividere l’esperienza delle tre settimane in Terapia Intensiva in affiancamento a mia madre traducendo in parole non solo scritte (come fatto nei mesi scorsi) ma anche dette, quanto visto ed imparato. Infatti il discorso verte sul funzionamento del reparto visto dagli occhi di un non-addetto ai lavori (non sono un medico), ma che ha avuto l’opportunità – in tempi non sospetti – di partecipare alla progettazione di alcune di questi spazi (all’interno di progetti di strutture sanitarie più ampie), cercando di fare buon uso anche delle informazioni fornite dallo stesso reparto ospitante mia madre. Incrociando così le informazioni per organizzare i pensieri.
Questo modo di approcciare l’esperienza è servito – ai tempi – per sopportare il carico emotivo molto elevato. E il raccontarlo oggi (a distanza di mesi) ad un pubblico è stato un banco di prova per misurare l’intensità e la vividezza di quanto vissuto, ed il personale livello di “coinvolgimento emotivo”, pur trattandosi – volutamente – di un discorso puramente informativo. [Durata: 17 minuti circa]
Il tempo è una variabile direttamente collegata alle nostre aspettative. Fugge o rallenta seguendo dispettoso il nostro piacere o il nostro dolore, rubando o ammassando le ore in un contrappunto di trepidazione e di noia che scandisce il nostro esistere. Per questo cerchiamo di intrappolarlo negli orologi: per inchiodarlo alle sue responsabilità, per poterne soggiogare l’esistenza con un’osservazione obbiettiva. Ma nel sogno il tempo riprende totalmente la sua inconsistenza e si abbandona senza remore all’anarchia delle nostre sensazioni.
Questa citazione è tratta dal libro “Si è fatto tutto il possibile” scritto da Marco Venturino, direttore del reparto di Terapia Intensiva e Anestesia all’Istituto Europeo di Oncologia.
Ho “incontrato” l’autore (da un punto di vista letterario) per puro caso, grazie ad un suggerimento di lettura di Amazon che – visto il mio acquisto del libro “Il grande lucernario” (di Maria Giovanna Luini), interessante e curiosa lettura estiva di cui parlerò in un post successivo – mi ha proposto i romanzi da lui scritti.
Ma non solo: nel mentre percorrevo le pagine del libro, mi sono improvvisamente ricordata che forse questo signore lo avevo incontrato anche di persona.
Anno: 2006-2007. Luogo: Istituto Europeo di Oncologia. Con lo studio con cui collaboro, ricopriamo il ruolo di Direzione Lavori per gli impianti elettrici e speciali per la ristrutturazione di alcuni reparti, tra cui la Terapia Intensiva. E – preparando e studiando le fasi di adeguamento degli impianti – il Direttore Tecnico organizza un incontro con i responsabili del reparto per conoscere le esigenze e le procedure. Fu allora che incontrai il dottor Venturino, a cui fu chiesto di condividere con noi le informazioni utili a pianificare al meglio le fasi di intervento. Ricordo un personaggio vivace che – insieme alla Caposala – ci fornì un numero impressionante di indicazioni operative e di sicurezza di cui prendemmo nota. Seguito poi da una riunione tra noi tecnici nella quale pianificammo e ripetemmo fino allo sfinimento tutte le fasi della operazione.
Ma veniamo ai due libri oggetto di questo articolo.
“Si è fatto tutto il possibile”, il primo dei due che ho letto, è un libro tosto. Appena terminato, l’unico pensiero che mi ha attraversato la mente è stato: “Benvenuti all’inferno…”.
Perché? Perché scandaglia a grande profondità – nel bene e nel male – la mente di un medico che ricopre un ruolo particolare: nello specifico il protagonista è il Direttore di un reparto di Terapia Intensiva di un non meglio specificato ospedale milanese.
Le emozioni che si vivono leggendolo possono essere piuttosto forti, talvolta disturbanti e scomode davanti a certe dinamiche (anche di potere) e riflessioni. Se poi si ha avuto a che fare con l’ambiente in qualità di “utente” (inteso anche come parente di un paziente), i ricordi e le riflessioni emergono da ogni dove.
L’impressione è quella di leggere la genesi e lo sviluppo di un burnout (su Wikipedia una definizione di massima), un “fenomeno” che colpisce quei medici che svolgono funzioni particolari (molto “limite”). Una discesa – in avvitamento – nella paranoia, nella frustrazione e nella paura. Una descrizione molto accurata di uno stato di esaurimento molto grave, accompagnato da riflessioni e dialoghi interiori molto duri.
Libro di esordio dell’autore, mi è stato caldeggiato da alcuni contatti di Facebook, che lo hanno preferito rispetto al precedente.
Personalmente confesso di avere fatto fatica ad iniziarlo. Perché avevo intuivo dalla sinossi che sarebbe stato un ripercorrere le recenti vicende.
Qui le voci sono due: il paziente ricoverato in Terapia Intensiva ed il medico Responsabile del reparto, che lo ha in cura. Due voci diametralmente opposte, accomunate dallo stesso ambiente e dalla stessa storia. Due punti di vista diversi. Due esperienze diverse. Due vite diverse. Ma più vicine di quanto si pensi.
Un racconto con dei passaggi difficilissimi da digerire. Almeno per me. Inevitabile ripensare e riandare al delirium da Terapia Intensiva (molto ben descritto “dal di dentro”, dal punto di vista del paziente). Al pensare cosa può provare una persona che si sveglia in un ambiente simile: collegato alle macchine e totalmente dipendente da esse e dal personale del reparto. Ostaggio di una situazione che fa fatica a comprendere e ad accettare in stato di lucidità, e che non accetta in stato di delirio.
Ho procrastinato la lettura fino a che – mossi i primi passi – sono stata inghiottita e completamente coinvolta dalla storia. Empatizzando con i protagonisti, emozionandomi e tifando per il buon esito della vicenda. Rischiando anche di perdere le fermate dei mezzi pubblici, tanto ero immersa nella narrazione.
Due libri non per tutti, ma che tutti dovrebbero leggere. Per sapere, per capire, per comprendere e per (nella eventualità) saper accettare e gestire.
Foto tratta di Pixabay da Pexels
E nel mentre preparavo questo articolo, cercando in internet conferme di alcune notizie dell’autore, sono incappata in un articolo-intervista di un paio di anni fa rilasciata dall’autore al Corriere della Sera. Leggendola ho compreso (credo) che quello che muove Marco Venturino allo scrivere è condividere e dare voce ai malati che incrocia sul suo cammino.
Ma credo che non sia tutto.
Credo che l’autore scriva queste storie anche per una personale necessità di metabolizzare, di elaborare, di esorcizzare (e anche di onorare) quanto quotidianamente vive e sperimenta sulla sua pelle. In un atto terapeutico.
I libri dell’autore (tutti editi da Mondadori):
“Cosa sognano i pesci rossi”
“E’ stato fatto tutto il possibile”
“Le possibilità della notte” [di mia prossima lettura]
Gli argomenti “Ospedali – Medicina – Cura” e ancora di più “Sale Operatorie – Terapie Intensive”, vengono sempre trattati (e visti) con grande cautela.
Infatti se da un lato, se ne parla in termini giustamente tecnici e professionali da coloro che sono del settore, su canali specifici che raramente contemplano i social (comprensibilmente, aggiungo), dall’altro ho l’impressione che da parte di noi gente comune vengano tenuti a debita distanza. Credo un po’ per ignoranza (a volte non ne conosciamo letteralmente l’esistenza), ma anche un po’ perché portatori di carichi emotivi importanti (può essere molto difficile “guardare ed aggirarsi” dentro ambienti ed argomenti simili).
E quando ti capita di venire in contatto con questi “ambienti limite” (e con le persone che operano al loro interno) due sono le strade che puoi prendere a “tempesta” finita: scappare il più velocemente possibile per cercare di dimenticare, oppure scendere in profondità.
Personalmente ho scelto la seconda perché sono fortemente convinta che capire e conoscere sia uno dei modi migliori per accettare, elaborare e metabolizzare (si ha paura e si fugge davanti a cose che non si conoscono e non si capiscono: guardarle in faccia e tentare di comprenderle aiuta a dare senso e a ridurne – gestendolo – l’impatto emotivo).
Così piano-piano ho iniziato ad esplorare anche l’altra faccia di questo mondo (non solo da un punto di vista progettuale – come mi è accaduto diverse volte nell’ambito della mia professione – ma anche da un punto di vista operativo prima e umano poi).
E aggirandomi in questo mondo (quasi) totalmente sconosciuto (mi ricordo che un pomeriggio, in un “momento personale straniante” in Terapia Intensiva, osservando i tre pazienti ricoverati in quel “box” e le attrezzature medicali che li circondavano, in un momento di quiete, ho pensato: “Sant’Iddio…, sembra Matrix… Questa è un’altra dimensione…”), ho incontrato il mondo della “Umanizzazione delle Cure” (di cui avevo già sentito parlare durante i colloqui coi medici) e della Medicina Narrativa, scoprendo recentemente anche i romanzi scritti da Marco Venturino (di cui scriverò nel prossimo post).
Ma non solo. Si sa che spesso accade che quando ci inoltriamo in un sentiero con l’intento di esplorare, capita che iniziamo a trovare tante altre cose.
Non è da adesso che seguo portali divulgativi di scienza, medicina e tecnologia. Ho una personale ossessione che nutro da anni: la progettazione per gli altri. Ed essendo anche affascinata dalle possibilità del futuro, sono inevitabili le personali scorribande conoscitive nel mondo della tecnologia e della robotica (scrivendone qui sul blog, a più riprese).
E grazie a questa esplorazione e contaminazione di aree al limite del caos, ho scoperto (e seguo sempre con grande attenzione) il sito “La medicina in uno scatto” (date anche una occhiata alla sua pagina Facebook, sempre molto interessante) che non molto tempo fa ha pubblicato un post su un interessante profilo Instagram relativo ad un progetto fotografico: ScrubNurseArt.
Un esperimento inconsueto e – per alcuni scatti – un po’ forte (ma comunque sempre trattato elaborando/editando le immagini per dare loro una connotazione pittorica).
Un modo di condividere, comunicare e raccontare attraverso vari linguaggi ed espressioni artistiche (in questo caso la fotografia) la complessa realtà della Sala Operatoria.
E se qualcuno può avanzare qualche dubbio e/o perplessità, mi domando (e gli/le domando): quale è la differenza tra uno scatto di questo progetto ed un quadro Rembrandt? Entrambe rappresentano un certo tipo di realtà. Veicolano delle informazioni, documentano qualcosa e raccontano delle storie.
Forse la pittura è meno realistica della fotografia perché filtrata dall’occhio e dalla mano di chi osserva e riproduce graficamente.
Ma forse anche la distanza temporale gioca un ruolo fondamentale: Rembrandt e le sue opere sono “là in fondo”, perse in un tempo lontano che noi conosciamo solo attraverso tele, affreschi e disegni. Di cui nessuno di noi è stato testimone (per ovvie ragioni…) (E ancora più “in fondo nel tempo” sono le tavole anatomiche di Leonardo da Vinci, per citare un altro protagonista che tanto ha maneggiato la materia.)
Forse le tecniche rappresentazionali e la distanza temporale collaborano a togliere forza emotiva. A noi che siamo qui oggi. Ma anche le tecniche rappresentazionali sono veicoli di espressione che funzionano molto bene nel presente: per narrare, elaborare e divulgare. Testimoniando e aprendo una finestra su altre realtà.
Un paio di giorni fa – scorrendo Twitter – leggo questo tweet di Trame Formazione (associazione che si occupa di Medicina Narrativa e “Umanizzazione delle cure”, scoperto essere tra i miei follower con mia grande sorpresa):
E' possibile migliorare la comunicazione della scienza attraverso l'uso della narrazione? "Storytelling and narrative can help communicate science to nonexperts and improve the odds of science communication success." https://t.co/AqwXROzveKpic.twitter.com/zIejS7yBZ8
L’articolo in questione riflette sulla necessità di usare la narrazione come strumento di divulgazione scientifica verso un pubblico “non esperto”.
Evidenziando “l’abitudine”, comprensibile, di coloro che lavorano nel settore a comunicare utilizzando un linguaggio tecnico orientato specificatamente alla documentazione di studi e ricerche scientifiche.
Anche se si tratta di una riflessione non così nuova, il fatto che sia un organo ufficiale a farla è significativo di un’apertura verso l’esterno, con la volontà di includere, di rendere partecipe e di condividere. (Tanto più nel far west quotidiano delle fake news di cui sono oggetto le informazioni scientifiche… ma mi fermo qui per non scoperchiare un pentolone…)
L’articolo però va oltre e approfondisce il tema, riflettendo sulla differenza tra story (storia) e plot (trama). Una sottile ed importante differenza (che nella nostra lingua si coglie meno, avendo la parola “storia” un duplice significato) che traccia una linea di confine tra il raccontare una sequenza di eventi (limitandosi ad un ordine cronologico) e il raccontare gli stessi eventi, motivandoli e dando loro una connotazione emotiva. Umanizzandoli e accompagnandoli con riflessioni.
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A questo punto è un attimo mettere in relazione queste autorevoli considerazioni con la provata efficacia dello strumento della narrazione.
Si sa che Leggere romanzi cambia il cervello (come scrive Annamaria Testa nel suo interessante articolo sul suo blog Nuovo e Utile) e sappiamo anche che il cervello stesso è predisposto ad apprendere attraverso le storie.
Sappiamo che le storie sono forse il più antico veicolo di trasmissione della conoscenza (un libro che mi sento di consigliare – che studiai all’università – è “Oralità e scrittura” di Walter J. Ong, che narra della trasmissione del sapere attraverso la tradizione orale e scritta).
Sappiamo anche che le emozioni hanno un ruolo fondamentale nella capacità di “presa” di un concetto (e/o di una situazione): se ascoltiamo/leggiamo/vediamo qualcosa che ci emoziona, difficilmente ce ne dimentichiamo.
Di questo “leggere emozionandosi” ne avevo già scritto in passato (anche più di una volta), accusando difficoltà nella lettura di manuali e perdendomi invece nelle pagine di romanzi e di narrazioni in genere (col dubbio – allora – di non imparare nulla…).
E dove questo perdersi è coinciso con narrazioni scientifiche è stata – per me – una “epifania” (Yalom, Sacks e Gawande recentemente “insegnano”).
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Ebbene, introdurre la narrazione in tutti quegli ambiti tecnici e scientifici che – ognuno a modo suo – comunicano in modo complesso, criptico, forbito, colma le distanze, divulgando e riducendo quella “ostilità” data dal fatto di non capire.
[Penso anche all’Architettura: disciplina che emoziona, che stupisce, ma che talvolta sembra distante nel suo essere troppo “saccente”, troppo imposta dall’alto. Tant’è che la “progettazione condivisa” e “del basso” sta assumendo sempre più forza ed importanza. A tale proposito suggerisco la lettura di “Design, When Everybody Designs” di Ezio Manzini e “Architettura open source” (a cura) di Carlo Ratti: due testi che offrono interessanti spunti di riflessione.]
E sempre in termini di narrazione di materie scientifiche, chiudo con il Talk che Michela Prest ha tenuto al TEDxLakeComo due anni fa: perfetto esempio di come un argomento ostico e pressoché inavvicinabile (la Fisica delle particelle) possa essere narrato in modo comprensibile ed altamente coinvolgente.
Recentemente tre “cose” hanno tolto il tappo all’ennesima emersione di una bolla emotiva…
Il ricordo che – un anno fa – mia mamma ed io partivamo per un viaggio di due settimane in Giappone: un viaggio tanto desiderato e rimandato per ben 17 anni.
Ma che ho incoraggiato nonostante la sua (di lei) incertezza, il suo timore di essere di disturbo (“Ma non ti sono di impiccio? Vuoi veramente farlo questo viaggio? Perché se non vuoi, posso andare per conto mio con un altro viaggio organizzato…”, mi disse quando eravamo ormai prossime alla decisione, con tutti i dati in mano per scegliere).
“Facciamolo!”, le dissi convinta (“Perché dopo potrebbe essere troppo tardi”, mi dissi tra me-e-me in modo assolutamente inaspettato; questa frase me la ricordo spesso, e quando questo accade, sono pervasa da un senso di straniamento e inquietudine.)
Un viaggio che lei fu contenta di poter fare e che si è goduta appieno.
E che fui contenta di fare anche io, con lei.
Una “cosa” – questa – capace di darci (a noi, il babbo ed io, che siamo rimasti “di qua”) un po’ di conforto durante e dopo la “vicenda”: “Sono contento che sia riuscita ad andare in Giappone, ci teneva tanto”, mi ha detto più volte mio padre.
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Poi è stato il turno di lettura di un commento di una amica che sta affiancando il padre che non sta bene, e che mi ha ricordato quello che un amico mi ha detto durante la “tempesta”: “Ne uscirai più forte!”
Vero… e non è una forza come la intendiamo normalmente. È una forza interiore, emotiva e morale che non nega la debolezza e la fragilità. Bensì le ingloba e ne trae – paradossalmente – ancora più energia.
E questo mi fa pensare anche alla “furia iconoclasta al contrario” da cui sono pervasa (di cui ho accennato nel precedente post).
Una energia che ha dell’assurdo e dell’osceno (quasi) perché emersa dopo.
Facendomi ricordare quello che un amico mi ha detto della sua compagna, dopo che aveva perso il padre: “È più determinata. Sta reagendo con rinnovata energia e voglia di fare.”
È come se – paradossalmente – avessi assorbito la forza di “lei” (mia mamma), che se ne è andata improvvisamente ed inaspettatamente.
Fisicamente.
Perché la “presenza interiore” menzionata dalla psicoterapeuta che collabora con la Terapia Intensiva e l’Hospice dove mia madre ha trascorso del tempo, sembra esserci sotto forma di un rinnovato dialogo interiore che sprona incessantemente.
È un continuo emergere di idee… di voglia di fare cose…
L’incertezza di un tempo sembra un lontano ricordo.
I no e i fallimenti vengono percepiti in modo totalmente diverso.
Se una cosa non funziona da un lato, provi da un altro lato.
Forse è anche una reazione energica ad uno dei peggiori spettri che mi accompagnano da quando lessi – tempo fa – un post di un progetto su persone in difficoltà.
Uno degli intervistati aveva raccontato che dopo la morte di sua mamma, aveva perso la lucidità e aveva perso tutto: casa, lavoro,… tutto, ritrovandosi letteralmente in mezzo ad una strada.
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Infine è stata la volta di una riflessione di un amico che – in occasione di un ultimo incontro (prima della pausa estiva) di un club di cui faccio parte – ha citato luglio come il mese di chiusura dell’anno ed il tempo di bilanci.
Un mese nel quale “tiri la riga e fai la somma”, tracciando – nel contempo – la strada per l’anno lavorativo che si profila all’orizzonte, a settembre.
Ebbene, se mi guardo indietro, questo è forse l’anno più intenso e catartico che abbia mai vissuto sino ad oggi.
Dove ho imparato di più, nel bene e nel male.
Dove ho conosciuto persone straordinarie in ogni singola esperienza che ho fatto (prima, durante e dopo la vicenda che ha segnato – tra l’altro – anche il mio 50esimo compleanno in un assurdo rito di passaggio).
Ora è tempo di portare con sé questo anno, come un bagaglio di grosse esperienze, e guardare avanti.
Senza sprecare ciò che è stato, bensì conservandolo, traendone insegnamento e facendone tesoro.
Questo post si presterebbe ad una lunga riflessione sulla bontà della lettura non solo in termini ludici o informativi, ma anche in termini terapeutici.
E non mi sto riferendo solo alla Biblioterapia (una disciplina frutto della fusione – come dice il termine stesso – della terapia, nella accezione psicologica del termine, con la lettura di specifici libri suggeriti da specialisti), ma anche agli incontri “casuali” con testi che “ti capitano” e che si rivelano essere adatti a superare momenti complessi che ci si trova ad attraversare.
Ma cercherò di raccontare solo della mia recente lettura di due libri che mi hanno aperto un mondo (da un lato) e stanno facendo la differenza (dall’altro lato).
Il mio “incontro letterario” con Irvin D. Yalom risale a qualche anno fa.
In un momento in cui ero stufa di leggere manuali di crescita personale.
In un momento in cui cercavo stimoli per fare “quel passo in più”, ma non riuscivo a trovare nulla che mi coinvolgesse a sufficienza.
Ed un giorno, aggirandomi tra gli scaffali di una Feltrinelli, mi cadde l’occhio su “Il problema Spinoza”.
Incuriosita, lo presi e me lo rigirai tra le mani (la sensazione tattile dei libri di carta, in particolare quelli con la copertina morbida, che sembrano ancora più malleabili… adattabili a te e alla tua mano).
Lessi la trama e la curiosità aumentò.
Decisi così di acquistarlo, iniziai quasi subito a leggerlo e fu una epifania.
In breve venni coinvolta ed assorbita dalla storia.
Diventò uno di quei libri per i quali non vedi l’ora di trovare briciole di tempo per poterli leggere.
Ma c’è di più: mi resi conto che le parole mi emozionavano e – talvolta – mi disturbavano in modo inconsueto.
E solo allora andai a leggere le righe che raccontavano dell’autore, scoprendo che si trattava di uno psichiatra.
Il mio primo pensiero fu: “Ecco perché!”
“Ecco perché le sue parole mi coinvolgono così tanto!”, pensai.
Il suo modo di narrare era diverso.
Era qualcosa di sottile che si insinuava e lavorava in background in me che leggevo.
Avevo scoperto un nuovo autore (nuovo per me, perché parlando con amici mi resi conto che era ben noto e – anzi – ricevetti suggerimenti di altri suoi titoli).
Ma soprattutto avevo scoperto una nuova narrativa.
Passò il tempo, lessi altri libri.
Di recente rincontro Yalom.
Non ricordo se e come sono stata “catturata” da “Diventare se stessi”.
Forse – molto semplicemente – ho visto il suo nuovo libro e l’ho comprato a scatola chiusa, forte dell’esperienza positiva, scoprendo solo dopo che era adatto per questo momento. Leggendo un’autobiografia ricca di spunti di riflessione.
Una storia di una vita piena (e non priva di difficoltà), pregna di conoscenza e che invita alla riflessione. Narrando.
Già, la narrazione. Uno strumento potente per trasmettere conoscenza e sapere.
Capace di arrivare dritto al cuore e alla mente di chi ascolta.
E – nel mio caso – uno strumento importante per affrontare un momento complesso, di transizione.
Di grande aiuto alla comprensione della serena inevitabilità che trasmette.
Ma gli incontri (ed i secondi incontri) non finiscono qui.
Qui si è trattato anche di una rappacificazione con l’autore perché il primo approccio con Sacks fu piuttosto “complesso”: “Zio Tungsteno” mi fu caldamente consigliato diversi anni fa da Giorgio Antonelli (autore del bellissimo – e temo ormai introvabile – libro “La ballata della luce”), che intervistai per la rivista “Casa 99idee”.
Accettai con entusiasmo il consiglio ma la lettura fu assai difficoltosa: un trattato di Chimica in forma narrativa, con tanto di tavola periodica e complesse dissertazioni.
E vista la mia “allergia” alla materia (al liceo presi anche un 3 durante un compito in classe), terminai faticosamente la lettura, giurando a me stessa: “Mai più!”.
Invece – a distanza di anni – mi sono ritrovata a leggere con grande attenzione e commozione il libro di cui avevo sempre sentito parlare un gran bene, ma che per esperienza pregressa non osavo avvicinare (a differenza di Yalom).
E se con Yalom ho assaporato (e continuerò ad assaporare, leggendo altri suoi testi) la contaminazione di generi, lasciandomi trasportare da storie che trasmettono anche contenuti psicologici generatori di riflessioni, con Sacks ho scoperto cosa è la “medicina narrativa”.
La delicatezza ed il sentimento espresso nella narrazione dei “casi clinici”, che sono visti, raccontati e considerati soprattutto come persone con una loro storia, mi ha avvolto e trasportato lungo le pagine del libro.
Generando empatia verso questi protagonisti sfortunati.
Due libri capitati al momento giusto, capaci di confortare, informare, far comprendere e far riflettere.
Capaci di aprirmi a nuovi ambiti di conoscenza, aiutandomi ad attraversare una fase complessa con il giusto e delicato equilibrio tra scienza, emozioni e narrazione.
Ecco, forse è proprio questo che io considero lettura terapeutica: tu (e le tue emozioni) con il libro giusto in grado di accompagnarti e sostenerti.
Chiudo questo post con una “nuova abitudine” che vorrei mantenere.
Due tracce audio caricate sul mio profilo Spreaker inaugurato da poco, relative alla lettura dei due incipit dei libri qui raccontati:
È stata una domenica “complessa”.
A causa di un sogno fatto la cui vividezza ha influenzato la mattinata.
E facendo questo sogno, e leggendo al risveglio qualche pagina del libro di Irvin Yalom “Diventare se stessi” (libro che consiglio vivamente, nonostante sia a metà della sua lettura), qualche riflessione mi è sorta.
Premetto: non sono una psicologa e non ho competenze in materia.
Mi appassiona e incuriosisce il funzionamento della mente.
E’ dal 2007, anno nel quale ho incontrato il mondo della crescita personale, che sperimento (cercando di individuare su me stessa) dinamiche di pensiero, lavorandoci attorno e dentro.
E gli eventi degli ultimi mesi, si sono trasformati in un banco di prova e (mio malgrado) in un “laboratorio avanzato” di osservazione e sperimentazione (utile – d’altro canto – ad affrontare nel miglior modo possibile la vicenda, convivendoci e accompagnandola).
Quello che ho osservato (e vissuto) ieri credo sia una delle (tante) manifestazioni della “lunga onda” della elaborazione.
Nel pdf “Dare un senso alle cose“, racconto di sonni profondi e senza sogni (aiutati dalla Melatonina, che ho preso per contrastare l’insonnia da tensione): non ho sognato per settimane.
E solo di recente sono ricomparsi dei loro surrogati.
Ne ho ricordi labili e frammentati che dimentico molto velocemente, nel giro di poche ore, tranne una immagine nitida “accaduta” durante il soggiorno di mia madre non ricordo più se in Terapia Intensiva o in Hospice. Una immagine che conservo ancora oggi, a distanza di mesi: la ricordo che mi dice con forte convinzione “mi fido di te”, ed io che mi sono svegliata il mattino dopo animata da una cieca determinazione di sorveglianza. Sentendomi investita da un surreale compito di tutela e protezione.
L’altra notte però è stato diverso.
L’ho sognata in un letto di ospedale (degenza, perché ricordo una trave testaletto a parete).
Aveva fame e mi chiedeva di procurarle un panino che io andavo a prendere ponendomi dubbi su come dovesse essere, optando per una focaccia (tonda) con prosciutto cotto e un po’ di formaggio. (Una delle cose che mi aveva gradualmente preoccupato sempre più, prima che scattasse l’escalation, era la sua progressiva assenza di appetito. Tant’è che il personale del reparto ci aveva autorizzato a portare del cibo, per cercare di andare incontro a sue esigenze e invogliarla a nutrirsi; ed io andavo a trovarla all’ora di pranzo per farle compagnia, controllarla e stimolarla nel mangiare un po’.)
Nel sogno, rientravo nella stanza con il panino e la trovavo addormentata.
Guardandomi attorno vedevo che sul tavolino c’era una parrucca, e mi dicevo: “Bene, le stanno ricrescendo i capelli!”.
Pensando che presto sarebbe tornata a casa.
(Specifico che mia mamma non era ammalata di tumore: aveva una poliangioite microscopica, una rara forma di vasculite.)
Il sogno è stato talmente vivido che – quando mi sono svegliata – ci ho messo qualche secondo a prendere coscienza che si trattava solo – appunto – di un sogno.
E non è stato divertente.
Ma la cosa ancora più “straniante” per certi aspetti, è stato che – per riprendere possesso della realtà – ho letto un capitolo del libro di Yalom e il caso ha voluto che sia entrata nella parte nella quale racconta della sua esperienza di terapia di gruppo con malati terminali. (Un involontario e fortuito rinforzo alla elaborazione, diciamo così.)
Tutto questo è pura casualità, ma la riflessione è stata automatica: Irvin Yalom è uno dei massimi psichiatri viventi, che usa la narrativa come sapiente veicolo di diffusione della scienza terapeutica. Invitandoti (in maniera laterale ed indiretta) alla riflessione su te stesso.
Mi sono domandata se, leggendo (volutamente) il libro, la mente (l’inconscio) non stia assorbendo le informazioni e le stia rielaborando e combinandole con la propria “banca dati”.
Mentre la parte conscia scantona e si inventa qualsiasi cosa per restare occupata.
Sì, perché un’altra variabile di cui tenere conto è che la mente fugge davanti a situazioni scomode.
Una questione già affrontata durante la permanenza in Terapia Intensiva e che oggi – a distanza di tre mesi e mezzo – si sta ripresentando: dopo avere avuto la necessità di fermarsi, rallentare, sfrondare,… ora la mente ha ricominciato a correre.
E la sottoscritta (ha ricominciato) a doversi fermare per scegliere, sopprimendo la pulsione bulimica di riempirsi giornate e settimane fino a scoppiare.
Già… La mente è come un sofisticatissimo software, il cui codice è in (gran?) parte ancora sconosciuto.
Riuscire a osservarne con consapevolezza (ponendosi ad una certa metaforica distanza) i risultati comportamentali (sia verbali, che di comprensione) è per me sempre fonte di sorprese.
E più di una volta – in questi mesi – ho osservato cose che ho detto e ho fatto, analizzandole a posteriori e rendendomi conto talvolta di essermi comportata in modi ora infantili, ora dittatoriali, ora ostinati, ora direttivi… nel mentre l’Adulto (e la razionalità, alla quale tentavo di ancorarmi) faticosamente tentava di mediare e di filtrare.
[Fatta eccezione per la foto del libro di Irvin Yalom, le altre foto sono tratte da Pexels]