E’ di qualche giorno fa questa notizia pubblicata nella sezione online “Corriere Sociale” del Corriere della Sera:
Ecco piatti e posate creati da un giovane designer per chi soffre di Alzheimer
Leggendo di questa iniziativa del designer Sha Yao, confesso che mi si è aperto il cuore.
Perché? Vado a spiegare.

Nonostante io sia laureata in architettura, non mi sono mai riconosciuta nel ruolo e non mi sono mai sentita un architetto.
Tant’è che già negli ultimi due anni del corso di studi, ho cambiato indirizzo approdando all’allora neonato “indirizzo strutturale” (un indirizzo che iniziava a tracciare un legame con l’ingegneria strutturale, cercando di colmare falle sempre più ampie nella formazione di allora).
Furono due anni tosti, ma anche inaspettatamente più consoni per me, che con la progettazione architettonica sentivo di non avere nulla a che fare (sono sempre stata manchevole di quel “guizzo” di creatività che contraddistingue colleghi che sono in grado di trovare soluzioni architettoniche interessanti ed inconsuete).
Successivamente, la mia storia professionale mi ha portato ad entrare sempre più nel mondo tecnico della progettazione (declinato in vari aspetti) e contemporaneamente:
- a sperimentare l’utilizzo di oggetti di design (come utente e come tutti),
- a frequentare più edizioni del Salone del Mobile (dove ho visto “cose” bellissime, minimaliste, linearissime e – spesso – tutte uguali; oppure oggetti e arredi talmente stravaganti da rappresentare un esercizio di stile, ma di dubbia utilità quotidiana),
- a dialogare con colleghi che progettano spazi tra loro pressoché uguali,
e mi sono allontanata sempre più dal settore e dalla disciplina.
Perché sempre più campo di sperimentazioni fini a se stesse, e – spesso ma non sempre – veicolo di pura autoreferenzialità del progettista, completamente dimentico delle esigenze reali dell’utente finale.
Qualche giorno fa parlavo con un collega ingegnere che ha appena acquistato un piano cottura elettrico per la mamma anziana (per ridurre il rischio “gas dimenticato aperto”).
Mi raccontava di come sono piccole le manopole, corredate di scritte poco leggibili e poco comprensibili (a livello di significato delle funzioni).
Di come i telefoni cellulari (anche i più elementari) hanno tastiere inadatte a persone anziane.
[Mi sono ricordata di un telefono cellulare della Brondi dotato di una tastiera semplicissima con pulsanti enormi. Adattissimo per persone anziane. Tant’è che ho recuperato le informazioni e gliele ho girate.]

Abbiamo condiviso entrambi una riflessione (pur trovandoci – accademicamente parlando – su fronti contrapposti): anziché ostinarsi (quasi) tutti a voler diventare i “Norman Foster del futuro” (mi spiace deludere i colleghi ma di persone così ce ne sono poche…), e a progettare spazi tra loro tutti sconsolatamente uguali, forse conviene pensare ad un recupero della vera “funzione” dell’architetto.
Intesa come progettazione ergonomica degli spazi e degli oggetti.
Orientata all’uomo.
Con un occhio ad uno dei più importanti utenti dei prossimi anni: l’anziano con le sue peculiarità motorie e percettive.
(Senza dimenticare la progettazione per persone con disabilità: altra area molto importante)
Lì, secondo me, c’è tantissimo lavoro da fare.
Lì è una sfida tra estetica, scienza, ergonomia ed ingegneria.
Lì, sempre secondo me, si impara ad ascoltare ed osservare le esigenze dell’utente.
Se vi interessa, questi sono altri link relativi al progetto Eatwell:

3 pensieri riguardo “Progettare per gli altri”