Complessità e incertezza

Il periodo che stiamo vivendo (e non mi riferisco solo alla pandemia in corso, ma anche alle altre vicende che agitano il mondo negli ultimi tempi), mi hanno fatto immergere nelle realtà parallele del comportamento umano.
Talvolta sfiorando la morbosità e comunque vivendo un certo disagio (mi è capitato di leggere su Internazionale un reportage scritto da Wu Ming 1 [un collettivo di scrittori] sul mondo di QAnon, che mostra una realtà che si fa fatica ad accettare come esistente: Il mondo di QAnon: come entrarci, perché uscirne. Prima parte).

E proseguendo in questa assai particolare esplorazione “dell’animale uomo” (come lo chiama mio padre), l’altro giorno ho letto un altro interessante articolo (sempre su Internazionale): L’intreccio tra complotti e populismo in Italia

Al suo interno vi è un passaggio secondo me interessante.
Lo ri-coniugo qui sotto, come introduzione alla lettura dell’articolo.
Partendo da un episodio abbastanza surreale, perché coinvolge un giornalista sempre abbastanza assennato, l’autore dell’articolo (Alessandro Calvi di Voxeurop) scrive:

“[…] anche per i più “insospettabili”, scivolare dall’analisi della realtà verso teorie di natura complottistica le quali, in genere, semplificano la complessità del reale, rassicurando chi le ascolta o costruendone l’identità.”

Semplificazione di una realtà sempre più complessa, che talvolta stentiamo a comprendere.
Una sorta di due velocità (la nostra, di creature analogiche con un numero “limitato” di sinapsi, e quella là fuori che viaggia ad una velocità molto più elevata) che genera un divario profondo.

E questa incomprensibilità può portare a due comportamenti, secondo me:

  • una continua, costante (e faticosa) corsa al cercare di comprendere (e di anticipare),
  • un rifiuto generato dal non comprendere che genera a sua volta paura e porta al rifugiarsi all’interno di una fortezza.

Una fortezza le cui mura sono costituite da certezze acquisite nel tempo che fu ma che – in confronto alla realtà là fuori – hanno (nel bene e nel male) fatto il loro tempo.
Certezze che rifiutano a priori qualsiasi cosa sia diversa dal proprio schema consolidato.

E questo atto di proteggersi dalla “paura del là fuori” mi fa pensare anche al fare gruppo/branco: l’aggregarsi con chi la pensa come noi rinforzando i nostri bias, in un corto circuito vizioso.

Foto di Ishan @seefromthesky su Unsplash

A questo punto il post che avevo inizialmente pensato di scrivere avrebbe preso una direzione di appello all’informarsi, alla verifica delle fonti, ecc. ecc.

Ma stamattina in “Morning” (il podcast de Il Post) ho ascoltato di un post scritto su Facebook da Daniele Ranieri (giornalista de Il Foglio) che sono andata a leggere e che – ahimè – mi sono ritrovata a condividere nel ragionamento.
E che sintetizzo in questa frase qui sotto (che è una personale sintesi).

E’ uno spreco di tempo ed energie il voler convincere persone a fare cose che non vogliono fare: più insistiamo più confermiamo i loro bias; più ne parliamo e li coinvolgiamo, più li facciamo sentire persone speciali e quindi importanti, rinforzando la loro identità.

Ed è quello che – con grandi scrupoli e a modo mio – sto facendo da qualche giorno a questa parte anche sui miei piccoli profili social (soprattutto Facebook, dove lo scontro è molto acceso): sto rimuovendo (e talvolta bloccando) persone i cui post mi compaiono in timeline e narrano di complottismi, sostenendo teorie negazioniste.

Questo non mi fa di certo stare bene, eticamente parlando (mi faccio una montagna di scrupoli).
Un’amica commentava il suo timore (da me condiviso) di chiuderci a nostra volta in una bolla contrapposta all’altra.
Ma in questi tempi così complessi mi vedo costretta a fare “di necessità virtù”.

Coltivando il dubbio (che ha modalità espressive ben diverse dal negazionismo e dal complottismo).
Cercando di aprirsi un varco nella foresta di parole, per cercare di intravedere possibili strade valide da percorrere.

[La foto di intestazione e dì Waldemar Brandt su Unsplash]

In galleggiamento o in transito?

Qualche giorno fa, condividevo una riflessione su Facebook in merito ad una sorta di “stanchezza sottile” che mi sta mettendo da diverso tempo nella condizione di desiderare ardentemente di stare seduta sul divano a non fare nulla e a fissare il vuoto…

Chiedo…Ma anche voi siete stati colti dalla sindrome “non ho più voglia di fare niente”?
Perché è qualche giorno che avrei solo voglia di stare seduta sul divano a fissare il vuoto senza fare assolutamente nulla…
Ditemi che anche qualcuno di voi si trova nella stessa situazione, perché se no mi preoccupo…
(E non ci sono vitamine che tengano, specifico)

Tante sono state le risposte ed in tanti ci siamo contati.
E se questo da un lato mi ha confortato (sono in buona compagnia), dall’altro mi ha fatto pensare all’onda lunga di ciò che abbiamo vissuto (questa “grande anomalia”).

Nel contempo poi il timore di scivolare nell’inedia mi fa restare vigile e mi fa stare in costante movimento (se non fisico, perlomeno mentale), guardando con sospetto ogniqualvolta la necessità di stare sul divano si ripresenti…
Necessità che poi il corpo rende impellente, andando a disturbare il sonno e quindi obbligandomi a fermarmi (sul sonno sto leggendo articoli e libri e ci tornerò).

Su questa sensazione avevo letto degli articoli (trovati casualmente) che mi ero ripromessa di recuperare e che – alla fine – sono riuscita a ritrovare.
Si tratta di due contributi che riflettono sul tema dello stato di inedia e – in un mio “collegamento lateralmente” – su cosa la pandemia sta portando come “nuova normalità” (termine abusato, lo so, ma non così scontato):

Sì perché riflettendo (e facendo riferimento ai due articoli) mi è sorto un “sospetto”.

Non vorrei che anziché uno stato di galleggiamento, non si trattasse invece di uno stato di transito da un punto A ad un punto B che l’esperienza che stiamo vivendo non ha fatto altro che accelerare (e/o far emergere).

Scrivo questo perché, non so voi, ma sento comunque sottostante una necessità di rallentamento e riperimetrazione delle attività.

Un esempio stupido?
Questa mattina ho fatto (finalmente!, dopo avere rimandato per mesi) la tessera delle biblioteca del piccolo comune in cui vivo (che fa parte della rete delle biblioteche della area geografico/metropolitana in cui si colloca) per evitare di andare ogni volta a Milano a ritirare o consegnare i libri presi in prestito. Cosa che prima facevo con grande piacere, reputando lo “stare nel paesello” una cosa riprovevole (estremizzo).

E ancora: mi rendo conto che ormai acquisto abiti e accessori quasi solo ed esclusivamente online su determinati siti (una sorta di pulizia ed ottimizzazione delle attività); quando – una volta – andare a fare shopping lo consideravo un must.

Senza contare invece le volte che – al termine di giornate apparentemente inconcludenti – sento la necessità di fare l’elenco di quello che ho fatto per capire cosa ho effettivamente fatto (per scrollarmi di dosso la sensazione di inconcludenza). Perdonate la frase piena di ridondanze…

Insomma sì… forse è una fase di transito dal punto A al punto B.

E come tutte le fasi di transito ci si stanca (dello stato attuale), ci si muove in modo anche un po’ caotico (vagando alla ricerca di qualcosa, tentando, montando e smontando cose) e ci si libera (talvolta faticosamente) delle cose che non ci servono più e/o che non hanno più senso (combattendo con la a me tanto cara sindrome F.O.M.O. [Fear Of Missing Out], che spesso cito e di cui ho scritto altre volte qui).

Detto ciò, confesso di continuare a temere è “l’illanguidimento” anche se – come dissi anni fa ad una amica – il togliere ci dà la sensazione di vuoto (che noi temiamo) ma nel contempo fa anche spazio, creando la possibilità di ingresso di cose nuove.

[Foto di copertina Chris Lawton su Unsplash]

Responsabilità sociale e responsabilità individuale

Venerdì ho avuto la fortuna di fare la prima dose del vaccino Pfizer (ho perso per un soffio il monodose Janssen [Johnson&Johnson] per esaurimento scorte).
Confesso che nutrivo qualche timore verso l’AstraZeneca, ma avrei fatto qualsiasi vaccino mi fosse stato proposto, ve lo posso garantire.

Pfizer-BioNTech, forse uno dei vaccini più all’avanguardia, mai concepito sino ad oggi.
(Qui un articolo di gennaio del Il Post: Come funziona il vaccino di Pfizer-BioNTech)

Che impiega una tecnologia (mRNA = RNA messaggero) allo studio da 20 anni (non da ieri) e impiegata – se non erro – per la cura dell’AIDS e ora (grazie a questa applicazione su larga scala) possibile, concreta e futura frontiera per la cura contro il cancro e – addirittura – per la Sclerosi Multipla (qui un articolo sugli studi in corso: La tecnologia mRna per contrastare la sclerosi multipla).

Come funziona?

“[…] La strategia consiste nel fornire alle cellule le informazioni necessarie – sotto forma di mRNA – a costruire la proteina “spike” del virus. Proteina che, una volta assemblata ed espulsa dalla cellula, viene riconosciuta dal sistema immunitario dando vita alla produzione di anticorpi capaci di riconoscere il virus.”
(Da un articolo della Fondazione Umberto Veronesi: Pfizer-BioNTech e Moderna: inizia l’era dei vaccini a mRNA)

Image by rawpixel.com

Davanti ad una tecnologia così avanzata, e dopo un anno durante il quale abbiamo vissuto qualcosa che mai avremmo immaginato di vivere (lo avevamo visto solo nei film di fantascienza), quello che io faccio veramente fatica a capire è il pensiero dei “diffidenti”, alcuni dei quali (in un estremo atto di egoismo e di irresponsabilità verso l’altro [e talvolta di arroganza], forse dettati dalla paura alla base dei processi di negazione e negazionismo) aspettano che siano gli altri a vaccinarsi per non vaccinare loro stessi.
(Lascio da parte le teorie complottiste sulla modifica del DNA e sul 5G per le quali andrebbe fatta una analisi in termini psicologici e cognitivi, con una escursione nell’area dell’asimmetria dell’informazione e dei bias cognitivi.)

Ma tornando alla personale esperienza, andare a fare la prima dose è stato per me un momento di profonda gioia e gratitudine.

Avere una fortuna simile non è da tutti.
(Basti pensare ai Paesi del Terzo/Quarto Mondo o anche semplicemente a quelle fasce sociali più deboli, più geograficamente prossime a noi, che non hanno accesso neanche alle cure base.)

Sono convinta che vaccinarsi per proteggere se stessi e – soprattutto – chi ti sta intorno sia un atto di responsabilità individuale e sociale. A supporto di una visione di condivisione e di inclusione.

Chiudo lasciando qui qualche ulteriore fonte di approfondimento:

[Photo by Spencer Davis on Unsplash]

Comunicazione schizofrenica e dinamiche decisionali labirintiche

Durante questo anno appena trascorso, dopo i primi mesi che mi hanno generato qualche difficoltà emotiva, ho iniziato a seguire con maggiore attenzione la gestione della crisi e la relativa comunicazione (quest’ultima, talvolta, al limite dello schizofrenico; soprattutto qui in Lombardia).

Foto di Edwin Hooper su Unsplash

Ne ho scritto spesso su Facebook (che considero e tratto come una sorta di diario online, talvolta scritto un po’ di pancia), molto meno qui sul blog (in una categoria dedicata, cercando di farlo in modo più ponderato) ed ora – dopo qualche mese – torno sull’argomento, facendo qualche considerazione sui temi citati nel titolo di questo post.
Aggiungendo un altro tassello, in una sorta di operazione a “futura memoria”/annotazione valida per me, ma magari anche per chi legge (che – sempre magari – può aiutarmi a comprendere meglio cose che ho la sensazione mi stiano sfuggendo).

Ripercorro per sommi capi, alcuni punti degli ultimi sette giorni:

  1. lunedì 1 marzo siamo tornati in Zona Arancione, secondo l’analisi dei dati del venerdì precedente (come ogni “santo” venerdì da qualche tempo a questa parte) e leggo di una dichiarazione del Presidente Fontana (rilanciata dalle testate giornalistiche) che lamenta “Basta con questo stillicidio“, auspicando (in sintesi) una visione a media/lunga distanza;
  2. l’altro giorno ascolto la conferenza stampa di Regione Lombardia: quando è il turno di Bertolaso, egli parte con un monologo un po’ polemico (che – confesso – ho condiviso in linea di principio) dichiarando (nella risposta ad una domanda di una giornalista) che – secondo lui – tutta l’Italia si sta avvicinando a grandi passi verso il “rosso” (ricordarsi il “basta stillicidio” al punto 1, auspicando visioni a media/lunga distanza);
  3. ieri leggo la notizia dell’ennesimo invio dei dati sbagliati di Regione Lombardia (stavolta pubblici, quindi nessun “è colpa tua!”, “no, è colpa tua!”, “facciamo che non è colpa di nessuno”… della volta precedente) che ci ha fatto rimanere una settimana in più (la scorsa) in Zona Gialla (con – anche – il pasticcio degli assembramenti alla Darsena): è stato automatico per me ricordarmi delle notizie che avevo letto relative alle modalità di tracciamento fatto durante la seconda ondata (ottobre/novembre) con 120 operatori al telefono. 120 persone impegnate a tenere un tracciamento simil-amanuense in Era di Big Data, a inseguire le migliaia di casi;
  4. immediatamente a valle della lettura dell’articolo al punto 3), sempre ieri leggo della Ordinanza firmata dal Presidente Fontana che ha portato stanotte la Lombardia in Zona “Arancione rinforzata” (per te che leggi, torna al punto 1), allo “stillicidio” e alla visione a medio/lungo termine).
Foto di The Climate Reality Project su Unsplash

Ora, due considerazioni a caldo.

La prima: a seguire l’andamento labirintico delle gestione della situazione e della relativa comunicazione pensi di avere seri problemi di comprensione.

La seconda: davanti a dinamiche simili il comportamento schizofrenico sembra una barzelletta, al confronto.

Mi rendo conto essere due considerazioni che possono amareggiare.
Sono due considerazioni che mi fanno rabbrividire soprattutto per quello stile di comunicazione da campagna elettorale (per alcuni aspetti) che – al di là delle giuste informazioni numeriche – agita gli animi e non fa bene al senso civico (già messo a dura prova dalla scarsa educazione e alto egoismo che contraddistingue le ultime generazioni [compresa quella di chi scrive], e che ha qualche familiarità con la dinamica NIMBY – Not In My Back Yard).

E’ vero che uno potrebbe chiedermi (cosa che io puntualmente faccio davanti a chi contesta senza essere propositivo): “E tu cosa avresti fatto di diverso?”

Non lo so. So però che la comunicazione potrebbe essere un po’ più filtrata (non censurata: filtrata e “meditata”) e meno emotiva. Mettendo da parte polemiche sterili e comunicazioni da campagna elettorale, che non aiutano nessuno sulla breve/media/lunga distanza. Anzi, agiscono aggiungendo difficoltà a difficoltà. Con ricadute sulla gestione delle dinamiche sociali.

Foto di Ivan Diaz su Unsplash

Per concludere, un’ultima considerazione personale che mi richiama un (spero errato) “la storia si ripete”.

Il piano vaccinale di massa (in Lombardia): ineccepibile sulla carta e gigantesco per estensione.
(Si può ascoltare seguendo il link della conferenza stampa che ho inserito nel punto 2).

Mancano i vaccini: lo sappiamo ed è un problema esteso (ieri leggevo la newsletter di ISPI sul tema e sullo “strappo” di Austria e Danimarca).
Ma mi ricorda – con grande inquietudine – la vicenda dell’Ospedale in Fiera: una astronave senza equipaggio (ai tempi) richiesto (poi) agli altri ospedali (già in affanno).

Spero davvero che – questa volta – il percorso della vicenda sarà diverso.
(Apprezzabile comunque la scelta dell’utilizzo di strutture esistenti, lasciando da parte il discutibile progetto dei “padiglioni Primula“).

[L’immagine di copertina è di visuals su Unsplash]

Effetti collaterali [2]

Questo post “arriva un po’ lungo”.

Sono considerazioni fatte intorno a metà giugno, nel mentre mi approssimavo a Villa Litta ad Affori, che ospita la Biblioteca di quartiere (facente parte del Sistema Bibliotecario Milano), per ritirare due libri: “Percezioni” di Beau Lotto e “Tutto il ferro della Torre Eiffel” di Michele Mari (che hanno inaugurato un mio piccolo progetto che ho denominato #1tweet1libro e #microrecensioni, che condivido sui profili Instagram [in una Stories dedicata] e Twitter).

Ma lo scopo di questo articolo non è una dissertazione sui due libri (di cui peraltro consiglio la lettura).
E’ invece il cercare di raccontare della sensazione che ho provato entrando al parco della Villa.
Un parco che non conosco bene, confesso!, e che ho ad oggi esplorato solo in minima parte.

Ebbene, varcando la soglia quel sabato di giugno è stata meraviglia.
Meraviglia e stupore.

Stupore della bellezza e del verde che erano ovunque.
Come se li vedessi per la prima volta.
Una sensazione strana.

Forse complice il maltempo dei giorni precedenti ed il sole che aveva fatto esplodere la natura, rendendola ancora più rigogliosa, aveva reso più vividi i colori?
Forse.

O forse è stato l’effetto manifesto di uno degli ulteriori effetti collaterali?
Forse l’esperienza del lockdown ha acuito i sensi?
Forse il periodo di silenzio e immobilità è stato un momento per recuperare alcune cose di cui mi ero dimenticata?

Chi lo sa?

Di sicuro però, l’occhio ha (re)imparato a vedere le cose in maniera diversa.
Nuova.

Così come l’orecchio che – complice le notti dal silenzio assordante di quei giorni, intervallato dai rumori delle ambulanze – ha (re)imparato ad ascoltare tutti quei rumori che prima davo per scontati (il fruscio delle foglie mosse dal vento, per esempio…).
E la pelle, che ha (re)imparato a percepire la vivida sensazione del vento sul viso, assaporato durante una passeggiata nel verde qualche settimana fa…

Sì, penso che sia un ulteriore effetto collaterale della esperienza vissuta.
Una “deprivazione motoria” necessaria che ha aumentato la percezione dei sensi, in una sorta di allenamento isometrico.
Preparandoli inconsapevolmente al momento in cui si sarebbero ritrovati (i sensi) nell’ambiente esterno, in una rinnovata condizione di lettura e percezione.

[La gallery delle foto di quel giorno è a questo link: Villa Litta]

L’Epica di una carta di credito

[Sottotitolo: La Burocrazia ai Tempi del Coronavirus]

In questi giorni la mia pazienza con la mia banca (e la carta di credito da loro emessa) è stata messa a durissima prova…
In una sorta di “Stress Test” ad altissimo livello (emotivo)

Ma andiamo con ordine.

Photo by Sharon McCutcheon on Unsplash

Succede, talvolta, che – utilizzando molto la Carta per gli acquisiti online – ci siano dei “piccoli incidenti”: l’addebito di spese non effettuate, la clonazione, e altre amenità simili…

Il sistema dell’sms è ottimo per avere in tempo reale la segnalazione di operazioni. (Così come le stesse App delle carte di credito che funzionano allo stesso modo.)
E così è successo con una spesa addebitata a marzo (già in lockdown) per un abbonamento online per un antivirus.
Spesa che denuncio a fine aprile (dopo che mi ero prodigata autonomamente in controlli, accertandomi che non si trattasse di un servizio al quale ero abbonata, e di cui mi ero serenamente scordata [avevo anche fatto richiesta dell’estratto conto – stesso periodo – dell’anno precedente, per un controllo incrociato]).

Seguo le istruzioni sul sito della Banca e avvio le procedure, chiamando il numero indicato (indicato anche per le contestazioni di spese e non solo per blocco carta).

Centraliniste (1930) – Fonte Touring Club

L’operatore che mi risponde esordisce (dopo la mia breve spiegazione iniziale) con: “Ma questo è il numero per il blocco delle carte…” (con tono come se fossi io la stordita).
Rispondo: “Questo è il numero che c’è sul portale della Banca…” (con tono stile “mi pigli per cogliona?”, scusate il francesismo…).
Ritornato a più miti consigli (non senza comunque velata saccenza), mi guida su cosa fare ed io opero immediatamente:

  1. compilando il modulo (CARTACEO, scaricato dal sito della Banca…)
  2. scansionando il modulo (col TELEFONO… ricordiamoci sempre che siamo in lockdown)
  3. inviando il modulo (via MAIL…)

Tutto tace per qualche giorno, finché – facendo la spesa e pagando con la carta di credito – la carta viene rifiutata.
Uso altra carta (per fortuna) e parlando con la cassiera, conveniamo che forse c’è stato un blocco preventivo della carta “incriminata”.

Dopo qualche giorno mi arriva una busta (via POSTA NORMALE) che mi informa che la mia carta è stata preventivamente bloccata e, entro 15 GIORNI dalla data di ricevimento della presente (che NON ha nessun timbro che attesti la data di ricevimento…), devo:

  1. compilare il modulo allegato (IDENTICO a quello inviato via mail…)
  2. fare denuncia ai Carabinieri, allegandola al modulo “di cui la Punto 1.”
  3. inviare la documentazione via mail o via fax (il fax… questo glorioso aggeggio che resiste nel tempo…)
  4. telefonare al numero XYZ per confermare blocco della carta (…)
©Hanna-Barbera Productions [Foto d’epoca]

[Ricordo che siamo sempre in periodo Covid19…]

Vado dai Carabinieri che mi dicono che devo farmi dare dalla Banca la “lista movimenti” per risalire alla fonte della spesa (l’estratto conto non è sufficiente).

Vado in banca e scopro (essendo una che ci va pochissimo) che ricevono solo su appuntamento… (cerco di tenere a bada il mio “disappunto”, tenendo conto del periodo complesso che stiamo vivendo che comporta il “contingentamento ovunque e comunque”).
Telefono alla banca da fuori dalla loro porta, mi risponde un addetto e spiego la faccenda.
Mi dice che loro non possono vedere la “fonte della spesa” e che sono dati che ricevo solo io con il mio estratto conto.

(Inizio ad incazzarmi, perdonate il francesismo…)

Rabbia – Inside Out – ©Pixar

Faccio un bel respiro e torno dai Carabinieri (con l’estratto conto al seguito, che avevo già con me al primo giro).

Spiego la faccenda, abbiamo un confronto di vedute, mi arrendo e dico: “Torno in banca e vedo di portare a casa l’informazione…”
Il Carabiniere vede vacillare la mia tenuta mentale ed emotiva (nonostante indossi la mascherina) e mi dice: “Non si preoccupi, facciamo la denuncia”.
Spiegandomi nel frattempo le motivazioni della loro richiesta della “lista movimenti”, che non è l’estratto conto.
(Peccato però che la banca è “caduta dalla pianta” sostenendo che loro non possono accedere ai dati che vengono inviati solo a me… quindi?… che famo?…)

Fa niente.
Porto a casa la denuncia, faccio la scansione e invio tutto via mail.
(Nel frattempo ricevo la mail di avvenuta presa in carico, che mi dice che riceverò notizie via POSTA NORMALE)
E mi dimentico di fare la telefonata…

Peter Sellers in Hollywood Party [1968]


Passano i giorni…
Mi viene improvvisamente in mente che non ho più fatto la telefonata per confermare il blocco.
E sorge il dubbio amletico:

A chi telefono?
Al Servizio Clienti?
Oppure al numero sulla lettera ricevuta (quella del Blocco Carte)?

[Nel frattempo dal portale della banca scompare la carta di credito. Non esiste più. Ma non ho nessuna notizia di nuove emissioni di nuove carte di credito…]

Tiro la monetina e decido di chiamare il Servizio Clienti.

E dopo avere dipanato la matassa dei “digita X per parlare con… digita Y per parlare con… digita Z per parlare con… e ora digita il numero della tua carta di credito… e ora digita la tua data di nascita…“, riesco a parlare con una signora molto gentile che mi aggiorna che…

  • Sì – il rimborso della spesa non riconosciuta c’è stato (Yuppiiii!)
  • E – no, in effetti – non c’è stata nessuna emissione di nuova carta…
[Foto ANSA]

Sconfortata le dico: “Mi dica cosa devo fare per la nuova carta…”

La signora mi risponde: “Non si preoccupi, ci penso io. Inoltro io la richiesta alla sua filiale. Consideri che riceverà comunicazione via posta della avvenuta emissione della nuova carta, da ritirare in filiale.”
[E qui ci sta perché – via mail – comunicazioni simili possono essere preda facile di operazioni di phishing]

Passa qualche giorno e arriviamo ad oggi.

Inizio mese, faccio per entrare nel portale della banca – per controllare i movimenti – utilizzando la App sul telefono per accedere al sito e… la App non va!
Si impalla e non riesco ad avere lo sblocco per accedere su pc…
Né col riconoscimento facciale, né facendomi inviare il codice di accesso in formato numerico…
[Il mio equilibrio emotiva inizia a vacillare daccapo…]

Ma…
Nel tempo impiegato nello scrivere questo post di “sfogoracconto”, la App si sblocca ed io riesco ad accedere al sito.
Scoprendo nel frattempo che una nuova carta di credito è stata emessa…!

Forse un giorno riceverò la lettera che mi dice di recarmi in filiale per prendere la carta…
[Male che vada, telefono in questi giorni per prendere appuntamento.]

Come disse quello (aka Nick Carter): “Tutto è bene quel che finisce bene… E l’ultimo chiuda la porta!”

Nick Carter – ©riservati

[Immagine di copertina Avery Evans su Unsplash]

Abitare gli spazi

Negli ultimi tre mesi abbiamo trascorso gran parte del nostro tempo tra le mura domestiche.
Ed è molto probabile che ne trascorreremo molto altro ancora (di tempo), assorbendo gradualmente e sempre più (spontaneamente o meno) nuove modalità di vita e lavoro.

Photo by Patrick Perkins on Unsplash

Una “nuova normalità” (con buona pace di coloro che non apprezzano questo modo di definire questa quotidianità post-lockdown nella quale ci stiamo inoltrando) che sta mettendo in difficoltà molti di noi (a vari livelli, a seconda delle condizioni di vivibilità) che ci sta testando sia da un punto di vista fisico (la mobilità diversa), sia da un punto di vista psicologico.

Abitudini, agende, orari, movimenti e ritmi… tutto nuovo (o quasi).

Parlando con dei colleghi, ho ascoltato di diverse reazioni.
C’è chi ha deciso di affittare lo studio e lavorare (definitivamente) da casa.
Chi sta assaporando il lavoro da casa, forte di una disciplina che fa sì che rispetti orari che non lo portino ad abbruttirsi davanti al computer, migrando dal divano al letto, e viceversa.
E c’è chi – come me – dopo l’entusiasmo iniziale, fatica ad imporsi una disciplina (sulla quale sta lavorando).

Ma questo non è un post sulla organizzazione del tempo.
Sono la persona meno indicata per scrivere sul tema (a meno che non condivida un elenco di cose da non fare).

Questa è una riflessione sugli spazi che abbiamo abitato così tanto negli ultimi mesi (è probabile che molti di noi abbiano trascorso molte più ore in casa in queste settimane, che negli ultimi cinque anni…).

Spazi abitati sui quali in molti hanno scritto e parlato.
Evidenziando che la casa – oggi – ha assunto improvvisamente e realmente (anche) la funzione di luogo di lavoro, dopo che se ne teorizzava da tempo, restando sempre nell’ambito di pochi esempi “di nicchia”.

Vita personale e vita professionale, raccolte all’interno degli stessi metri quadri.
In una situazione forzata che forse ha distorto (nel bene e nel male) la percezione del tutto.

E nei periodi più difficili ho tenuto sempre “a portata di click” la videointervista ad Astrogiulia (al secolo Giulia Bassani) Coronavirus: stare a casa è un po’ come stare nello spazio. Parola di Astrogiulia (una piccola ancora di salvezza per vedere le cose da un lato diverso e più costruttivo)
Un video che – di recente e a scoppio ritardato – mi ha acceso una lampadina e mi ha fatto mettere insieme argomenti dei quali mi interesso da tempo ma mai – fino ad oggi – approfonditamente come vorrei.

Tre argomenti che riguardano gli spazi che usiamo, non da un punto di vista stilistico e di design ma da un punto di vista di fruizione dell’utente.
Che tanta familiarità hanno con il tema (quasi una missione che ho e mi muove) “progettare per gli altri“.

Illuminotecnica – Teoria del Colore – Architettura Comportamentale.

In foto temperature di colore diverse (l’influenza sui ritmi circadiani) – Foto ©iGuzzini

L’Illuminotecnica, una scienza che mi affascina da tempo e che non riesco ad afferrare totalmente in tutte le sue sfaccettature.
Ma che mi è particolarmente cara per la sua importanza sull’uomo.
Infatti è una disciplina che non mi affascina per il suo saper generare effetti scenografici (comunque stupefacenti); bensì mi affascina il suo influire (nel bene e nel male) sul benessere e sulla quotidianità dell’essere umano.
Un tema che ho sentito particolarmente nei giorni nei quali non uscivo di casa e che mi ha portato ad osservare con occhi nuovi l’illuminazione (artificiale e naturale) in casa.

Solido di Munsell – https://it.wikipedia.org/wiki/Sistema_Munsell_dei_colori

La Teoria del Colore (è recente la mia associazione al Gruppo del Colore dopo un corso che mi ha fatto scoprire un mondo nuovo), altra disciplina che leggo in relazione al benessere e alla quotidianità dell’essere umano.
Una scienza dove il colore non è solo un elemento decorativo ma anche – e soprattutto – una componente in grado di influire sullo stato psicologico dell’individuo.
(Ricorderò sempre la mia riflessione – in tempi non sospetti, tanti anni fa – osservando un vecchio ufficio che aveva pareti grigie, arredo metallico e luci al neon; ricordo che pensai: “Capisco perché chi lavora qui dentro è particolarmente scontroso…!”)

Photo by Zac Ong on Unsplash

Ed infine l’Architettura Comportamentale, scoperta grazie ad un corso frequentato nel 2018 a tema “Architettura e Psicologia”. Una esperienza che mi entusiasmò e mi fece esultare nel vedere finalmente delle contaminazioni “dichiaratamente chiare” tra ambiti non così lontani fra loro (contaminazioni che possono apparire scontate, ma in realtà non sono poi così banali).
Una disciplina – anche qui – che mette “insieme e in chiaro” due ambiti di studio che collaborano per rendere lo spazio più “amichevole” (user friendly, se vogliamo usare un anglicismo) e fruibile nella sua quotidianità.

Illuminotecnica – Teoria del Colore – Architettura Comportamentale

Tre aspetti che credo diventare ancor più importanti nella nostra nuova quotidianità (insieme alla Ergonomia, altra scienza legata alla fruibilità fisica degli oggetti).
Nei nostri ambienti domestici.
Che sono stati (nelle scorse settimane) luoghi nei quali abbiamo vissuto e lavorato con maggiore intensità.
E che forse abbiamo visto e vissuto – per la prima volta – da una diversa angolazione.
Scoprendone anche forse aspetti che non conoscevamo.

Photo by Samule Sun on Unsplash


[Immagine di copertina di Michael Browning su Unsplash]

Effetti collaterali

Qualche notte fa mi sono svegliata di soprassalto a causa di un incubo.

Un sogno in cui non si vedeva nulla, ma nel quale fuggivo da un qualcosa che mi braccava, e dal quale mi nascondevo insieme ad un’altra persona a me totalmente sconosciuta.

Non so interpretare i sogni, ma è quasi sicuro che la dinamica dell’incubo sia stata generata dalle settimane di lockdown (che hanno messo a dura prova la tenuta mentale di molti di noi) e dalla – personale – preoccupazione della Fase 2 (che io ho ribattezzato Fase 1.1).

Foto di Wolf Zimmermann su Unsplash

Uno stato d’animo che mi ha indotto ansia e mi ha fatto tendere all’isolamento al momento della prima, timida, riapertura.
E che per combattere il quale mi sono sforzata di uscire a passeggiare, per prendere un po’ di aria ed un po’ di sole.

Sì perché, non so voi, ma la tanto agognata (nei giorni di quarantena) passeggiata è diventata qualcosa di “troppo impegnativo” (la scusante) al momento della sua fattibilità.

Mi sono così “scoperta” in un nuovo equilibrio che nascondeva un desiderio di bolla protettiva.
Una bolla consolidata e assecondata dalla mia atavica pigrizia e dai due mesi di quarantena che hanno riorganizzato la quotidianità in modo conservativo.

Foto di Sharon McCutcheon su Unsplash

Un mix di pensieri ed emozioni abbastanza pericoloso di cui ero (e sono tuttora) cosciente del suo essere infido.
Ma non per questo meno seducente nella sua forma di protezione (quella sensazione che provavo solitamente quando tornavo a casa dopo una giornata di lavoro, e che verbalizzavo – riferito alla casa – come “la mia tana”, portata qui all’estremo).

Un “conforto” (o per meglio dire, “conferma”) a questo comportamento l’ho trovato in questi articoli:

Sindrome della capanna (o del prigioniero) – pubblicato sul sito GreenMe

Lo strano desiderio di voler restare a casa – pubblicato su Rivista Studio

Tre mesi di Coronavirus – pubblicato su Rivista Studio

Tre articoli che ben descrivono una sensazione tuttora presente (e comune anche ad altre persone con le quali mi sono confrontata).
E che nella sua presenza mi ha messo gradualmente in difficoltà attraverso un progressivo sovraccarico di attività al computer che – ad un certo punto, in questa settimana che è appena passata – ha fatto saltare tutti i ritmi e le alternanze fondamentali che contraddistinguono uno smart working sano.

Disturbo post-traumatico da stress” potrebbe dire qualcuno (in forma lieve, aggiungo io).
Burnout“, potrebbe dire qualcun altro (anche se impropriamente, per alcuni aspetti).
Qualsiasi cosa sia quella che in questi giorni mi è accaduta (attacco di ansia, progressivi disturbi del sonno sotto forma di insonnia e di incubi), si è presentata credo per “logoramento”.

Foto di Drew Beamer su Unsplash

Ma c’è dell’altro.
Scontato ma forse non così banale, e con una traccia di positività che può essere catturata.

Questa “esperienza Coronavirus” ha cambiato le mie abitudini (le ha cambiate a molti di noi).
Dimostrando – se mai ce ne fosse stato bisogno – che nuove modalità di lavoro sono possibili (confermate anche da telefonate con colleghi, con i quali abbiamo scambiato anche riflessioni personali).
Tratteggiando nuovi scenari ancora difficili da comprendere ma comunque diversi dai precedenti.
In costante divenire.

Per quanto riguarda l’operatività, la personale area di attenzione resta la disciplina.

L’imparare a stabilire quando “mettermi al computer” e quando staccare (soprattutto alla sera, se non voglio crearmi ulteriori problemi di insonnia grazie alla luce blu emessa dai monitor che altera i ritmi circadiani).
Il reintrodurre l’attività fisica, mantenendo la buona alimentazione che sono riuscita inaspettatamente ad applicare (che mi ha fatto perdere qualche chilo a beneficio del fisico).
Il ricominciare a leggere libri (visto che un altro effetto collaterale è stata la grande fatica nella lettura, a favore della consultazione di notizie che – dopo una prima ubriacatura – sono andata a ridimensionare a favore di una maggiore “pulizia informativa” e conseguente ricerca di migliore sanità mentale).

Ridisegnando la propria realtà.

Che è forse il compito che mi attende da adesso in avanti.

[Immagine di copertina di Andrew Neel su Unsplash]

DonnaONLine

Lo scorso 7/8 marzo si sarebbe dovuto svolgere a Riccione il quarto Congresso DonnaON.
Sappiamo come è andata in quelle settimane: l’epidemia dilagante, i decreti e le ordinanze sempre più restrittive, i lockdown che si sono moltiplicati in un effetto domino…
Interi eventi, fiere e manifestazioni venivano via-via posticipati di qualche mese fino ad essere rinviati all’anno successivo… e anche DonnaON non è stato da meno.

Ma dopo un momento di comprensibile smarrimento, Carina Fisicaro (Founder del progetto) ha organizzato in breve tempo due maratone in diretta su Facebook a distanza di due settimane l’una dall’altra.
La prima a metà aprile e la seconda durante il primo weekend di maggio:

Empowered Women United for a World ” DonnaONLine” (18/19 aprile)

DonnaONLine Empowered Women United for the World (2/3 Maggio)

Due weekend durante i quali circa 40 professioniste (complessivamente) si sono alternate in una staffetta di speech della durata di 45 minuti, nei quali hanno condiviso esperienze, riflessioni, suggestioni e strumenti per fare meglio e affrontare questo periodo ad alta imprevedibilità.

Nei due weekend ho avuto il piacere e l’onore di portare il mio contributo su due temi a me molto cari: le parole e la loro cura (di cui avevo già fatto una specie di test-speech qualche settimana prima) e la leadership di servizio (di cui avevo scritto un articolo per QuiFinanza a gennaio).

I video delle dirette di tutte le speaker sono disponibili sulle pagine Facebook i cui link sono elencati qui sotto, mentre – in chiusura di questo articolo – sono visibili i video dei miei due interventi (disponibili anche sul mio canale YouTube):

Empowered Women United for a World ” DonnaONLine” (18/19 aprile)

DonnaONLine Empowered Women United for the World (2/3 Maggio)

L’importanza delle parole | DonnaONLine – Maratona Facebook 18/19 aprile 2020

La leadership di servizio | DonnaONLine – Maratona Facebook 2/3 maggio 2020

Le slide dell’intervento sono disponibili su Slideshare a questo link: La Leadership di Servizio.

La difficile sopravvivenza in mezzo alle parole

Da qualche giorno ho rallentato la consultazione delle notizie.
Smettendo anche di seguire le conferenze stampa quotidiane che snocciolano numeri e raccontano (con vari “tone of voice“) delle attività attorno alla pandemia.

Perché?

Foto di Kaboompics .com da Pexels

Perché qualche mattina fa ho fatto il mio solito giro sulle testate online.
Quelle a cui sono fedele (Il Post, Internazionale, Rivista Studio e Youmanist) e le altre più comuni (le versioni online delle storiche testate cartacee).

Inutile nascondere la diversità di comunicazione tra il primo gruppo ed il secondo.

Per come l’ho percepito io, un abisso.

Ma mi sono anche osservata nel mentre navigavo in mezzo alle loro parole.

E ad un certo punto mi sono accorta che sul secondo gruppo mi stavo “avvelenando il fegato” (tra polemiche e altre “amenità” di varia gravità che – se assecondavo – mi avrebbero trasformato a breve in un essere estremamente “aggressivo” [per usare un eufemismo] e facile preda di un profondo disfattismo).

Ho chiuso tutto.
E mi sono fatta una domanda (retorica)

Quanto rischio nel non volermi più informare?
Nel non volere più leggere notizie?

[Continua dopo la foto]

Foto di Produtora Midtrack da Pexels

Nel farmi questa domanda (di cui conosco già la risposta, che rischia di infilarmi in un altro problema che cito più avanti), ho percepito una manifestazione diversa della Sindrome FOMO (Fear Of Missing Out).
Quella pulsione che ti spinge a esserci, sempre e comunque, per il timore (infondato) di perderti qualcosa.

Alla domanda mi sono risposta, dicendomi:

Segui solo quello di cui ti fidi e che è affine a quello che tu sei

Ben conscia – in questo caso – di rischiare di scivolare nei Bias di conferma.

Esercizio funambolico, di questi tempi (su cui ho riflettuto recentemente).
Che – in casi di estremizzazione – ti porta a sentire la pulsione all’eremitaggio digitale e fisico (quest’ultimo già in atto e che sta esercitando tutto il suo potere seduttivo).
Con tutti i rischi che questo comporta.

E proprio sulla gestione funambolica di questa incertezza, nei giorni successivi ho letto una riflessione interessante a firma Annamaria Testa (una certezza nel panorama della comunicazione declinata in molti modi), pubblicata sul suo blog Nuovo e Utile: 4 modi per gestire l’incertezza (solo uno è quello buono)
Blog di cui avevo iniziato a leggere ad alta voce alcuni brani sul mio canale Spreaker (attualmente in stand-by) e di cui mi è tornata la voglia di leggerne brani ad alta voce, traendone tracce audio.

4 modi per gestire l’incertezza (solo uno è quello buono)

E sempre in tema di Bias, sempre di Annamaria Testa (che ha affrontato il tema molte volte) è questa altra interessante riflessione: Bias cognitivi e decisioni sistemiche ai tempi del virus:

Bias cognitivi e decisioni sistemiche ai tempi del virus

[Immagine di copertina Public Domain Pictures su Pexel]