Il periodo che stiamo vivendo (e non mi riferisco solo alla pandemia in corso, ma anche alle altre vicende che agitano il mondo negli ultimi tempi), mi hanno fatto immergere nelle realtà parallele del comportamento umano.
Talvolta sfiorando la morbosità e comunque vivendo un certo disagio (mi è capitato di leggere su Internazionale un reportage scritto da Wu Ming 1 [un collettivo di scrittori] sul mondo di QAnon, che mostra una realtà che si fa fatica ad accettare come esistente: Il mondo di QAnon: come entrarci, perché uscirne. Prima parte).
E proseguendo in questa assai particolare esplorazione “dell’animale uomo” (come lo chiama mio padre), l’altro giorno ho letto un altro interessante articolo (sempre su Internazionale): L’intreccio tra complotti e populismo in Italia
Al suo interno vi è un passaggio secondo me interessante.
Lo ri-coniugo qui sotto, come introduzione alla lettura dell’articolo.
Partendo da un episodio abbastanza surreale, perché coinvolge un giornalista sempre abbastanza assennato, l’autore dell’articolo (Alessandro Calvi di Voxeurop) scrive:
“[…] anche per i più “insospettabili”, scivolare dall’analisi della realtà verso teorie di natura complottistica le quali, in genere, semplificano la complessità del reale, rassicurando chi le ascolta o costruendone l’identità.”
Semplificazione di una realtà sempre più complessa, che talvolta stentiamo a comprendere.
Una sorta di due velocità (la nostra, di creature analogiche con un numero “limitato” di sinapsi, e quella là fuori che viaggia ad una velocità molto più elevata) che genera un divario profondo.
E questa incomprensibilità può portare a due comportamenti, secondo me:
- una continua, costante (e faticosa) corsa al cercare di comprendere (e di anticipare),
- un rifiuto generato dal non comprendere che genera a sua volta paura e porta al rifugiarsi all’interno di una fortezza.
Una fortezza le cui mura sono costituite da certezze acquisite nel tempo che fu ma che – in confronto alla realtà là fuori – hanno (nel bene e nel male) fatto il loro tempo.
Certezze che rifiutano a priori qualsiasi cosa sia diversa dal proprio schema consolidato.
E questo atto di proteggersi dalla “paura del là fuori” mi fa pensare anche al fare gruppo/branco: l’aggregarsi con chi la pensa come noi rinforzando i nostri bias, in un corto circuito vizioso.
…

A questo punto il post che avevo inizialmente pensato di scrivere avrebbe preso una direzione di appello all’informarsi, alla verifica delle fonti, ecc. ecc.
Ma stamattina in “Morning” (il podcast de Il Post) ho ascoltato di un post scritto su Facebook da Daniele Ranieri (giornalista de Il Foglio) che sono andata a leggere e che – ahimè – mi sono ritrovata a condividere nel ragionamento.
E che sintetizzo in questa frase qui sotto (che è una personale sintesi).
E’ uno spreco di tempo ed energie il voler convincere persone a fare cose che non vogliono fare: più insistiamo più confermiamo i loro bias; più ne parliamo e li coinvolgiamo, più li facciamo sentire persone speciali e quindi importanti, rinforzando la loro identità.
Ed è quello che – con grandi scrupoli e a modo mio – sto facendo da qualche giorno a questa parte anche sui miei piccoli profili social (soprattutto Facebook, dove lo scontro è molto acceso): sto rimuovendo (e talvolta bloccando) persone i cui post mi compaiono in timeline e narrano di complottismi, sostenendo teorie negazioniste.
Questo non mi fa di certo stare bene, eticamente parlando (mi faccio una montagna di scrupoli).
Un’amica commentava il suo timore (da me condiviso) di chiuderci a nostra volta in una bolla contrapposta all’altra.
Ma in questi tempi così complessi mi vedo costretta a fare “di necessità virtù”.
Coltivando il dubbio (che ha modalità espressive ben diverse dal negazionismo e dal complottismo).
Cercando di aprirsi un varco nella foresta di parole, per cercare di intravedere possibili strade valide da percorrere.
[La foto di intestazione e dì Waldemar Brandt su Unsplash]