Idee per il 2023

#BigIdeas (seguito dall’anno imminente) è l’hashatg con cui LinkedIn ragiona e ascolta delle prossime tendenze alla vigilia del nuovo anno: Big Ideas 2023: 16 tendenze che segneranno i prossimi mesi

E quest’anno ho raccolto l’invito di LinkedIn Notizie ad una personale escursione nelle Big Ideas sulle quali presterò attenzione e cercherò di percorrere nella mia vita professionale nel 2023. Muovendomi soprattutto nel mondo delle soft skill.

Provo a tracciare un ragionamento.

Innanzitutto penso sia ormai necessario esplorare (e sperimentare su di sé) la Interdisciplinarità.
La verticalizzazione spinta delle nicchie professionali temo abbia fatto il proprio tempo: la velocità con la quale le cose cambiano, porta alla loro rapida saturazione. E a tale proposito, riprendo un tema già trattato nel libro di Giulio Xhaet, #Contaminati: siamo passati da competenze I shape a Comb shape (le competenze a “pettine”) – attraversando le competenze a T e a “Pi greco” (perdonatemi… non trovo il simbolo…).

[Immagine tratta dal sito CertiBanks]

Credo sia ormai necessario fare uno sforzo nel mettere in dialogo fra loro l’emisfero destro e l’emisfero sinistro (tra creatività e razionalità), lavorando allo sviluppo di questa propria meta-competenza (che potrebbe anche essere diversa per ognuno di noi).

E questo si collega (per lo meno nella mia testa) ad una seconda necessità, che sembra in conflitto con la prima: il Less Is More (di cui avevo già scritto in un recente post).
Una necessità di pulizia del “rumore di fondo” (perlomeno di sua individuazione e suo isolamento) per avere una maggiore chiarezza di lettura, ascolto ed individuazione delle tendenze e di ciò che si profila all’orizzonte.

Una terza variabile è il Linguaggio.
Un linguaggio inclusivo, inteso come riconoscimento di ciò che è altro da noi, ma che – proprio per questo – non sconfini nella cancel culture: l’esclusione di tutto ciò che è “sbagliato” (non politicamente corretto, diverso, ecc. ecc.) e quindi oggetto di rimozione (Vera Gheno ha scritto una interessante riflessione sul tema della necessità di riconoscimento della diversità nella pubblicazione de Il Post dedicato a “Questioni di un certo genere“).
Una deriva rischiosa che potrebbe portare all’oblio e quindi (nei casi più delicati) alla possibile incapacità di individuazione di ritorno di alcuni fenomeni, anche sotto aspetti diversi.

Forse la sintesi di questo mio ragionamento può essere raggruppato in una ulteriore parola chiave: Complessità.
Un concetto – ma anche una “situazione” – con il quale ci confrontiamo sempre più quotidianamente e che non possiamo più ignorare.
E che quindi necessità di una nostra graduale, progressiva e costante familiarizzazione con essa.

Responsabilità sociale e responsabilità individuale

Venerdì ho avuto la fortuna di fare la prima dose del vaccino Pfizer (ho perso per un soffio il monodose Janssen [Johnson&Johnson] per esaurimento scorte).
Confesso che nutrivo qualche timore verso l’AstraZeneca, ma avrei fatto qualsiasi vaccino mi fosse stato proposto, ve lo posso garantire.

Pfizer-BioNTech, forse uno dei vaccini più all’avanguardia, mai concepito sino ad oggi.
(Qui un articolo di gennaio del Il Post: Come funziona il vaccino di Pfizer-BioNTech)

Che impiega una tecnologia (mRNA = RNA messaggero) allo studio da 20 anni (non da ieri) e impiegata – se non erro – per la cura dell’AIDS e ora (grazie a questa applicazione su larga scala) possibile, concreta e futura frontiera per la cura contro il cancro e – addirittura – per la Sclerosi Multipla (qui un articolo sugli studi in corso: La tecnologia mRna per contrastare la sclerosi multipla).

Come funziona?

“[…] La strategia consiste nel fornire alle cellule le informazioni necessarie – sotto forma di mRNA – a costruire la proteina “spike” del virus. Proteina che, una volta assemblata ed espulsa dalla cellula, viene riconosciuta dal sistema immunitario dando vita alla produzione di anticorpi capaci di riconoscere il virus.”
(Da un articolo della Fondazione Umberto Veronesi: Pfizer-BioNTech e Moderna: inizia l’era dei vaccini a mRNA)

Image by rawpixel.com

Davanti ad una tecnologia così avanzata, e dopo un anno durante il quale abbiamo vissuto qualcosa che mai avremmo immaginato di vivere (lo avevamo visto solo nei film di fantascienza), quello che io faccio veramente fatica a capire è il pensiero dei “diffidenti”, alcuni dei quali (in un estremo atto di egoismo e di irresponsabilità verso l’altro [e talvolta di arroganza], forse dettati dalla paura alla base dei processi di negazione e negazionismo) aspettano che siano gli altri a vaccinarsi per non vaccinare loro stessi.
(Lascio da parte le teorie complottiste sulla modifica del DNA e sul 5G per le quali andrebbe fatta una analisi in termini psicologici e cognitivi, con una escursione nell’area dell’asimmetria dell’informazione e dei bias cognitivi.)

Ma tornando alla personale esperienza, andare a fare la prima dose è stato per me un momento di profonda gioia e gratitudine.

Avere una fortuna simile non è da tutti.
(Basti pensare ai Paesi del Terzo/Quarto Mondo o anche semplicemente a quelle fasce sociali più deboli, più geograficamente prossime a noi, che non hanno accesso neanche alle cure base.)

Sono convinta che vaccinarsi per proteggere se stessi e – soprattutto – chi ti sta intorno sia un atto di responsabilità individuale e sociale. A supporto di una visione di condivisione e di inclusione.

Chiudo lasciando qui qualche ulteriore fonte di approfondimento:

[Photo by Spencer Davis on Unsplash]

Responsabilità, linguaggio e capacità di visione

Se non ci fosse di che seriamente preoccuparsi, questo periodo sarebbe il perfetto test in campo di una simulazione distopica degna dei migliori libri futuristici e cyber-punk.
L’esempio perfetto di un (altrettano) perfetto esperimento sociale (come scriveva Annamaria Testa in un suo articolo di qualche mese fa su Internazionale: Coinvolti in un gigantesco esperimento sociale).

Cerco di spiegare nel modo più semplice che mi riesce, perché stamattina (leggendo un paio di post su Facebook) si è attivata una sequenza di pensieri che – come un lampo – ha illuminato a giorno una situazione difficile da comprendere in ogni suo aspetto, ma comunque molto chiara.
(Lo so, suona come un paradosso…)

Parto dall’inizio.

Ieri riflettevo con una amica sulle restrizioni sotto Natale.
Ed il discorso si è – comprensibilmente – allargato.

Si è allargato al tipo di cultura ormai molto ben radicata (frutto di anni di comunicazione, TV, modelli sociali, educazione… ecc. ecc. di un certo tipo), che ha alimentato molto bene (consapevolmente o meno, non lo so) la deresponsabilizzazione del singolo e dei gruppi.
[“Non è mai colpa mia, è colpa di… [qualcun altro]” è la tecnica più collaudata utilizzata in molti ambiti per “flangiarsi il fondoschiena” (per usare una metafora ingegneristica che usiamo sul lavoro).]

In serata ho continuato a riflettere e – leggendo altri contributi sui social, dedicati agli assembramenti di domenica durante il “liberi tutti” – si è accesa una lampadina con su la scritta “cashback”.
Quella iniziativa (fatta – confido, ma con personale scarsa convinzione – con buoni propositi per supportare l’economia del territorio) che “premia” (per semplificare) gli acquisti nei negozi fisici e non online.

Photo by rupixen.com on Unsplash

La domanda sorge spontanea: la maggioranza delle persone – in una situazione simile (“liberi tutti” + “cashback” + Natale) – cosa fa? Esce per andare a fare acquisti. (“Se posso uscire e posso fare questa cosa, allora esco e lo faccio” è un pensiero logico che non fa un plissé, giusto?)

E qui apro una ulteriore parentesi: Paolo Benanti ha scritto sul suo profilo Facebook un post molto interessante del perché IO (la App con la quale si può attivare il meccanismo del cashback) ha avuto più download di IMMUNI:

Un meccanismo che ha a che fare con la ricompensa (immediato il rimando al concetto della “Gamification”).

Ma non è finita qui.

Perché stamattina un contatto su Facebook ha condiviso una riflessione interessante di Christophe Clavé (francese, autore di libri non tradotti in italiano, operante nel mondo aziendale e manageriale) che esordisce così:

“L’effetto Flynn – che prende il nome dallo scienziato che ha studiato questo fenomeno – afferma che il Quoziente d’Intelligenza (QI) medio della popolazione mondiale è in continuo aumento. Questo almeno dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni ’90. Da allora il QI è invece in diminuzione. È l’inversione dell’Effetto Flynn. […]” – Qui il testo integrale

Clavé ragiona sull’impoverimento del linguaggio (proprio qualche giorno fa avevo riflettuto in tal senso su una mia esperienza di quasi 20 anni fa con la lettura ad alta voce e alla quale dedicherò un articolo) e sulla conseguente incapacità di “guardare avanti e indietro” rispetto al presente per formulare pensieri complessi che ci aiutino a comprendere ed affrontare situazioni (altrettanto) complesse.

Ho ripensato alla riflessione di ieri che mi aveva fatto ricordare un Talk di diversi anni fa (2011) di Eli Pariser dedicato alle “Filters Bubble”.

Le Filter Bubbles, un sofisticato sistema di supporto ai Bias di conferma, che evidenziava come gli algoritmi di ricerca “ti mostrano ciò che tu vuoi vedere, sulla base di quello che tu cerchi, chiudendoti in un recinto di convinzioni che ti autocostruisci” (estrema sintesi dell’idea del Talk).
[Nel 2011 eravamo agli albori dei social media.]

Eli Pariser invitata (già nel 2011) a differenziare le ricerche per restare mentalmente aperti, curiosi e ricettivi.
E oggi più che mai (davanti alla complessità crescente) lo sforzo è necessario seppur impegnativo.

Orbene, ascoltando le conversazioni online, e osservando i comportamenti online e offline, è abbastanza evidente che il mix di impoverimento di linguaggio, che porta ad un impoverimento della curiosità (a favore di una maggiore propensione ad essere guidati [ricordiamoci che il cervello è pigro e tende a risparmiare energia] e a deresponsabilizzarsi, di conseguenza, soddisfacendo i bisogni del “qui e ora”, senza preoccuparsi di cosa sarà domani), porta a scelte e comportamenti di un certo tipo.
Con le conseguenze che questa pandemia sta evidenziando in tutta la sua cristallina chiarezza.

Se non ci fosse di che seriamente preoccuparsi, ci sarebbe da accomodarsi e osservare con pura meraviglia e stupore l’evolversi della situazione e le dinamiche che la muovono.

Foto di copertina di Timon Studler su Unsplash

Spunti e stimoli “laterali”

Non so se capita anche a voi, di prendere consapevolezza (finalmente…) di qualcosa dopo averne letto tanto sui libri e nelle riviste del settore.

A cosa mi riferisco?
Mi riferisco a quelle che chiamo “rotture di schema” (o anche – più propriamente – “interruzioni di schema”) e ai loro benefici.

“Interruzione di schema” è una definizione che ho conosciuto e appreso diversi anni fa in ambito PNL e coaching. E via-via è diventato un termine che ho usato sempre più per identificare quelle azioni introdotte volontariamente (anche in autonomia) per dare una sterzata e spostare il focus (o il punto di vista) di situazioni che si arrotolano ed aggrovigliano su se stesse e mi impediscono di proseguire.

E la mia recente ed inaspettata “interruzione di schema” è stata la visitata di alcune mostre durante lo scorso weekend (lungo). Durante il quale ne ho concentrato un numero discreto in un breve lasso di tempo.

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Biglietteria della Triennale

Di solito prediligo visite culturali ad intervalli di tempo più ampi, per poterne assaporare e goderne i “frutti” anche a distanza di giorni. Ma questa volta – complice una certa fatica intellettiva di cui andrò a raccontare a breve – mi sono sottoposta ad una dose intensiva di “acculturamento”.

Perché questo?

Perché nei giorni scorsi (complice le festività) mi ero prefissata di lavorare a tempo pieno sulla preparazione di alcuni speech ed educational dedicati a prossime iniziative formative del Toastmasters.

Invece mi sono resa conto che più ci lavoravo e peggiore era la resa.
Più mi impegnavo e più mi arenavo.
Distratta e confusa, mi rendevo conto che stavo alimentando un involontario rigetto a scapito della progettazione di un prodotto di qualità.

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Questa fatica intellettuale è coincisa – casualmente – con una visita pianificata da tempo con WAAM Tours ad uno spazio espositivo: il Labirinto di Pomodoro (ospitato all’interno della sede Fendi a Milano, in zona Tortona).

La visita fatta il giovedì sera (alla vigilia del weekend della Epifania) è stata una bellissima sorpresa (qui uno dei numerosi articoli sull’argomento: Il sottosuolo di Fendi. Nell’ex Fondazione Pomodoro, a Milano) ed è stato anche un momento immersivo. Dove – per quanto mi riguarda – lo stupore l’ha fatta da padrone, facendomi dimenticare pensieri e incombenze varie.

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Dettaglio della Porta di ingresso al Labirinto

Portandomi fisicamente all’interno di uno spazio onirico e a-temporale, che sospende tempo e spazio.
Facendomi percorrere una successione di ambienti che concentrano in un solo spazio ed in un solo momento, suggestioni ed ispirazioni provenienti dai quattro angoli del tempo e della storia dell’uomo. Senza indentificarcisi in modo univoco.

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E l’effetto visita si è protratto ben oltre il momento della iniziativa.
Lasciando(mi), consapevolmente o meno, una traccia anche nella giornata successiva, quando (davanti all’ennesima “crisi di rigetto”) ho deciso di continuare a distrarmi.
Di continuare con questa interruzione di schema.

Approfittandone per visitare gli spazi della Triennale ed, in articolare, la mostra dedicata ad Antonio Marras (ma non solo).

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Uno scorcio della esposizione nell’atrio della Triennale “Lumi di Channukah”

Ed in quella occasione mi sono ritrovata a fare alcune ulteriori considerazioni nate da ciò che stavo vedendo (e visitando).

Percorrendo la mostra su Antonio Marras mi sono accorta che – a parte un pannello all’ingresso, che raccontava brevemente il motivo della mostra – lo spazio ospitava oggetti, disegni, installazioni senza nessuna spiegazione.
Come se l’interpretazione e l’interazione tra visitatore e autore fossero lasciate alla libertà assoluta di esperienza di ognuno.

Una cosa (per me) molto interessante.
Che mi ha consentito di vivere e percepire “l’insieme” in modo insolito.
Senza contagio didascalico.
Facendomi oscillare tra divertimento, curiosità, smarrimento in alcuni dettagli, emozioni…

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Stimolando la curiosità e la creatività.
In modo “laterale” e non così codificabile.

Un modo apparentemente incomprensibile da un punto di vista formativo manageriale.
Ma invece molto utile per sperimentare come una stimolo che arriva da un ambiente così lontano (professionalmente) dal tuo, può impiantarti un piccolo seme (producendo un piccolo insight) che può generare quello che gli psicologi chiamano l’Effetto a-ha (l’espressione tipica che usiamo quando troviamo la soluzione del problema).

Condizione fondamentale è però quella di sospendere il giudizio.
Cercando di muoversi al di fuori dei propri schemi sicuri.
Superando il disagio (e l’imbarazzo) iniziale del trovarsi davanti a qualcosa di così diverso.

La seconda considerazione è nata visitando la mostra “W. Women design”.

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Percorrendo lo spazio “invaso” da oggetti prodotti da designer, grafiche e creative, ho pensato una cosa: “Sto sbagliando approccio. Devo vedere la cosa da un altro lato.”

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Inquinata (io) da una categorizzazione femminile (creata – ahimè – anche delle stesse donne, come ho scritto qualche tempo fa su Facebook, in merito alla “leadership” e ad altri argomenti), ho perso di vista cose silenti e ben più fondamentali (dinamiche di percezione, neurologia, processi creativi,… ) che vanno oltre qualsiasi classificazione.

Ragionamenti inaspettati, arrivati facendo e vedendo altro.
Ragionamenti che si sono intersecati e contaminati con argomenti sui quali sto ragionando e che si sono rivelati utili.
Stimoli e spunti laterali.

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Link utili:

Un libro che ho acquistato di recente (ma che devo ancora leggere): “L’arte per il management. Un nuovo modello d’incontro basato sullo storytelling.”, di Viola Giacometti e Sara Mazzocchi – Edizioni Franco Angeli

Gallery da cui ho tratto le foto per questo post (dal mio account Flickr):

  • Labirinto di Arnaldo Pomodoro – gallery
  • Antonio Marras in Triennale – gallery
  • Venerdì in Triennale – gallery

Bastano le softskill?

In questi giorni – visitando il sito dell’Ordine degli Architetti di Milano – ho letto di questo corso in modalità webinar: Modellazione BIM: ArchiCAD 19 Entry Level. E ho iniziato a fare le mie valutazioni sul fatto se farlo o meno, utilizzando come metro di misura la questione “crediti formativi”.

Vedendo l’elevato numero di crediti dati dal corso, di primo acchito ho pensato di lasciare perdere (“Per quest’anno sono a posto”, mi sono detta pensando al prossimo webinar sugli impianti sportivi e quello sulle parcelle, che assieme soddisfano ampiamente il monte crediti del triennio).

Precisamente ho pensato che potevo attendere l’anno prossimo (sperando in una nuova edizione), per poter mettere in saccoccia un cospicuo punteggio.

Pensiero poco professionale, me ne rendo conto. Purtroppo però anche questi conteggi fanno parte delle variabili da tenere in considerazione.

Dopo un po’ si è insinuato anche un secondo pensiero legato alla mia costante perplessità (che a tratti sfiora la preoccupazione) sul tema delle softskill.

Ripropongo l’immagine di un precdente post

Osservando l’elenco si vede che si tratta di competenze soft, utili per ruoli di gestione e coordinamento di persone e informazioni.

Sono indubbiamente indicazioni interessanti ed utili (per certi aspetti molto accattivanti), ma la riflessione che come professionista mi faccio è: “Non possiamo essere tutti manager”.

Può sembrare una banalità, ma l’impressione che ho (come “colei che lavora” e che cerca di capire il futuro del [proprio] lavoro) è che coloro che si trovano nella mia fascia di età, che stanno vivendo questo periodo di transizione e mutazione permanente della professionalità, corrono il rischio di dare un eccessivo peso alle softskill, ignorando competenze più “tecniche” (strumenti da usare, software da apprendere,…).

Dentro questo gruppo mi ci metto anche io pensando ai corsi che frequento (per interesse personale). Si tratta di corsi che non mi insegnano nuovi strumenti, bensì lavorano proprio su quelle competenze utili per gestire, negoziare, filtrare, facilitare, ma che non mi danno “attrezzi operativi”.

La domanda che mi pongo spesso (e che altrettanto spesso faccio finta di non sentire) è:

Se domani mi trovassi nella condizione di cercarmi un nuovo lavoro, cosa potrei fare? Cosa sarei in grado di offrire?

E ancora:

E se mi dovessi creare un lavoro, cosa potrei fare? Cosa sarei in grado di fare?

Se stilo un elenco delle cose che so fare (che so usare, molto prosaicamente) ciò che emerge mi fa pensare.

Esempio: se elenco i software che conosco (e che so usare più o meno bene) e che potrebbero essere spendibili, vedo aree passibili di implementazione. Così come se penso alla evoluzione in corso della professione di architetto, vedo e leggo dell’emergere di nuove caratteristiche professionali che necessitano di nuovi strumenti (a me totalmente ignoti).

E’ per questo che credo che le softskills non siano sufficienti.

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Immagine tratta dal blog di Brandon Jaculina

In un mondo dove tutti siamo destinati a diventare prosumer, non bastano più capacità gestionali e manageriali.

Non possiamo essere solo coach, manager, team builder, scrittori, formatori, storyteller, abili nel public speaking, leader…

Credo che si debba essere in grado di produrre anche qualcosa di concreto.

E’ vero che studi sul futuro della professione parlano di una graduale scomparsa dei lavori cosiddetti manuali (avevo dedicato una riflessione sul tema), ma credo anche che ne stiano nascendo di nuovi che richiedono nuove competenze tecniche sulle quali andare ad innestare le softskill.

Mi dico che devo ricominciare a studiare in quelle aree dove ho smesso, e devo continuare a farlo in un modo diverso e complementare esplorando nuovi campi che scopro durante il percorso professionale. (Un esempio: di recente mi sono iscritta ad un corso online sulle Nanotecnologie; si tratta di un esperimento propedeutico per capire qualcosa di più di un ambito in forte espansione. E so che dovrò andare oltre, esplorando altre aree quali – per esempio – la programmazione, per acquisire nuove competenze tecniche.)

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Immagine tratta da Data Manager

Se dovessi usare una metafora biologica, penso a me professionista come ad uno di quegli organismi che aggregano ed innestano nuove cose sull’esistente, sganciando man-mano quelle che non servono più, in un costante processo di mutazione assolutamente necessario.

Un mutamento quasi sicuramente scomodo e faticoso, ma inevitabile se si vuole sopravvivere.

Alcuni articoli che ho trovato interessanti:

Libri letti di recente che mi hanno fatto pensare alla inevitabile evoluzione della mia professione:

Su questi libri ho fatto delle riflessioni sul mio canale YouTube, insieme ad altri libri letti (qui e qui i due video).

Una piccola storia e qualche lettura in rete

  
[Avviso ai naviganti: questo post è scritto e pubblicato da tablet, quindi è probabile che l’impaginazione non sia ottimale. Mi scuso per questa eventualità e prometto di sistemarlo al mio ritorno su Pc. Nel caso in cui invece l’impaginazione sia corretta… Beh… Fate finta di non avere mai letto questo annuncio…]

E dopo l’avviso introduttivo mi accingo a condividere una piccola storia. Leggera ma – spero – non superficiale.

La storia parte da un po’ lontano: diversi mesi fa ho ricevuto un messaggio privato sul mio canale YouTube da una ragazza di nome Luisa. Mi accorsi del suo messaggio con un mese di ritardo (per me un tempo troppo lungo per rispondere ad una persona) ma la questione ancora più importante era che mi chiedeva consigli su quali libri leggere e – soprattutto – come trovare i libri più adatti per se stessi. 

Una bella responsabilità per una come me, che legge libri per diletto senza nessun obiettivo particolare, senza nessuna formazione come critico letterario (o simile), bensì lasciandosi ispirare da recensioni (professionali e non), copertine (ebbene sì! strumento assai persuasivo), e altre suggestioni. Le diedi dei pareri personali, le spiegai che io avanzo per tentativi ed errori e che mi capita di incappare in libri difficili da digerire (in questi giorni sto arracando con “Pensieri lenti e veloci”, indubbiamente interessante ma un po’ pesante…).

Dopo la mia risposta, la cosa finì (apparentemente) lì.

In questi mesi poi ho sempre più faticato a mantenere il ritmo di un libro alla settimana (con relativa pubblicazione di videoriflessione su YouTube) e spesso ho pensato di chiudere l’esperienza. 

Ma Luisa è (provvidenzialmente) tornata con un nuovo messaggio che mi ha motivato ad andare avanti. Oltre a ringraziarmi per averle fatto scoprire il libro “Spade” di Giovanni Gastel (e la realtà 5×15, dove Gastel ha tenuto uno speech intenso di 15 minuti), mi ha ringraziato anche per averle fatto conoscere il blog di Zelda di Was a Writer (che cito spesso nei video, frequentando il suo bookclub).

E mi ha chiesto se conoscevo altre realtà come quella di Zelda Was a Writer… 

Domanda ardua!

Non solo perché “Zelda” è unica nel suo genere, ma anche perché non sono una esperta di blog. Anche qui avanzo per tentativi, e ciò che seguo rispecchia il mio personalissimo gusto.

E così mi sono ritrovata a pensare a cosa potrebbe essere utile ed interessante per gli adolescenti (Luisa è giovanissima), senza essere noioso. Ed è scattato l’azzardo (sperando di non aver alzato troppo il tiro). 

Ho pensato a quattro blog/siti particolari di cui due forse un po’ complessi, ma che penso possano dare moltissimo anche a persone in giovane età (non solo agli adulti). [Portarli nelle scuole, buttando dalla finestra programmi vetusti, sarebbe una gran bella cosa]

Sono tra i miei preferiti nell’area creatività e cultura (e cerco di seguirli il più possibile anche se il tempo è tiranno)

  • Meet the Media Guru (con i suoi articoli e la sua sezione dedicata alle “lecture” delle conferenze che organizzano e che possono essere seguite anche in streaming)  – http://www.meetthemediaguru.org
  • Nuovo e Utile (il magnifico blog curato da Annamaria Testa, continua fonte di informazioni di alto livello) – http://www.nuovoeutile.it
  • Brain Pickings (sito in inglese, vasto, contiene spunti provenienti dalla cultura in senso lato… arte, libri, filosofia… un progetto vastissimo) – http://www.brainpickings.org
  • TED (bisogna presentarlo…? non credo… video dei “TED talk”, sezione blog con articoli, suggerimenti di lettura dagli speaker di TED… una banca dati di condivisione straordinaria) – http://www.ted.comhttp://blog.ted.com

Non so se andata fuori tema con Luisa. Spero di no. Spero di averle dato ulteriori fonti di ispirazione…

Nel frattempo se avete altri suggerimenti, e volete condividerli nei commenti, ve ne sarò grata! Perché non si smette mai di imparare e nel web, l’evoluzione di contenuti e piattaforme è molto rapida e fluida.

Buona navigazione! E buon ferragosto!

PS: qui sotto i due link ai due libri citati nel post:

Arte vs Scienza?

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In coda per entrare alla Mediateca Santa Teresa

Mercoledì scorso ho assistito all’incontro Focus di Meet the Media Guru.

Si è parlato di innovazione culturale, arte, interdisciplinarietà e intradisciplinarietà.
Più che un focus organizzato e logico, sono state dette cose, e raccontate esperienze e progetti che hanno indotto suggestioni in chi ascoltava.
In taluni casi alcuni concetti consolidati sono stati ampiamente forzati (quello del tempo, per esempio).

E reduce anche dal TEDx Verona di domenica scorsa, mercoledì sera – sulla strada di casa – meditavo.

Nel giro di qualche giorno ho incrociato due mondi.
Quello digitale e della cultura di Meet the Media Guru, e quello delle storie di TEDx (fatte di scienza, architettura, management,…).

Ed è stato inevitabile fare dei confronti.
Confronti che fanno il paio anche la propria formazione culturale e professionale.

E la sensazione che mi sono portata a casa è stata quella di avere ascoltato due ore di magnifici esercizi di stile e filosofici.
Che poco hanno di concreto.
Che sicuramente stimolano e ampliano la visione delle cose, spostando anche i (propri) punti di vista.
Ma è come se mi fosse rimasta la sensazione del: “Sì, va bene, e allora? A che serve tutto questo? Che vantaggio porta?”.

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Il cortile della Mediateca

Dubbi, perplessità e domande.
Che son sicura che stanno lavorando in profondità, e che allo stato attuale magari lasciano un senso di inconcludenza e autoreferenzialità fine a se stessa.

Ma come diceva un relatore domenica a TEDx, l’artista sogna e lo scienziato crea. E dal loro connubio possono nascere cose straordinarie.

Quindi, nonostante assistere a questi incontri possa risultare “strano” e inutile a chi ha formazione ingegneristica (e/o un mente pragmatica), nonostante possa capitare di ascoltare cose che vanno in conflitto con le proprie convinzioni, strapazzando i confini di comprensione, vale la pena.
Vale la pena ascoltare anche cose lontanissime da se e dai propri interessi.
Penso sia un buon modo per inseguire, perseguire e costruire la interdisciplinarietà.

Di seguito i tweet della serata che ho scritto e condiviso (dal più recente andando indietro, all’inizio della conferenza):

Programmazione Vs. “work in progress”

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Qualche mattina fa ti fai questa riflessione (inizio anno, tempo di riflessioni):

[Portate pazienza… è l’età… mia…]
Son sempre qui che scartabello e scrivo, prendo appunti e ragiono attorno agli appunti presi.
E mi domando una cosa: ha ancora senso fare una programmazione a cinque/dieci anni?
Secondo me, no.
O meglio, può avere un senso come idea generale, di massima.
Ma come idea di dettaglio, secondo me, non è più il momento adatto.
Il mondo come lo abbiamo visto fino a ieri non esiste più.
E non ci è consentito programmare con grande dovizia di particolari cosa vuoi essere (o dove vuoi essere) fra “x” anni.
Semplicemente perché questo non è più possibile.
Quella che va bene adesso, fra un anno non va più bene.
(Anche prima magari)

Una riflessione che mi stavo facendo come “Barbara Olivieri”, libero professionista, architetto che lavora in una piccola società di Ingegneria, che continua ad esplorare aree di interesse magari anche (apparentemente?) lontane fra loro alla ricerca di ispirazioni, idee, spunti e punti di contatto inaspettati.
Con la preoccupazione costantemente appollaiata sulla spalla che tutto quello che oggi sto vivendo professionalmente, domattina potrebbe non esserci semplicemente più.

E poi, qualche giorno fa, leggo questo articolo di Luigi Centenaro: “Cinque pezzi facili sul lavoro: 1.The End of the Age of Jobs”.
Leggo all’interno del post di ricerche, analisi, di “bassa” e “alta” competenza.
Cose che, se per un giovane possono generare ansia per il proprio futuro, ad un migrante digitale di 46 anni (io) fanno tremare le ginocchia.
Anche se sei un “migrante digitale” nato professionalmente con la partita IVA, che vive con la partita IVA e che morirà con la partita IVA (senza vedere la pensione…).
(E questo – negli ultimi tempi – mi ha fatto pensare che il miraggio del posto fisso mostrava già segni di declino la bellezza di 20 anni fa, quando mi laureai, e sentirne parlare ancor oggi da ragazze e ragazzi che hanno la metà dei miei – letterlamente – mi fa venire i brividi.)

Ma il post non è scoraggiante.
E’ pragmatico.
Arricchito di dati e utile a farti ragionare.
Tant’è che nel commentarlo su Facebook, e nel confrontarsi con altri interlocutori, mi è venuta una idea.
Che è sempre stata lì, in realtà, ma che avevo accantonato un momento per capire e concentrarmi su altre cose.
E che proprio il giorno prima si era fatta sentire in modo trasversale, mentre pianificavi alcune attività per i prossimi mesi.

Ora sono curiosa di leggere i successivi post di Luigi Centenaro, sui quesiti che chiudono il suo articolo:

Come mi formo per affrontare questo continuo cambiamento e che ruolo avranno le Università?
Come rendo il mio business e la mia vita sostenibile finanziariamente, sia ora che in futuro, in assenza di pensione?
Come mi faccio trovare dal lavoro che non so neppure che esiste e che ruolo avrà il Personal Branding sul dipendente del futuro?
In che modo le organizzazioni dovranno predisporsi per gestire tutto questo?

[Immagini tratte da: Evisors Blog (copertina) – Centenaro.it (articolo) ]

Il Book Eater Club di Zelda… [GALLERY]

IMG_20141216_220306E’ da un po’ di tempo che seguo il Book Eater Club di Zelda Was a Writer (coloratissima blogger).
E ci sono arrivata attraverso la sua pagina Facebook.
Invece non ricordo bene come sono arrivata a lei, Zelda (alias Camilla)…
Diciamo che il caso ha voluto che la incontrassi sulla mia strada…
Però devo molto a questa iniziativa ed essere mancata nei due appuntamenti precedenti (più altri prima della pausa estiva) mi era dispiaciuto.
Avevo comunque letto i libri da lei suggeriti, ma mi mancava quel momento di convivialità e di scambio di idee che il commentare e condividere un libro comporta.

Mi sono sempre considerata una lettrice accanita, affranta da sindromi di shopping compulsivo ogni volta che metto piede in una libreria (lasciamo perdere i primi momenti che mi hanno visto possessore di un Kindle…).
Mi sono sempre piaciuti i thriller, le storie e – negli ultimi tempi – i libri di “crescita personale” (chiamiamoli così) e certi tipi di manualista.
Ebbene, il bello dell’incontrare Zelda ed il suo Book Eater Club è stato quello di avermi fatto scoprire autori importanti (che io non conoscevo… vergogna, profonda vergogna…) che mi hanno fatto scoprire – a loro volta – nuovi modi di scrittura e di racconto.
Portatori sì di storie, ma anche (e forse soprattutto) di riflessioni molto profonde.
Qualche nome?
Valeria Parrella (con il suo “Tempo di imparare“)…
James Salter (con il suo “Tutto quel che è la vita“)…
James M. Caine (con il suo “La falena“)…
J.D. Salinger (con il suo “Il giovane Holden“)…
E non da ultimo il libro di racconti sul Natale che ho appena concluso (e che è stato il protagonista dell’incontro di mercoledì), dal titolo “Il giorno più crudele”.

Ma non solo…
Grazie ai post di Zelda Was a Writer ho scoperto autori come Donna Tartt che con il suo “Il cardellino” mi ha catturato per la bellezza di 857 pagine (o 875… non ricordo…).
Ho scoperto ed apprezzato sempre più la libreria non convenzionale Open More than a Books (che ha ospitato la prima stagione del club)…

Insomma, mi si è aperto un mondo.

E più avanzo e più mi confronto con la mia abissale ignoranza.
Ma non mi arrendo… Anzi!
La voglia di leggere è cresciuta a dismisura, spingendomi a cercare anche “cose diverse”: case editrici insolite, autori nuovi…

Lo so, suona come un post di bilancio di fine anno… e forse lo è, un pochino…
Però avevo proprio tanta voglia di scriverlo, per cogliere l’opportunità di fermarmi un attimo e voltarmi indietro per vedere cosa ho imparato (sto imparando ed imparerò) da questa bella esperienza…

(Di seguito le foto che ho scattato mercoledì durante l’ultimo incontro dell’anno che si è svolto nel bellissimo spazio dell’Appartamento Lago di via Brera 30 a Milano. Foraggiati da panettoni e pandori Tre Marie e tè Kusmi Paris…)

Comunicare, condividere e fare formazione

14 - 2Secondo me il mondo della formazione, così come noi lo abbiamo visto sino ad oggi, non è destinato a durare a lungo.
Perché?
Provo a spiegare nelle righe che seguono…

Frequento corsi di formazione e “crescita personale” dal 2007 (via-via con sempre minore frequenza) e ho visto questo mondo (con le sue discipline) crescere, fiorire, prosperare, dare molto… ma ora ho la sensazione che si stia approssimando al capolinea.

Infatti è da diverso tempo che non sento più parlare di cose nuove.
Mentre – al contrario e paradossalmente – vedo proliferare formatori da ogni parte.
Sono tutti formatori.
Tutti organizzano corsi.
Tutti si riciclano nel mondo della formazione.
Tutti parlano e trattano di crescita personale e “annessi&connessi”.

Più di una volta ho pensato: “C’è qualcosa che non va…”.

E questa riflessione è tornata in superficie proprio ieri sera, tornando a casa dopo avere assistito all’appuntamento mensile di 5×15 italia.
[Per chi non lo sapesse 5×15 è un format che arriva da Londra e che vede alternarsi 5 speaker che parlano 15 minuti a testa.
Raccontano le loro esperienze, i loro progetti, fornendo spunti di riflessione e offrendo motivo di arricchimento culturale, di idee e di conoscenza.]

Ricorda un po’ TED, dove – anche lì – si alternano sul palco speaker che si sono distinti per iniziative, studi particolari o altro, e che raccontano la loro esperienza attraverso interventi (denominati “Talk”) della durata massima di un quarto d’ora.
(I 15 minuti hanno un motivo neurologico preciso – legato ai tempi di attenzione – e vi rimando ad un libro molto interessante, scritto da Carmine Gallo, dal titolo “Talk like TED”, disponibile per ora solo in inglese)

Il diffondersi (positivo secondo me) di questi format multidisciplinari e “corali” mi fa pensare che c’è in atto un cambio di comunicazione delle competenze, di trasmissione e condivisione della conoscenza.

Se si guardano – per esempio – anche i format come Dieci Cose (bella sorpresa del 2014, qui e qui gli Storify delle due giornate di formazione), o altre iniziative simili, si intuisce (almeno mi pare di intuire) che l’obiettivo verso il quale si sta andando è quello di condurre una sorta di “brainstorming” incrociando dati e conoscenze, fornendo nuove visioni e nuovi punti di contatto.

Credo che questo sia espressione di un nuovo mondo della informazione che non può più essere sottovalutato dai “formatori classici” in circolazione che – se non sapranno cogliere e catturare queste nuove modalità espressive – saranno destinati inevitabilmente a soccombere.

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Poi il paradosso (che appare quasi come un cane che si morde la coda) è che proprio questo nuovo modo di divulgare e comunicare ci vede tutti “formatori”.
Tutti con competenze da offrire e da raccontare, mettendo in condivisione il proprio sapere.
(E senza per questo avere timore di “scippo” delle proprie idee perché un conto è raccontarle, un conto è “saperle fare”…)

Sono scenari che mi affascinano e che aprono prospettive interessanti (sono anche – secondo me – un po’ l’evoluzione delle cara e vecchia “tavola rotonda” e/o “dibattito” rinata in forma più evoluta).

[In foto i libri di alcuni dei relatori del Forum delle Eccellenze e del World Business Forum, che sono altri eventi formativi che vedono l’alternarsi sul palco di varie figure che in un determinato “slot” di tempo, raccontano e condividono esperienze ed informazioni.]