Tra il mondo e l’orto

Stamattina, ascoltando Morning (la rassegna stampa mattutina de Il Post), ho ascoltato (mi si perdoni la ripetizione) della situazione in Sudan (e dei legami tra Stati coinvolti a vario titolo con la regione in guerra, che disegnano – elaboro le parole utilizzate – “un nuovo mondo che rifiuta l’Occidente” [questione di cui ascolto già da parecchio tempo da parte di un collega]).

E – all’interno dello stesso podcast – ho ascoltato anche della vicenda del programma di Massimo Giletti (non voglio entrare nel merito della trasmissione, che non ho mai guardato e sulla quale ho una mia opinione che però non è oggetto di questa riflessione) e delle ipotesi che si fanno sul motivo della sua sospensione (dalle più prosaiche [questioni di ritorni in termini di pubblicità] alle più complottiste).

In una improvvisa ed inaspettata associazione mentale ho ripensato alla conferenza di apertura del festival Cara Casa (alla quale ho assistito sabato mattina, dedicato al tema della casa e – ad esso collegato – delle metropoli), al percorso a piedi che ho fatto successivamente da viale Padova (il convegno era ospitato allo Spazio Mosso) a Lambrate (percorrendo strade a me sconosciute fino a quel momento e che mi hanno mostrato un mondo altro), all’attenzione che ho posto qualche giorno fa alle case a ridosso della ferrovia a Genova (“Non va bene così”, ho pensato, “come si possono accettare queste situazioni?”)…

Le foto qui sopra le ho scattate dal treno mentre ci stavamo avvicinando alla stazione di Genova Porta Principe. Nessuno zoom: nelle prime tre foto (partendo dall’alto al basso, da sinistra a destra, si vede il parapetto della ferrovia).

[Perché mi interesso così tanto (sono così reattiva) a questi temi?, mi sono domandata. Perché penso che un giorno potrei trovarmi anch’io in una situazione simile e non vorrei mai trovarmici, mi sono risposta. E così cerco di capire e di conoscere per prepararmi, quasi a rassicurarmi, pre-occupandomi di qualcosa che potrebbe accadere ma non è detto che accada.
Sarebbe poi molto più comodo volgere lo sguardo altrove, non curandosene. Ma – come dicevo ad un altro collega – alla pulsione di tapparsi le orecchie e chiudere gli occhi, rispondo col forzarmi a guardare e ascoltare per non diventare indifferente, scivolando nella disumanità.]

Dunque una realtà, un perimetro, di ragionamento più o meno ampio.
Costantemente sotto gli occhi.
Altamente instabile e in transizione verso nuovi equilibri che – per una comune mortale come me – sono sconosciuti e dei quali posso solo cercare di intuirne i contorni (per – appunto – prepararmi).

Una faccenda, questa, da mal di testa e – se non ben gestita – generatrice di stati d’ansia.

Ma…

Ma sempre quel collega di cui scrivevo qualche riga sopra (colui che da tempo riflette sui nuovi equilibri mondiali), qualche giorno fa mi ha detto (lo scrivo con parole mie): “Mi preoccupo di quello che succede alla macro-scala, ma se mi fermo a pensare alla mia vita (alla mia realtà, al mio intorno, n.d.r.) va bene. Non posso lamentarmi. Sì, ci sono problemi e preoccupazioni, ma va bene.”

Ecco – riflettevo stamattina – un buon modo per non farsi travolgere da loop mentali che si innescano (e si autoalimentano) a causa di ciò che si legge, si osserva e si ascolta di quello che accade nel mondo (vicino o lontano che sia), che affardella ulteriormente, è quello di tornare spesso nel proprio “orto”. Concentrandosi e prendendosene cura.

Uno scorcio dell’Orto comune di Niguarda, bella realtà di orticoltura sociale (http://www.ortocomuneniguarda.org/)

Adottando però – nello stesso tempo – uno “strabismo funzionale”.
Ossia stare nel proprio “orto”, coltivandolo, senza comunque perdere di vista (con la coda dell’occhio) quello che accade al di fuori (ciò che non ci tocca direttamente).

Perché anche asserragliarsi, isolandosi nel proprio “orto”, può non essere una buona idea.
Essendo il recinto sempre (almeno un po’) aperto e impollinabile (e talvolta anche infestabile).

[Foto di CHUTTERSNAP su Unsplash]

Tempi complicati

Premetto di essere un po’ drammatica e cupa in questi giorni, ma leggendo alcune notizie il primo pensiero è stato: “Dopo 1984 [Orwell, n.d.r.] ci stiamo avvicinando a passo felpato e circospetto a scenari alla Fahrenheit 451 [Bradbury, n.d.r.]”

Dei libri di Robert Dahl (della loro riscrittura) avevo letto, di Ian Fleming ho letto di recente e di Agatha Christie ho sentito in queste ultime ore…
Scoprendo nel frattempo una nuova professione: il Sensitivity reader. Cioè colui (o colei) che ha il compito di leggere i libri, valutarne il linguaggio ed un possibile suo aggiustamento per non urtare la sensibilità dei lettori.

Che dire davanti a tanta idiozia umana?
(Mantenendo il beneficio del dubbio sui Sensitivity reader.)
Nulla. Semplicemente nulla.

Ma mi sono ricordata di due cose.

La prima.
Una sera di tarda estate del 2020 su un terrazzo in centro a Milano.
L’ultimo incontro del Bookeater Club di Zelda Was a Writer (al secolo Camilla Ronzullo), ed uno dei primi incontri in presenza dopo mesi di lockdown e incontri online.
Libro – o meglio audiolibro – in oggetto: “Via col vento”, letto magistralmente da Anna Della Rosa, in una nuova traduzione curata da Neri Pozza che ne aveva acquisito i diritti.
Ricordo che dibattemmo sul tema della riscrittura fatta – in questo caso – per adattare il linguaggio a termini più moderni (c’era un problema di linguaggio appesantito dalla vetustà). Si ragionò sul rischio di operazioni di riscrittura, di cancel culture e di rischi di neo-lingua (tirammo in ballo “1984” di Orwell)…

La seconda.
Ricordo mia mamma quando mi raccontava dei libri all’indice durante la sua giovinezza.
Dell’elenco di libri banditi esposti nelle bacheche delle parrocchie (se ricordo bene…).

Ora… io non avrei mai pensato di vedere anche questo.
Non nel 2023.

Dopo una pandemia, una guerra alle porte dell’Europa, una crisi energetica e climatica sempre più presenti… la cancel culture che diventa sempre più pervasiva (già ai tempi della prima Guerra del Golfo, gli USA bandirono il termine “French fries” perché la Francia era restia a partecipare e/o sostenere il conflitto…).
Perché sembrano eventi slegati tra loro, ma sono espressioni di un mondo sempre più complesso, veloce, interconnesso e instabile.

Contradditorio e generatore di paure.

Perché “fa niente” se una persona entra in una scuola armata di fucile d’assalto e fa una strage (solo per citare l’episodio più recente).
L’importante è cambiare nome ad una scuola perché Washington è un personaggio controverso (cambieranno anche le immagini sui dollari…?), l’importante è protestare per una immagine del David perché i genitori non erano stati preventivamente avvisati, l’importante è (perché ce n’è per tutti, anche qui in Italia) emettere leggi su ipotetici reati relativi alla carne sintetica (la notizia è di poche ore fa) in una miopia conservatrice incurante delle possibilità di sostenibilità alimentare e ambientale…

Ci sono dei periodi (e questo è uno di quelli) nei quali chiuderei tutto, cancellerei tutti gli account e smetterei di informarmi (ed ascoltare) per non leggere (e ascoltare) di questi deliri dettati da una ignoranza abissale e profondissima.

Oggi sono cupa e drammatica, lo so.
E allo stato attuale non vedo un bel futuro.
Da qualsiasi parte mi volti.
(Poi magari domani mi alzo più riposata e vedo qualche spiraglio di ottimismo…)

Di sicuro sono tempi turbolenti ed è in atto una frattura culturale (sociale e politica) preoccupante (inutile edulcorare i termini).
Dove l’ignoranza urla e spintona, mettendo nell’angolo il sapere e la cultura. Che si devono fare silenziosi e capillarmente pervasivi per poter proseguire la propria opera di divulgazione utile a navigare in tempi così complessi e complicati.

[Foto di Ed Robertson su Unsplash]

Condividere, o no?

In questi ultimi tempi sono diventata molto più (forse meglio dire “ancor più”) sensibile ad argomentazioni palesemente basate su fonti poco attendibili, che fanno della disinformazione il loro pane quotidiano.
Disinformazione utile a fare leva sulla emotività e sulla ignoranza (intesa come “il non sapere”) altrui, ulteriormente utile ad altri scopi (talvolta ben noti, altre volte meno).

E su questa faccenda (gli altri scopi) faccio ancora molta fatica a comprendere il motivo di tali dinamiche: perché si ha interesse ad alimentare ignoranza che genera ulteriore impoverimento intellettuale ed economico, in un circolo vizioso che si autoalimenta e che prima o poi (più prima che poi, temo) collasserà su se stesso? Perché non si ritiene più utile condividere una visione di crescita utile al benessere nostro [nel qui e ora] e di chi verrà dopo di noi?
(Nel mentre scrivo queste parole mi sto dando già qualche tipo di risposta riassumibile – e sintetizzabile – in: cervello pigro —> facili spiegazioni —> facili soluzioni (immediate) —> mantenimento status quo —> cervello pigro —> facili spiegazioni —> facili soluzioni (immediate) —> mantenimento status quo… e via così, in questo percorso circolare che si autoalimenta e automantiene. Applicabile non solo per chi resta all’interno della propria bolla, ma anche alimentato da chi produce contenuti [per stupidità propria, per strategie di click-bait, ecc. ecc.].)

Non passa settimana (talvolta anche solo qualche giorno) che non mi trovi a discutere ascoltando frasi fatte e prelevate pari-pari da fonti note per scarsa obiettività e alta strumentalizzazione.
E ogni volta mi tocca fare un bel respiro per non aggredire verbalmente l’interlocutore, sfinita dall’ascoltare sempre le stesse argomentazioni come un disco rotto (sono stanca, confesso).
La voglia di ritirarsi, di chiudere i profili social, di ridurre le conversazioni (online e offline) al minimo sindacale (le note “conversazioni da ascensore”), è molto forte.

E l’ho pensato anche l’altra sera quando stavo per condividere su Facebook il link ad un podcast (a mio avviso) molto ben fatto: La Nave, prodotto da Il Post e dedicato alla imbarcazione Geo Barents (la nave di salvataggio di Medici Senza Frontiere che naviga nel Mediterraneo).
Argomento delicatissimo (questo delle navi delle ong), oggetto di speculazioni e strumentalizzazioni di tutti i generi (da ambo le parti), e portatore di risse digitali (e verbali) non indifferenti.

Stavo quindi per condividerne il link e poi… ho cancellato il post (“a che serve?”, mi sono chiesta).

A che serve continuare a condividere in ambienti digitali o meno (quasi tutti) sempre più polarizzati? Ha senso farlo?
E poi: perché lo voglio fare? Cosa voglio dimostrare (a me stessa e agli altri)?
E ancora: una volta che ho condiviso una informazione, sono in grado di reggere ad eventuali dibattiti di posizione?

(Mi è successo di recente su un altro argomento delicato di tipo spirituale e ho mollato la conversazione, fiaccata: lì sono stata annichilita da una dissertazione teologica che mi ha fatto sentire ignorante [su alcune informazioni non ero in grado di dibattere per mia non conoscenza] e profondamente stanca [percepivo – dal mio punto di vista – una graniticità di idee dell’interlocutore, fermo nelle proprie posizioni]. Posso dire però con grande serenità che ho trovato teologi molto più aperti e dialoganti, rispetto a persone comuni arroccate su certezze utili a non sentirsi esposte e prive di punti di riferimento.)

Quindi, ha senso continuare a condividere?
Non lo so. O meglio, dipende.

Se condivido per costruire la mia identità online (per posizionarmi), la risposta è sì (“ciò che scrivi ti posiziona”).
Se condivido per offrire uno sguardo diverso ad un problema (o a una questione, anche delicata) che porti qualche spunto di riflessione in più, la risposta è forse no. Forse non ne vale la pena.

Ma il scegliere di non condividere più con questo intento (l’offrire spunti di riflessione in più), non preclude il continuare ad esplorare, informarsi e percorrere proprie strade. Per cercare di imparare ad abitare nel modo migliore possibile questo mondo.
Semplicemente si sceglie di cambiare ambienti (digitali e/o reali) dove condividere quanto scoperto.
Facendo – nel contempo – parlare il proprio lavoro e le proprie azioni. (Ma questo è un altro discorso che merita qualche riga a parte).

[La foto è di Nijwam Swargiary su Unsplash]

8 marzo, una riflessione tardiva

Una settimana fa trascorrevo l’8 marzo in una bella realtà: SisTech, una associazione no profit che aiuta donne rifugiate a ricostruire la propria professione aiutandone l’inserimento nel mondo del digitale.

Nello specifico il mio contributo è stato dare una mano alle fellow (così si chiamano le donne del programma di formazione) nel costruire il loro pitch per un evento di networking nel quale si sono presentate e hanno raccontato della loro professionalità e del loro percorso di studi.

Sono stata contenta di essere stata coinvolta dall’associazione anche quest’anno (avevo collaborato anche per l’edizione del 2021) e sono stata contentissima di presenziare all’evento (cosa che non mi era stata possibile nell’edizione precedente, a causa di un impegno di lavoro).

E’ stato un bel modo di “festeggiare” l’8 marzo.

Lo scrivo con profonda convinzione perché per anni, soprattutto quando ero più giovane, mi toccava festeggiare in ristoranti e/o locali tra altre donne (alcune inquietantemente assatanate) e l’inevitabile spogliarello di maschietti (nello specifico imbarazzati camerieri e/o baristi).

Nel corso degli anni mi sono gradualmente sfilata da questa incombenza (raccogliendo talvolta giudizi di disapprovazione).
Iniziando ad evitare questa data e iniziando a capire il perché si celebra questa ricorrenza (si festeggia per gioia, si celebra per ricordare).
[Per sapere qualcosa di più sull’origine dell’8 marzo, il podcast “Cosa c’entra” di Chiara Alessi ha dedicato una puntata ascoltabile qui, e Il Post (testata che prediligo) ha scritto un articolo.]

Per come sono fatta io (che ho passato anni a rincorrere l’approvazione altrui) c’è voluto del tempo prima che mi autorizzassi a fare quello che ritenevo più allineato al mio sentire. C’è voluta una presa di consapevolezza dovuta anche all’età. (Le ragazze di oggi sono molto più attente e consapevoli delle ragazze del mio tempo: altri tempi, altra cultura; non giudico, era solo un tempo diverso.)

E proprio l’8 marzo, ascoltando su Instagram le stories di Cristina Fogazzi (nota come l’Estetista Cinica) mi sono ritrovata a riflettere. Ascoltandola ho ripercorso una serie di pensieri fatti negli ultimi tempi che mi hanno avvicinato al tema della inclusività.
Che – a sua volta – mi ha portato ad essere più attenta ad una serie di sfumature di parole e comportamenti che incontro quotidianamente.
Che – a sua volta – è frutto di incontri con associazioni e persone (donne e uomini) che trattano l’argomento.
Che – a loro volta – mi hanno fatto avvicinare a letture che stanno ulteriormente alimentando la sensibilità sul tema molto vaso e composito, a rischio di riduttività (che impoverisce e banalizza).

Ci sono alcuni momenti nei quali questo tema (declinato al femminile) mi provoca ancora qualche fastidio.
Ma oggi questo fastidio non genera più – come prima – una scrollata mentale per togliermi di dosso un qualcosa che mi (appunto) infastidisce.
Oggi il fastidio è diventato un prezioso alleato che mi indica che là (in quel punto) c’è ancora un nodo da sciogliere e da comprendere.

Mi sono sempre “fatta pregio “ di lavorare con uomini e di non avere mai percepito “accondiscendenza” nei miei confronti. Oggi però il dubbio mi viene e mi pongo alcune domande.
È perché non mi sono mai posta il problema e quindi – non ponendomelo – non l’ho mai generato nella “controparte”?
Oppure è un mio punto cieco?
Non lo so. E non lo saprò mai, perché quel tempo ormai è andato.

Oggi è un tempo diverso.
Che si porta dietro esperienze, nuove conoscenze apprese e in corso di apprendimento, e nuove sensibilità.

[Foto di Katherine Hanlon su Unsplash]

Un esercizio di ragionamento

Spero di sbagliarmi e attendo solo di essere smentita dai fatti, ma la vittoria di Elly Schlein alle recenti primarie del PD mi sembra molto diversa da quella che appare di primo acchito (riassumibile nella parola “cambiamento” nell’accezione che in genere si dà, ossia verso qualcosa di nuovo).
Mi sembra una candidatura “costruita” (virgolettato d’obbligo) con molta abilità da chi desidera mantenere lo status quo dando il “contentino” all’immaginario collettivo.
Mi si perdoni la brutalità, ma vado ad argomentare.

Premetto che non discuto sulla carriera politica della vincitrice.
E non sono una elettrice di destra (così sgombro il campo da tutta una serie di dubbi).

E’ che leggendo opinioni di analisti ed esperti di linguaggio, ho trovato conferma ad alcuni aspetti che percepivo (sono conscia del fatto che potrei essere preda del “bias di conferma”).
Elly Schlein è (era, vista la sua vittoria) la candidata perfetta per l’immaginario collettivo:

  • giovane
  • brillante (al di là di come la si pensi)
  • donna (sfruttando “l’effetto Meloni”, quasi in emulazione, e soddisfacendo il desiderio di “finalmente una donna candidata alla presidenza di un partito fortemente patriarcale”)

In realtà due sono le cose che mi hanno colpito.

La prima: chi ha sostenuto la candidatura di Elly Schlein.
Tutta la vecchia guardia. Tutta (risalendo nei tempi fino a Bersani e Ochetto).
Delle due l’una:

  • o è molto più conservatrice (delle idee fondanti del PD) di quanto l’immaginario collettivo percepisca (e quindi è perfetta per il ruolo richiesto dai “grandi vecchi”), oppure
  • è il perfetto agnello sacrificale e sacrificabile utile al sostegno della tesi (semplifico pesantemente) del “visto che non va bene così?”

Quasi un “doppio legame”.

La seconda: chi le ha fatto fare la rimonta.
Gli elettori tesserati avevano espresso preferenza su Bonacini (che era in netto vantaggio), le elezioni aperte hanno ribaltato il risultato.
La domanda che mi sorge è: gli elettori tesserati avevano visto giusto e i cittadini votanti sono stati sedotti dal sogno di vedere una donna alla presidenza del PD? Oppure gli elettori tesserati sono conservatori e i cittadini votanti hanno visto giusto?

Onestamente non so rispondere e credo che solo il tempo potrà dare una risposta.
Credo che comunque sarà interessante osservare come si evolverà la vicenda.
Resta il fatto che Elly Schlein è la prima donna Presidente del partito e la più giovane in assoluto.
Poi che declinazione assumerà il “cambiamento” da lei sostenuto e auspicato sarà – anch’esso – da osservare: verso qualcosa di nuovo o verso un ritorno alle origini? Nuova identità o recupero di una identità forte?

Nel frattempo ragionare su quanto è accaduto può essere un esercizio molto utile per osservare una vicenda da più punti di vista, traendone conclusioni anche diametralmente opposte dallo stesso punto di osservazione.

La politica è estremamente affascinante, se si riesce a mantenere una distanza emotiva da quello che si osserva.

Qualche articolo utile:

Ripartenze

E si riparte (riparto) con l’anno lavorativo.
Carica di mille dubbi e mille domande.

In queste due settimane un po’ più rallentate mi sono presa del tempo per pensare in modo più approfondito al futuro professionale (nei limiti del possibile dell’oggi, con le conoscenze di cui dispongo e le informazioni che ho; cercando di gestire stati emotivi che hanno spaziato tra lo sconforto, illuminazioni varie e profonde perplessità).

E anziché stabilire dei punti fermi e costruire qualche certezza, i dubbi e le domande sono aumentati.

Ho esplorato gli annunci di lavoro su LinkedIn per capire qual è il vento che tira, simulando possibili (mie) candidature.
Ho letto post di contatti e persone che seguo (sempre su LinkedIn).

Ed il quadro che mi sono fatta non è molto positivo.
Almeno dal mio punto di vista: cioè dal punto di vista di chi ha un certo tipo di esperienza e appartiene ad una certa fascia di età (più di 50 anni, a ridosso dei 55).

La prima impressione che ho avuto (molto netta) è che nella mia situazione si è fuori target (competenze richieste, linguaggi utilizzati, posizioni aperte, ecc. ecc.).

La seconda impressione (più sfumata e quindi passibile di imprecisioni) è che c’è molta offerta (e dimostrazione) di soft skill (e – talvolta salutari – ragionamenti collettivi) che sembra però non incontrare le esigenze di mercato (per lo meno non molto).

Queste (personali) osservazioni dell’ambiente e delle conversazioni mi hanno fatto fare due ulteriori considerazioni.

La prima è che forse la strada da percorrere non è sempre cercare un lavoro presso altri.
Forse una possibile strada da percorrere è crearsi un lavoro.
Questa ipotesi non è nuova: viene sostenuta da tempo da persone e professionistә che hanno intravisto certe tendenze con largo anticipo.

La seconda si collega alla prima e si declina nella pubblicazione di contenuti (soprattutto su LinkedIn, il social professionale per eccellenza).

Di cosa voglio parlare?
Cosa desidero condividere sulle piattaforme?
Ciò che asseconda il mercato? Oppure ciò che è di mio interesse, che stimola la mia curiosità e (ad un livello sottostante) contribuisce a costruire nuove competenze e una nuova professionalità?

Allo stato attuale sono più orientata alla seconda opzione (condivisione di contenuti che stimolano curiosità e desiderio di personale formazione e informazione).
Poi non escludo che le carte in tavola possano cambiare in corsa, vista la grande aleatorietà dell’era che stiamo vivendo… (aleatorietà che diventerà – forse – uno stato permanente).

[Foto di Gabrielle Henderson su Unsplash]

Avere cura del proprio capitale

Avere cura del proprio capitale.
Questo pensavo questa mattina, dopo un sopralluogo dei muratori nel condominio in cui abito (sopralluogo per piccole opere di manutenzione.)

Un pensiero che – nel contesto – può apparire per certi aspetti un po’ stravagante, ma che credo abbia un senso.

Soprattutto se per “capitale” non si intende solo l’accezione monetaria del termine (quanti soldi ho, per intenderci), bensì lo si legge in modo più ampio (Treccani ne dà un significato abbastanza esteso a questo link).

Ed è a questo significato a cui pensavo:

  • capitale di competenze;
  • capitale di conoscenza;
  • capitale di beni immobili;
  • capitale finanziario (piccolo o grande che sia);
  • capitale fisico.

E avere cura del proprio capitale significa anche (direttamente o indirettamente) farlo fruttare.

Che non significa “faccio lavorare i soldi per me” (concetto parecchio ascoltato in tempi recenti, anche a supporto di business talvolta non chiari e/o che nascondono – nel peggiore dei casi – forme di speculazione di cui ne godono i frutti solo alcuni).
Bensì significa dargli valore attraverso operazioni di cura.

Una valorizzazione che passa attraverso attenzione, informazione, osservazione e valutazione.
Con ponderatezza.
Con oculatezza (intesa come “oculatus ” – fornito di occhi – ossia fondato su una visione diretta).

Avere cura del proprio capitale (intellettuale, fisico, di beni mobili ed immobili) credo sia la strada migliore per salvaguardare ciò che si ha, crescere alla giusta velocità e delle giuste dimensioni.
Ed è un mestiere – questo – che richiede presenza e capacità.
Capacità che si possono tranquillamente acquisire.
Presenza che comporta scegliere su cosa direzionare la propria attenzione e dove investire le proprie energie.

[Foto di Towfiqu barbhuiya su Unsplash]

Infuturazione

“Infuturazione” (e relativa capacità di).

Un termine che ho sentito per la prima volta qualche tempo fa, ascoltando un podcast dedicato alle emozioni primarie (rabbia, disgusto, gioia, tristezza e paura): Le Basi.

Ma cos’è la Infuturazione?
Sintetizzo con parole mie: capacità di proiettare, immaginare il futuro. Anche il proprio, aggiungo.

Se vogliamo dare uno sguardo ad una fonte autorevole, il sito Treccani definisce la parole Infuturare in questo modo:
v. tr. [der. di futuro], letter. – Estendere nel futuro. Come intr. pron., infuturarsi, prolungarsi nel futuro, spec. nella memoria dei posteri: Poscia che s’infutura la tua vita Via più là che ’l punir di lor perfidie (Dante).

E questo termine mi è venuto in mente ieri sera leggendo questo articolo di The Vision: A forza di imparare a sopportare il dolore del mondo, per difenderci, ci stiamo spegnendo.

Ebbene, non so come sei messә, ma negli ultimi tempi (con sempre maggiore e graduale aumento) faccio fatica ad immaginare il (mio) futuro. Soprattutto in termini professionali e progettuali.
Questo a causa degli avvenimenti degli ultimi due/tre anni che si sono succeduti (quasi affastellati uno sull’altro) senza intervalli di recupero (“entriamo ed usciamo costantemente da emergenze”, ha detto un collega qualche tempo fa).
Togliendomi – o comunque abbassando – la “capacità di infuturazione”.
E di cui avvertivo già una certa fatica da ben prima del 2020, i cui eventi non hanno fatto altro che dare una accelerata ai cambiamenti già in essere, ma che viaggiavano quasi sotto traccia e silenziosamente (e forse un po’ più lentamente).

E ieri sera, leggendo l’articolo, ho avuto una sorta di riscontro su quanto percepito.
Facendomi però anche pensare al suo opposto.
Cioè a quanti – per reazione uguale e contraria – corrono a ritmo indiavolato (quasi isterico) scivolando nella deriva della “psicologia positiva” (e motivazionale) contrapposta allo “spegnersi” citato da The Vision: la prima fugge (talvolta quasi senza meta), la seconda si rifugia nella caverna.

Due facce della stessa medaglia che necessiterebbero di entrare in contatto con una terza variabile: il pragmatismo.
Quel pragmatismo oggi forse un po’ “brutale” che ti fa guardare in faccia la realtà, che ti fa entrare in contatto con cose difficili, che ti fa ascoltare e osservare, portandoti a prendersi dei momenti per stare fermә (altrimenti come diavolo fai ad ascoltare?) per cercare di capire quale direzione prendere.
Cercando di cogliere i segnali deboli.
Prontә a cambiare strada, mantenendo un buon grado di fluidità.

[Foto di Drew Beamer su Unsplash]

Idee per il 2023

#BigIdeas (seguito dall’anno imminente) è l’hashatg con cui LinkedIn ragiona e ascolta delle prossime tendenze alla vigilia del nuovo anno: Big Ideas 2023: 16 tendenze che segneranno i prossimi mesi

E quest’anno ho raccolto l’invito di LinkedIn Notizie ad una personale escursione nelle Big Ideas sulle quali presterò attenzione e cercherò di percorrere nella mia vita professionale nel 2023. Muovendomi soprattutto nel mondo delle soft skill.

Provo a tracciare un ragionamento.

Innanzitutto penso sia ormai necessario esplorare (e sperimentare su di sé) la Interdisciplinarità.
La verticalizzazione spinta delle nicchie professionali temo abbia fatto il proprio tempo: la velocità con la quale le cose cambiano, porta alla loro rapida saturazione. E a tale proposito, riprendo un tema già trattato nel libro di Giulio Xhaet, #Contaminati: siamo passati da competenze I shape a Comb shape (le competenze a “pettine”) – attraversando le competenze a T e a “Pi greco” (perdonatemi… non trovo il simbolo…).

[Immagine tratta dal sito CertiBanks]

Credo sia ormai necessario fare uno sforzo nel mettere in dialogo fra loro l’emisfero destro e l’emisfero sinistro (tra creatività e razionalità), lavorando allo sviluppo di questa propria meta-competenza (che potrebbe anche essere diversa per ognuno di noi).

E questo si collega (per lo meno nella mia testa) ad una seconda necessità, che sembra in conflitto con la prima: il Less Is More (di cui avevo già scritto in un recente post).
Una necessità di pulizia del “rumore di fondo” (perlomeno di sua individuazione e suo isolamento) per avere una maggiore chiarezza di lettura, ascolto ed individuazione delle tendenze e di ciò che si profila all’orizzonte.

Una terza variabile è il Linguaggio.
Un linguaggio inclusivo, inteso come riconoscimento di ciò che è altro da noi, ma che – proprio per questo – non sconfini nella cancel culture: l’esclusione di tutto ciò che è “sbagliato” (non politicamente corretto, diverso, ecc. ecc.) e quindi oggetto di rimozione (Vera Gheno ha scritto una interessante riflessione sul tema della necessità di riconoscimento della diversità nella pubblicazione de Il Post dedicato a “Questioni di un certo genere“).
Una deriva rischiosa che potrebbe portare all’oblio e quindi (nei casi più delicati) alla possibile incapacità di individuazione di ritorno di alcuni fenomeni, anche sotto aspetti diversi.

Forse la sintesi di questo mio ragionamento può essere raggruppato in una ulteriore parola chiave: Complessità.
Un concetto – ma anche una “situazione” – con il quale ci confrontiamo sempre più quotidianamente e che non possiamo più ignorare.
E che quindi necessità di una nostra graduale, progressiva e costante familiarizzazione con essa.