Architett(a) che lavora con gli ingegneri è stata docente e consulente di public speaking per Enti e Associazioni, e Speaker Curator di diversi TEDx. Esploratrice in una terra di frontiera quale è la realtà che viviamo, pratica la interdisciplinarità ed esplora la complessità.
Fermarsi talvolta è faticoso. Sembra quasi un paradosso. Anzi forse lo è proprio, un paradosso.
Però a volte è necessario.
Perché si corre, si pensa, si progetta, si rumina, si ipotizza ed immagina… senza soluzione di continuità. Preda del confronto, della performance, dei numeri, della filosofia della competizione. Della velocità e del suo incalzare. Dell’esserci. Del dimostrare.
(Quasi) incuranti di ciò che sta attorno. Di ciò che si muove attorno.
E accade anche se si crede di avere qualche strumento in più per non cadere in certe trappole. Anche se si pensa di avere una sensibilità maggiore nel cogliere certe criticità. Anche se ci si fa qualche (vana?) riflessione in più.
E così sembra che debbano accadere delle “cose robuste” per far fermare e far riflettere. L’evento dirompente che fa saltare il banco o lo incrina in modo evidente (e talvolta preoccupante). L’evento dirompente che serve (purtroppo o per fortuna… dipende dal tipo di evento) a mettere in discussione variabili che forse si stava già (inconsapevolmente o meno) mettendo in discussione.
Per spingere alla (quasi) immobilità. Al back to basic per decidere scientemente di mettere in pausa. Per lasciare decantare la turbolenza (quella turbolenza che potremmo rappresentare come una polvere in agitazione dentro un liquido) Per capire. Per osservare. Per ascoltare.
Senza (provocatoriamente) fare nulla. Senza (provocatoriamente) progettare nulla. Navigando in modalità back to basic.
Restando in ascolto di quei segnali deboli indicatori di possibili future tendenze (micro e macro). Segnali deboli forse più difficili da cogliere proprio perché preda di attività convulse spinte dalla velocità, dalla turbolenza dei tempi e dalla costante fluidità.
E così facendo ci si rende conto di quanto fermarsi sia talvolta faticoso.
Quelle parole che – nel bene e nel male – hanno specifici effetti in chi ascolta. Ma anche quelle parole che sono diventate talmente tanto “chiave” (grazie all’uso massiccio, massivo e indiscriminato) che possono risuonare fastidiose, stonate o stancanti.
Quattro parole che mi sono stancata di ascoltare, sentir pronunciare, leggere. E su cui ho deciso di dedicarci questo articolo un po’ a futura memoria (mia), un po’ per riflettere per iscritto sul perché.
Inclusivo, un termine che ormai viene usato sempre e comunque. Mi fa venire in mente (per associazione di idee) il termine “green washing”: altra parola che sta scalando velocemente le classifiche di utilizzo, alla quale – in questo caso – mi riferisco in termini di “se non la uso non sono credibile”. Questa riflessione arriva dalla lettura di un articolo di Vera Gheno pubblicato nel numero di “Cose” (de Il Post) dedicato alle “Questioni di un certo genere”. Uno scritto che mi ha fatto riflettere sul significato della parola in questione e sulla quale viene posta la seguente domanda (che riscrivo con parole mie): “Siamo sicuri che includere sia la cosa più giusta da fare, e che invece non sia più giusto riconoscere la diversità?” Una sottile linea di demarcazione di significato che diventa (nello specifico di quel testo) quasi il suo contrario fatto di esclusione: perché se includi qualcosa, qualcosa d’altro lo escludi…
E così arrivo alla seconda parola: Esclusivo. Che in questo caso interpreto come un’appartenenza ad un “gruppo di eletti”, sulla quale tanto hanno costruito (e costruiscono) operazioni di marketing e di vendita, non sempre di qualità e che comunque continuano ad avere presa su alcune nicchie di mercato. Quanto estese lo ignoro, però. Perché – oggi come oggi – non so quanto l’esclusività abbia ancora un senso reale (e non solo evocativo).
Vado avanti. E’ il turno di Opportunità. Termine usato e stra-usato da un certo mondo della formazione anni ‘80/‘90 e che – secondo me – sta mostrando tutta la ruggine e la vetustà di significato del caso. Soprattutto quando viene utilizzata da coloro che cercano di venderti qualcosa, incuranti – consapevolmente o meno – della ormai perduta “asimmetria informativa”. Incuranti anche – consapevolmente o meno – del significato che ha assunto nel corso del tempo: un significato che talvolta odora di fregatura.
Finisco con il botto: Straordinario. Una parola che mi provoca molto fastidio ogni volta che la sento pronunciare. Una parola che – almeno nella mia testa – va a braccetto con le precedenti “opportunità” ed “esclusivo” e che talvolta mi sono sentita rivolgere con intenti che andavano dall’adulazione alla motivazione, passando per “l’opportunità straordinaria” (e “irripetibile”). Un (altro ed ulteriore) termine che paga il suo significato a causa di un utilizzo diffuso e – talvolta – improprio.
Non sono cattive parole. Come tutte le cose, non hanno una natura specifica. Hanno una definizione, ma l’uso che ne facciamo fornisce loro un’ulteriore definizione (un significato) a seconda di come le decliniamo e le associamo a situazioni, facendole nostre.
Forse è necessario prestare una maggiore attenzione alle parole che scegliamo di usare, con cognizione di causa e ascoltando ciò che ci circonda. Senza cedere alla seduzione delle parole di moda, bensì comunicando in un modo che ci rappresenta di più, che ha un significato più attinente a ciò che vogliamo realmente dire e che vogliamo far comprendere a chi ci ascolta.
Faccio parte delle generazione analogica. Quella generazione che vive a cavallo della transizione tecnologica, che ha visto (e vissuto) quello che c’era prima e sta vivendo in pieno quello che c’è adesso, intravedendo possibili sviluppi futuri.
E mi definisco una “migrante digitale”, proprio in virtù (e/o a causa) di questo viaggio da quello che c’era prima a quello che c’è adesso. Con tutti i disagi del caso (ai primi approcci alla tecnologia assai poco user friendly dovevi essere quasi un programmatore per gestire i programmi in MS-DOS). Ma anche con tutti i vantaggi del caso (la tecnologia via-via sempre più facile con interfacce dove bastano pochi tap per aprire applicazioni e muoverti al loro interno facendo una moltitudine di cose impensabili fino a poco tempo fa).
Il tutto in quasi 20/30 anni (da un punto di vista utente).
E proprio questa migrazione di utilizzo sta (se mai fosse necessario evidenziarlo) modificando nostre modalità e comportamenti. Uno di queste modalità è la lettura. In senso ampio e lato.
Un’attività che prediligo e sulla quale mi ritrovo spesso a riflettere, talvolta smarrita, talvolta entusiasta, talvolta preoccupata. A seconda dell’umore della giornata.
Ci riflettevo proprio stamattina, leggendo un estratto del libro “La mente estesa”.
Lo stavo leggendo sulla app Kindle per iOS. Quindi sul telefono, neanche sul Kindle che mi sono accorta rendermi stranamente più noioso l’atto della lettura (credo per la mancanza del colore e per la non grande capacità di rendere la lettura “estesa”, tipica degli ebook, che consente di seguire eventuali link presenti e navigare in approfondimenti).
Dopo qualche minuto di lettura dell’estratto, mi sono spostata “altrove” (su altre piattaforme) a leggere altri contenuti e mi sono ritrovata a riflettere su questa modalità che di primo acchito appare alla vecchia me (cresciuta a ore concentrata su un singolo libro) caotica e inconcludente, con forse anche delle tracce di “disturbo dell’apprendimento” (pensiero – questo – forse un po’ paranoico).
Ma che forse è indicativa di una modalità “reticolare” o “a propagazione”, parafrasando Giulio Xhaët che nel libro “#Ibridocene” di Paolo Iabichino scrive:
“In un mondo cosi complesso come quello Phygital non basta più avere competenze verticali, ma è necessario apprendere per “propagazione” provando nuove strade e unendo discipline anche molto distanti tra loro.”
Una modalità non per questo impoverita, bensì forse diversa.
Più adatta forse ai tempi che stiamo vivendo e che ci costringono, e ci stimolano, ad adottare nuovi modi per continuare a fare quello che facevamo prima.
In questi giorni (e – in modo meno consapevole – in queste ultime settimane) mi sto rendendo sempre più conto (se mai ce ne fosse bisogno) di quanto sia difficile comunicare.
Riuscire a comunicare (e a farsi capire) dal proprio interlocutore, attraversando il filtro delle credenze, dei valori e delle emozioni di chi ci ascolta (di chi sta udendo le nostre parole, che non vuol dire necessariamente “ascoltare”).
Questo avviene di norma. Quotidianamente.
Se poi ci si trova in una situazione di crisi come – per esempio – la presenza di una malattia grave che colpisce un tuo “caro” (che sia un amico o un parente più o meno stretto), dove ci sono in gioco emozioni molto forti, stress ed un processo di negazione in atto, diventa ancora più complesso. (E dove il processo di negazione può coinvolgere tutti gli attori coinvolti, interni ed esterni all’ambito familiare.)
E se – ulteriore gradino – tu non sei un elemento direttamente coinvolto (familiarmente), ma sei un esterno (comunque interessato emotivamente), la situazione è ancora più complessa. Con la variabile aggiuntiva di un recepimento delle informazioni probabilmente parziale, probabilmente filtrata (in termini di contenuti e di presenza di un filtro emotivo).
Una situazione dove tu – esterno ma emotivamente coinvolto – non puoi (e non devi, se non ti è espressamente richiesto) interferire. Dove puoi suggerire degli strumenti che non è detto vengano utilizzati (e per questo non devi frustrarti). Dove devi essere in grado di individuare linee di demarcazione di azione e di comunicazione che non possono (e non devono) essere superate.
Tutto questo in una configurazione di rete di comunicazione che vede medico-parente-paziente come una galassia dove tu (esterno) sei un satellite. Più o meno ascoltato e considerato (per i motivi più disparati che possono esserti o meno noti).
La comunicazione è un processo complesso. La comunicazione in una situazione di salute compromessa è un processo complesso e assai delicato.
Dove il “distanziamento emotivo” non deve essere interpretato come una disumanizzazione, bensì come una ricerca e acquisizione di lucidità. Lucidità di comunicazione (emittente) e interpretazione (ricevente).
Una lucidità necessaria (seppur talvolta difficile da applicare) per acquisire informazioni attraverso ricerche e per poter fare le giuste domande, le più accurate possibili (talvolta scomode ma necessarie), per avere chiarezza di visione e di possibili percorsi intrapresi.
Una lucidità necessaria (seppur talvolta difficile da applicare) per affrontare i problemi che possono essere di una enormità emotiva difficile da accettare. E che nella loro enormità emotiva possono essere intimidatori, non consentendoti di avere la forza (e quindi la lucidità) necessari per gestirli. Senza per questo negare le (necessarie) emozioni che essi generano e che devono essere gestite con consapevolezza (riconoscendole e non negandole) e (appunto) con lucidità.
Nell’interesse del tuo caro-paziente-amico che è al centro di questo universo non solo medico ma anche comunicativo. Caro-paziente-amico che va tutelato, rispettato, protetto e accompagnato.
Diversi giorni fa scrivevo il post su Facebook riportato qui sotto, raccontando di un episodio accaduto qualche ora prima.
La settimana successiva a questo episodio – a valle di un mini-corso sulla “comunicazione in pubblico” dedicato alle studentesse di ingegneria e architettura del Politecnico di Milano – ho fatto improvvisamente (tra me e me) un collegamento tra alcune riflessioni condivise con le partecipanti e quello che ho fatto (e detto) nel “conflitto dialettico” di quel giorno.
Fatto salvo le idee che hanno sostenuto le rispettive “uscite” (del collega e mie) e sospendendo qualsiasi tipo di giudizio sulle rispettive posizioni politiche e ideologiche, mi sono resa conto di avere commesso un errore strategico di comunicazione. Riflettendo anche sulla effettiva (e scomoda) validità dell’osservazione del collega sulla emotività messa in gioco.
Vado a spiegare partendo con l’immagine qui sotto: un semaforo e alcune piccole parole (No, Però, Ma, Sì e…).
Questa è la slide che utilizzo per spiegare l’importanza di alcune piccole e apparentemente inoffensive “paroline” (congiunzioni) che usiamo con grande disinvoltura e che – collocate all’interno della frase strategicamente o a casaccio – possono fare una grande differenza nel significato complessivo del concetto che stiamo comunicando.
Durante il ragionamento su queste congiunzioni, e su situazioni di comunicazione in conflitto, una delle partecipanti ha raccontato della sua esperienza di persona un po’ polemica (a detta di altri) che nel tempo ha imparato a esordire nelle sue osservazioni con un tocco di ironia (“Sì, con tutto il bene che ti voglio, ma…”).
L’ironia ha fatto da ponte ad un ragionamento sulla gestione della pressione emotiva che si crea in queste situazioni, insieme all’uso delle parole (“confronto dialettico” è il sinonimo che ho usato per trasformare la situazione da “scontro” a qualcosa che risuona meno pesante: un termine ascoltato tempo fa in un podcast).
Pressione emotiva da riconoscere e da gestire. Dalla quale prendere le distanze. Per mantenere il controllo del dialogo e delle parole che lo compongono (“controparte” vs “interlocutore” è un altro escamotage linguistico per “raffreddare”).
Quindi quale errore strategico di comunicazione ho commesso?
Non sono stata in grado di gestire le emozioni.
Emozioni generate da quello che avevo letto e avevo visto quella mattina. Che mi aveva provocato sofferenza e dolore. (Che mi provoca tutt’ora un enorme senso di sofferenza, dolore e impotenza. [E i fatti di Bucha di queste ore – nel mentre scrivo questo articolo – stanno gettando ulteriore benzina sul fuoco; ma su questo ne scriverò la prossima settimana per lasciar(mi) il tempo per decantare e riflettere.])
Grosse emozioni in gioco che hanno schiacciato e soverchiato tutto il resto, “mandandomi fuori di testa” in una frazione di secondo.
Errore. Mio.
Un errore che – se visto su diverse scale – può creare conseguenze difficili da riparare. (E di errori simili – in contesti diversi – ne ho commessi in buon numero nel passato, imparando nel tempo – con fatica – a gestirmi.)
Quindi cosa avrei potuto rispondere alla frase del collega “a Mariupol non sta succedendo nulla” (con un linguaggio del corpo che supportava le sue parole, amplificando la mia interpretazione emotiva)?
Anziché scattare come un rettile dicendo “Ma cosa stai dicendo???”, proseguendo con una neanche tanto velata accusa di “negazionismo”, avrei potuto – con calma – porre una domanda:
“Cosa intendi dire connon sta succedendo nulla?”
Proseguendo poi, domanda dopo domanda, ad estrarre informazioni e pensieri del collega. Valutando di volta in volta cosa chiedere, a seconda delle risposte.
Avanzando con ulteriori domande. Ancora e ancora.
Estraendo informazioni.
Riconoscendo nel contempo le (mie) emozioni in corso e mettendole momentaneamente da parte, in funzione di un chiarimento dei concetti utili a sostegno della mia argomentazione.
Forse non avrebbe risolto, ma sicuramente sarebbe stato utile a “tamponare”. Un “tamponare” utile (a sua volta) a non farsi sopraffare, e che non deve essere visto come un processo di disumanizzazione e un segnale di assenza di empatia. Bensì un “tamponare” utile a mantenere stabilità ed equilibrio (emotivo), utili (a loro volta) a gestire conversazioni, riflessioni ed azioni.
Alla fine, come avevo “annunciato” in un articolo di qualche tempo fa, ho scritto un libro.
Per la precisione ho scritto il libro (almeno per me). Perché questo libro è come la chiusura di un cerchio, la fine di un percorso iniziato il 9 febbraio del 2018, che ha visto una catarsi il 28 marzo dello stesso anno, e i cui effetti sono proseguiti ancora per qualche tempo. In forma chiara, prima, in forma più intimista, dopo.
Il libro si intitola “Dare un senso alle cose” e narra di quello che mio padre e me abbiamo vissuto con mia madre dal (appunto) 9 febbraio al 28 marzo (la data in cui lei ci ha lasciato).
È la storia di un lutto, ma anche della successiva fase di elaborazione. Ed è anche (e forse soprattutto) una storia di umanizzazione delle cure. Perché è la storia di quello che abbiamo sperimentato “vivendo” per tre settimane in Terapia Intensiva, a fianco di mia madre.
Della vicenda ne avevo già narrato – in una sorta di diario online – sui social (durante la fase più intensa) per poi passare (quando tutto è finito) qui, sul blog, raccontando del dopo.
Oggi, dopo quasi quattro anni, ho preso tutto quel flusso di parole (alcune condivise solo con gli operatori del reparto) e l’ho organizzato in un libro, aggiungendo delle riflessioni a distanza di tempo. Chiedendo ad alcuni degli attori direttamente coinvolti nella vicenda, di scrivere qualcosa. E così il diario, la storia, di quello che è accaduto si è arricchita delle testimonianze del Dott. Paolo Brioschi (Responsabile della Terapia Intensiva 1 dell’Ospedale Niguarda), della Coordinatrice Infermieristica Isabella Fontana e della psicologa D.ssa Barbara Lissoni (psicologa consulente della Terapia Intensiva).
Nel fare questa operazione di scrittura ho imparato un po’ di cose. Molto pragmatiche.
Ho imparato (ho avuto conferma) che scrivere per i social (e anche per il blog) è una cosa, scrivere per un libro è tutta un’altra faccenda. Infatti in prima battuta avevo semplicemente raccolto ed ordinato cronologicamente gli scritti, revisionandoli un po’.
All’atto però della rilettura, mi sono resa conto che alcune parti erano “impresentabili”. Ripetitive, scritte male, scoordinate… Tra loro non dialogavano. Così ho rivisto, e riletto, più e più volte il testo fino a renderlo organizzato nella sua totalità.
E poi ho imparato che la versione cartacea di un libro non sempre può essere identica alla sua versione in eBook. Soprattutto se al suo interno ci sono rimandi a fonti, accompagnate da link. (Tanto è stato il personale lavoro di documentazione durante la vicenda, per razionalizzare l’evolversi della situazione, e dopo, per aiutarmi a metabolizzare, ad elaborare.)
Vi è mai capitato di avere in mano una copia cartacea e trovarvi dentro dei link (anche piuttosto lunghi) a siti che – per ovvie ragioni – non vi è possibile cliccare e seguire? A me sì.
E così – dopo avere caricato la versione digitale su Amazon (sì, ho usato KDP di Amazon autopubblicandomi, ma di questo ne parlo più avanti) – quasi pronta ad autorizzare la versione cartacea (dopo innumerevoli passaggi e controlli sulle bozze), mi sono fermata e ho riorganizzato le note in modo diverso: tolti i link alle fonti (semplicemente citate), si sono estese (diventando esplicative).
E ancora, ho imparato che le pagine bianche sulle copie cartacee (utili a mantenere un certo tipo di impaginazione), nella versione digitale non servono.
Ho imparato questo e molto altro durante il caricamento sulla piattaforma KDP (Kindle Direct Publishing) di Amazon.
Perché sì, ho scelto di autopubblicare. Perché non avevo tempo per cercare una casa editrice (volevo che il libro uscisse secondo una tempistica precisa). E (memore di un paio di esperienze che sicuramente non rappresentano l’intero universo editoriale, ma amareggiano assai) non volevo pagare una casa editrice per pubblicare il libro.
Anche perché – e questa è la cosa più importante – l’intero ricavato delle vendite va al progetto di “H for Human” di Wamba Onlus dedicato alla Umanizzazione delle cure in Terapia Intensiva.
Quella umanizzazione (quella umanità) che mio padre ed io abbiamo avuto modo di sperimentare direttamente e che molto ci ha aiutato in quei difficili giorni del 2018. Che – pur nell’esito nefasto della storia – ha lasciato un buon ricordo delle persone che operano all’interno di quel reparto.
Un progetto (H for Human) importante che merita di essere supportato e ampliato, e di cui vi lascio qui il link per andare a conoscerlo: H FOR HUMAN.
Vi lascio il link al libro: Dare un senso alle cose. Una piccola testimonianza di una vicenda molto intensa. Una vicenda tra le tante che accadono in quel luogo. Una vicenda che racconta di donne e uomini veramente straordinari.
Grazie a chi lo acquisterà, contribuendo al progetto. Grazie a chi lo condividerà, contribuendo a far camminare questo libro e la storia che porta con sé.
Di recente ho commesso un errore. Importante, secondo i miei parametri.
Ho ceduto alla lusinga dal “vago sentore primitivo” (leggasi “intervento del cervello rettile”) di quella benedetta/maledetta piattaforma che si chiama Facebook: ho ceduto alla pulsione di voler esprimere un opinione personale su una vicenda di grande risonanza mediatica che “fa scopa” (termine mutuato dal celebre gioco a carte) con un tema fortemente polarizzante.
Praticamente una tempesta perfetta che – se ben condotta – può generare engagement (che non era il mio obiettivo) ma che se sfugge al controllo genera un flame (che si stava generando) su cui bisogna cercare di intervenire rapidamente, con tutta la difficoltà derivante da una comunicazione temporalmente non allineata e priva di tutta una serie di canali comunicativi che possono smorzare eventuali malintesi (tono di voce, espressioni del volto, sguardi, ecc. ecc.).
Anzi, l’errore non è stato uno. Bensì sono stati due. Il primo è stato quello di voler esprimere una opinione sulla questione (non necessaria, anche se pubblicata sul profilo personale). Il secondo è stato quello di toccare uno degli argomenti più sensibili in circolazione negli ultimi giorni.
Parto dal secondo per poi collegarmi al primo.
Di solito un suggerimento che si da a chi muove i primi passi nella comunicazione in pubblico, e al pubblico, è di evitare di trattare argomenti relativi a politica, religione e sesso (a meno che non siano esattamente i temi di cui si deve parlare, nel qual caso si lavora sul come trattarli a livello di linguaggio utilizzato e “tono di voce”). Perché questo? Perché sono temi che bisogna saper gestire (anche a livello emotivo), così come bisogna saper gestire quello che si muove a valle. Cioè quello che le tue parole scritte (o dette) generano in chi ti legge (o ascolta).
Ai tre argomenti sopra citati se ne devono però aggiungere altri due: lo sport (ma di questo già si sapeva, in particolare sul tema calcio, e oggi anche in estensione su altre discipline) e la questione vaccini (anche se non esprimi opinioni contro chi non la pensa come te).
Una ingenuità mia, lusingata da vecchi insegnamenti male interpretati: il prendere posizione per (mi si perdoni la ripetizione) posizionarsi. (Dove per “posizionarsi” intendo acquisire autorevolezza su qualcosa.)
Ma il posizionarsi non si accompagna necessariamente all’esprimere opinioni su argomenti che non sono attinenti al tema su cui vuoi acquisire (o hai) – appunto – autorevolezza. Anche se esprimere opinioni (anche su argomenti “esterni” alla tua area di competenza) ti posiziona. Irrimediabilmente. Nel bene e nel male. (E quando sei posizionato/a devi saperti gestire e devi saperne gestire le conseguenze.)
Recentemente – a valle del post (che ho poi rimosso) – mi è tornato in mente quello che aveva riflettuto qualche giorno prima un contatto (sempre su Facebook): la decisione di non condividere più opinioni su tutto, constatandone il beneficio (anche mentale) che ne stava traendo.
Una scelta editoriale.
Così facendo qualcunә potrebbe pensare che questo vada a compromettere la libertà di espressione. Ma non è così. Si è liberә di pensare ciò che si vuole ma non ci si deve sentire obbligatә (dal proprio Ego) ad esprimere le proprie idee. Anzi, questa scelta può essere l’occasione per esercitarsi nella misurazione delle parole, nella osservazione e nell’ascolto. Senza esprimere un giudizio e senza cedere alla pulsione indotta dalle emozioni che i contenuti altrui possono generare.
Non dico che l’adozione di questo comportamento sia un percorso facile. Continueremo ad arrabbiarci, o a indignarci, davanti a ciò che non è allineato con il nostro pensiero: siamo umanә e siamo fatti di emozioni. E’ giusto che sia così. Ma se desideriamo instaurare dialoghi costruttivi, anche se i nostri interlocutorә si trovano su posizioni opposte alle nostre, la strada da percorrere è questa: sospendere il giudizio, riconoscere le nostre emozioni (mettendole momentaneamente da parte) e – soprattutto – predisporsi all’ascolto (anche attivo).
Forse i canali di comunicazione a nostra disposizione (i social media), con la loro modalità di comunicazione asimmetrica (nei termini di cui scrivevo all’inizio), non sono il luogo ideale per affrontare temi importanti. A meno che si sviluppino competenze emotive e di linguaggio (in senso ampio) tali da consentirci confronti dialettici “calibrati” e approfonditi.
Perché queste piattaforme offrono indubbiamente potenzialità immense e sono – di conseguenza – strumenti molto potenti. E come tutti gli strumenti (potenti o meno) la bontà (o meno) dell’uso che se ne fa, dipende solo ed esclusivamente da noi. E – nello specifico – dalle nostre competenze emotive e di linguaggio.
(Nota finale “ludica”: parallelamente ho avuto modo di “apprezzare” la velocità di risposta dell’algoritmo che – al mattino successivo alla pubblicazione del disgraziato post – mi mostrava con solerzia contenuti analoghi di contatti che non ricordavo neanche di avere e che mi hanno generato qualche “mal di pancia”. Confido che la rimozione del post e il riordino del profilo sollecitino a breve l’algoritmo ad un aggiustamento altrettanto rapido della timeline.)
Con questo post torno a scrivere di libri e lo faccio con i primi due letti in questi (primi) giorni del 2022, scritti da una autrice che purtroppo ci ha lasciato alla fine dell’anno scorso: Joan Didion. Una scrittrice che ci lascia testimonianza del suo lavoro, del suo pensiero e del suo modo di scrivere e che – personalmente – sta influenzando sottilmente il mio modo di concepire la lettura e la scrittura.
Scoprii Joan Didion con “The white album”, grazie ai BeBookers (di cui stavo seguendo un bookclub).
In prima battuta rimasi interdetta dal suo linguaggio che definii (tra me e me) “anodino”. Come i metalli. Non so perché mi venne in mente questo aggettivo, ma mi suscitò esattamente questa sensazione: la sensazione di qualcosa di metallico, essenziale e freddo. Un linguaggio al quale non ero abituata, che trovai strano, che feci anche un po’ fatica ad accettare ma che col tempo imparai ad apprezzare (ci volle qualche settimana perché le parole e le storie di “The white album” iniziassero a sedimentare e a lavorare in profondità). E la cosa interessante era che la “freddezza” con cui narrava evidenziava ancora di più il significato delle storie che raccontava.
La ritrovai qualche anno dopo con “L’anno del pensiero magico”: una narrazione dei gravi lutti che la colpirono, scritto nel suo stile asciutto e – forse proprio per questo – molto più intenso. [Lessi il libro durante la mia fase di elaborazione del lutto e fu terapeutico. Forse proprio grazie al suo stile poco incline al drammatico, bensì al limite del pragmatico e della iper-razionalità.]
Ebbene, “Prendila così” è un libro di un vuoto straniante. Vuoto di emozioni, vuoto di valori, vuoto di contenuti, vuoto di umanità… che permea la storia di Maria e dei protagonisti che le ruotano attorno. Nel mentre leggevo avevo davanti a me i quadri di Edward Hopper (che amo per le sensazioni di sospensione e sottrazione che mi trasmettono) e il lavoro che Robert Venturi (insieme a Denise Scott Brown e Steven Izenour) fece su Las Vegas e i suoi non-luoghi (“Learning from Las Vegas” è un libro che incontrai all’università e che mi colpì profondamente). Un senso di squallore e di solitudine profonda. E di assenza di punti di riferimento.
“Idee fisse” è invece un saggio breve che raccoglie le parole che Joan Didion scrisse dopo l’11 settembre. Diviso tra ricordi e analisi culturali, è anche una verbalizzazione (un chiarimento) ed un riepilogo di quello che abbiamo letto, o anche solo intuito, sulla gestione della narrazione attorno agli attentati alle Torri Gemelle. E’ anche un faro puntato contro un certo tipo di retorica che può innescare e giustificare reazioni disfunzionali.
Joan Didion “ti arriva”. Magari disturbandoti un po’. Magari non chiaramente. Magari non da subito. Ma ti arriva.
E la sua capacità di sintesi linguistica, senza orpelli, è forse la caratteristica che mi ha colpito di più, che ha “eroso” il personale muro del giudizio, insegnandomi col tempo ad apprezzare il suo lavoro. Spingendomi così a proseguire nella lettura delle sue opere.
Si scrive “ə”, si pronuncia Scevà (dal tedesco Schwa, a sua volta derivato dall’ebraico shĕwā). Il suo suono dovrebbe collocarsi – se ho ben compreso – tra la “a” e la “e” (una sorta di “e rilassata”)
[Immagine tratta da Wikimedia Commons]
Non è una lettera introdotta di recente. Esiste da tempo negli alfabeti esteri.
Ma il suo impiego nella nostra lingua sta avvenendo in tempi recenti, in modo sempre più pervasivo. Si colloca al termine di quelle parole che si distinguono tra il maschile e il femminile, sostituendosi per rendere il termine utilizzato inclusivo anche per coloro che non si riconoscono nella identità binaria (maschile o femminile).
Non mi dilungo nella presentazione e spiegazione di questa piccola lettera che sta generando grandi discussioni più o meno “polarizzanti”: c’è chi è a favore e c’è chi è contro (quando ho scritto un post su Facebook, nel quale raccontavo della sperimentazione personale in corso, mi sono trovata a dover moderare commenti anche un po’ veementi). E’ interessante invece il lungo articolo che l’Accademia della Crusca dedica alla differenziazione di genere nel linguaggio: Un asterisco sul genere.
Per quanto mi riguarda continuo nella sperimentazione (ho preso “coraggio” introducendola anche nella homepage del sito), procedendo per piccoli passi e tastando il terreno.
I primi esperimenti sono stati all’interno di slide di un webinar che ho tenuto di recente dove – anziché utilizzare asterischi o “o/a” (“e/a”) – ho inserita la “ә” come “declinazione inviluppo”. Anche se nel parlato ho continuato a declinare le parole in femminile e maschile.
Perché l’ho fatto?
Perché ho iniziato a prestare attenzione a coloro che stanno scrivendo (anche da tempo) della dominanza della coniugazione al maschile nella definizione di ruoli e professioni (maschile sovraesteso). Una particolarità che sino ad oggi ho acquisito come dato di fatto, non avendo mai vissuto la questione come una discriminante.
Apparentemente. Forse.
Perché un passaggio che faccio molta fatica a fare è la declinazione al femminile della parola “architetto”: architetta. Lo faccio (sforzandomi) in ambienti esclusivamente al femminile, ma all’interno di situazioni professionali miste (soprattutto cantieri, e vi lascio immaginarne il motivo per chi conosce un po’ l’ambiente…) continuo a prediligere la declinazione “al maschile” (“si tratta di un ruolo, non di una identità”, rifletto tra me e me). (Avrei preferito – confesso – il termine Architettrice, come pittrice [ho sentito dire anche “pittora”, e mi si sono rizzati i capelli in testa], che è anche il titolo del bel libro di Melania Mazzucco sulla figura di Plautilla Bricci.)
La lingua si evolve. Sempre. L’italiano che usiamo oggi è diverso dall’italiano usato anche solo 50 anni fa. Quindi non mi sento di condannare l’uso della schwa, così come non mi sento di escludere a priori l’uso del termine “architetta”.
C’è sempre un po’ di attrito iniziale davanti ai cambiamenti. Soprattutto nel linguaggio che ha anche il potere di definire, descrivere e quindi di dare una identità ed un riconoscimento a ciò che viene nominalizzato (finché non lo nomini non esiste).
Da parte mia continuo a provare e ad osservare. Il tempo mi/ci dirà se alcune scelte e sperimentazioni linguistiche recenti continueranno la loro strada o se verranno abbandonate a favore di altre opzioni ad oggi magari non ancora disponibili.
Vi lascio con il video del Talk di Vera Gheno dedicato proprio alla schwa:
Prima dell’estate sono stata contattata dalla giovanissima associazione Thesis4U, un bel progetto nato a dicembre dello scorso anno (2020) che ha l’obiettivo di mettere in contatto studenti universitari ed aziende, per dare modo di realizzare “tesi d’azienda”. Non scendo nello specifico della descrizione della loro mission per non dare informazioni errate e invito ad andare a visitare il loro sito a questo link: https://thesisforyou.com/. Credo ne valga la pena.
Per quanto riguarda il mio contributo, con Stefano Perego abbiamo chiacchierato di public speaking, condividendo spunti e riflessioni per comunicare in modo efficace. Cercando di offrire uno sguardo d’insieme su un tema abbastanza vario e abitato da diverse variabili.