Articolo molto delicato su argomento altrettanto delicato. Me ne rendo conto.
Ma ti chiedo di seguirmi in questa riflessione nella quale cerco di guardare da una “terza posizione” il più possibile neutrale. Prendendo le distanze da giudizi, convinzioni e posizioni su uno dei temi più delicati in cui ci si possa imbattere (perché tocca le identità ed i valori di ognuno di noi, da qualsiasi parte ci si trovi).
Eccomi quindi qui con alcune considerazioni sulla figura del Papa Emerito Ratzinger.
Considerazioni che mi sono sorte leggendo sui social alcuni post “di pancia” condivisi alla notizia della sua morte. Post che tradiscono malcelato disprezzo e malcelata indifferenza.
La prima riguarda la figura di Joseph Ratzinger.
Quando diede le dimissioni ebbi la personale sensazione che la sua decisione fosse dettata dal non riuscire più a reggere la pressione del ruolo.
Un ruolo che richiede un tenuta emotiva e mentale non indifferenti, unito ad un carattere d’acciaio (al di là di come la si pensi).
Ratzinger era un teologo.
Ed era il teologo di Wojtyla.
Se mi si concede il paragone: Wojtyla era uomo da palco, carismatico che arringava le folle; Ratzinger era l’uomo che curava i contenuti.
E – se hai costruito la tua vita sullo studio – trovarti catapultato sotto i riflettori (per esigenze di continuità con il tuo predecessore), con gli occhi del mondo puntati addosso, investito non solo della carica di guida spirituale, ma anche a capo di una “azienda” enorme, longeva e che ha parecchi problemi, non è facile.
Sfido chiunque a tradurre in fatti le idee e i progetti rivoluzionari che si hanno in mente in una “condizione aziendale” di quel tipo.
Se poi sei una persona con quel percorso, quel carattere e quella formazione è praticamente (quasi) impossibile.
E qui arrivo alla seconda considerazione relativa ai giudizi tranchant davanti a posizioni che non condividiamo (i post che ho letto in questi giorni).
Ratzinger faceva il suo “mestiere”.
Di teologo e – di conseguenza – di difensore delle idee di cui è portatrice l’Istituzione in cui credeva e di cui era il primo rappresentante.
Non se ne esce.
Ci si può indignare – ed esprimere il proprio disappunto – quanto si vuole, ma questo è.
Ha fatto quello che ci si aspettava da lui e quello che il suo ruolo richiedeva.
E questo mi fa pensare ancora una volta che non è con la contrapposizione che portiamo a casa un risultato.
L’intelligenza sta nel trovare il “punto di ingresso” davanti alla graniticità dell’interlocutore (Istituzione).
È un lavoro faticoso, certosino, difficile.
Un lavoro lento, che richiede tempo, pazienza e molta calma.
Un lavoro di negoziazione, di concessioni date per ricevere (altrettante) concessioni (do ut des).
Certo, questo non garantisce il risultato ma alza le probabilità di riuscita rispetto a proclami, urla e drastiche prese di posizione.
Queste ultime vanno benissimo per proteste di piazza (reali o virtuali) che però, se non sono sostenute da momenti più strutturati di interlocuzione, lasciano il tempo che trovano spegnendosi.
[Foto di Simone Savoldi su Unsplash]
Una nota aggiuntiva: a questo link un articolo in ricordo di Ratzinger scritto da Don Giulio Della Vite (Segretario Generale della Diocesi di Bergamo). A mia volta ho avuto l’onore di affiancare Monsignore Della Vite nella preparazione del suo Talk per TEDxBrianza: ascoltandolo e affiancandolo ho imparato tantissimo.