L’abito non fa il monaco. O sì?

“L’abito non fa il monaco”, recita un antico adagio.

L’interpretazione che ho sempre dato a questo detto popolare è: non fidarti solo dell’apparenza, non valutare una persona solo dal come si veste, perché potresti essere tratta in inganno.
(Anche un altro proverbio sottolinea il concetto: “L’apparenza inganna”.)
Ma un paio di giorni fa ho – inconsapevolmente – modificato il significato.

Ma andiamo con ordine.

Tempo di saldi e lo scorso weekend sono tornata dopo un po’ tempo a curiosare da Muji (marca giapponese che apprezzo molto, insieme a Uniqlo), cadendo preda (volentieri, ad essere sincera) della “sirena dello shopping” facendo man-bassa di camicioni di lino e scarpe.
(Tornando in settimana a “finire il lavoro”, acquistando stole e altro…)

E un paio di mattine fa – nel mentre mi accingevo a indossare una mise Muji-only (quella della foto di apertura del post) – mi sono sentita particolarmente soddisfatta del risultato.
Una stranezza per me, abituata ad indossare solo pantaloni e a rifiutare tutto ciò che ha la parvenza di una gonna (lunga o corta che sia).

Ho pensato inaspettatamente se questo cambiamento nel modo di vestirmi fosse stato possibile per me (per “la mia testa”) 3/4 anni fa (ai tempi sono successe delle cose che hanno spostato pesantemente il mio punto di vista su alcuni aspetti della vita).
Mi sono fermata un momento a pensare e ad osservar(mi) per cercare di indagare se questa “rivoluzione” sia un puro capriccio o nasconda qualcosa di diverso e più “sotterraneo”.

E ho tratto delle mie (prime) “conclusioni”.

Nell’ultimo anno ho praticamente rifatto totalmente il mio guardaroba (sempre con un occhio rivolto al portafogli…): un cambiamento che sentivo la necessità di fare in una sorta di (credo inconsapevole) “atto di rimozione” – da un lato – della perdita subita (oggi, a distanza di due anni, sorrido al pensiero della mia reazione nei primi tempi al leggere che l’elaborazione del lutto può durare anche due anni: “Due anni??!!”, avevo esclamato sicura di metterci meno tempo…), ma anche – dall’altro lato – per saldare ancora di più il ricordo del viaggio in Giappone di tre anni fa (l’ultimo fatto con mia madre, tra l’altro), continuando ad alimentare il legame con questo Luogo in modo diverso (e a distanza, in attesa di tornarci un giorno…).

Nel contempo il riorganizzare la mia immagine, abbracciando i due brand nipponici, mi sono resa conto essere stato un curioso ed inconsapevole atto di affermazione di una nuova identità.

So che può suonare strano.
Anche perché chi mi conosce sa che non ho mai subito alcuna pressione da parte di nessuno (a maggior ragione dei miei genitori) su come dovevo vestire e cosa dovevo fare.

Ma quello di cui ho preso atto negli ultimi tempi è un legame (un laccio robusto) con il “senso del dovere” declinato in molti modi tra cui il non voler deludere persone con le quali ho (per l’appunto) dei legami.
Un obbligo che mi sono costruita nel tempo – da sola – nel mentre ero impegnata a fare altro.

Ora, complice gli accadimenti di due anni fa, il varcare la soglia dei 50 anni (anche questo fattore mi rendo conto essere importante perché innesca un cambio di mentalità che può percorrere due strade: l’inseguire la giovinezza o l’accettarsi per quello che si è, letteralmente fregandosene [nei limiti della decenza, ovviamente]) e anche quello che abbiamo vissuto in questi ultimi mesi (che ha portato personalmente ad una asciugatura delle esigenze e ad un avvicinamento all’essenzialità), hanno riposizionato molte cose.
Comportando il rivedere se stessi in modo diverso, anche attraverso ciò che si indossa (che è uno degli “artifici” con cui ci presentiamo agli altri e che contribuisce a formare l’idea che gli altri si fanno di noi).

E questo mi ha fatto tornare in mente un libro di crescita personale scritto da un italiano (di cui non ricordo più il nome) letto molti anni fa.

L’autore (life coach) adottava coi suoi clienti un metodo che ai tempi giudicai assai “stravagante”: durante il percorso, ai suoi coachee faceva rifare il guardaroba come atto fisico di rinnovamento.
Ripeto: ai tempi pensai che fosse una idiozia (non lo nascondo).
Oggi – ricordando quelle pagine – credo non sia una cosa completamente priva di senso.

Ad ogni modo, tornando al Giappone e alla sua estetica (che amo), sempre in questi giorni mi è tornata in mente un’altra immagine.

Qualche anno fa incontravo spesso in treno una donna giapponese di età indefinibile.
La guardavo sempre affascinata: essenziale (quasi spartana nel modo di abbigliarsi) era di una eleganza straordinaria (secondo me).
Capelli grigi raccolti in uno chignon, indossava gonne lunghe, golfini, cappotti, calzini di lana e scarpe tacco basso, tutto declinato in tinte neutre. In una composizione in equilibrio che dava l’idea di discrezione, morbidezza, comodità, ed eleganza.

Non so che fine abbia fatto.
Però, mi è tornata alla mente in questi giorni.
Una figura che avevo momentaneamente dimenticato ma che -evidentemente – non avevo totalmente rimosso.
Un “appunto mentale” che ha sempre costituito un punto fermo nei miei canoni estetici di riferimento, nel mentre sperimentavo altre modalità di presentarmi al mondo.

L’Epica di una carta di credito

[Sottotitolo: La Burocrazia ai Tempi del Coronavirus]

In questi giorni la mia pazienza con la mia banca (e la carta di credito da loro emessa) è stata messa a durissima prova…
In una sorta di “Stress Test” ad altissimo livello (emotivo)

Ma andiamo con ordine.

Photo by Sharon McCutcheon on Unsplash

Succede, talvolta, che – utilizzando molto la Carta per gli acquisiti online – ci siano dei “piccoli incidenti”: l’addebito di spese non effettuate, la clonazione, e altre amenità simili…

Il sistema dell’sms è ottimo per avere in tempo reale la segnalazione di operazioni. (Così come le stesse App delle carte di credito che funzionano allo stesso modo.)
E così è successo con una spesa addebitata a marzo (già in lockdown) per un abbonamento online per un antivirus.
Spesa che denuncio a fine aprile (dopo che mi ero prodigata autonomamente in controlli, accertandomi che non si trattasse di un servizio al quale ero abbonata, e di cui mi ero serenamente scordata [avevo anche fatto richiesta dell’estratto conto – stesso periodo – dell’anno precedente, per un controllo incrociato]).

Seguo le istruzioni sul sito della Banca e avvio le procedure, chiamando il numero indicato (indicato anche per le contestazioni di spese e non solo per blocco carta).

Centraliniste (1930) – Fonte Touring Club

L’operatore che mi risponde esordisce (dopo la mia breve spiegazione iniziale) con: “Ma questo è il numero per il blocco delle carte…” (con tono come se fossi io la stordita).
Rispondo: “Questo è il numero che c’è sul portale della Banca…” (con tono stile “mi pigli per cogliona?”, scusate il francesismo…).
Ritornato a più miti consigli (non senza comunque velata saccenza), mi guida su cosa fare ed io opero immediatamente:

  1. compilando il modulo (CARTACEO, scaricato dal sito della Banca…)
  2. scansionando il modulo (col TELEFONO… ricordiamoci sempre che siamo in lockdown)
  3. inviando il modulo (via MAIL…)

Tutto tace per qualche giorno, finché – facendo la spesa e pagando con la carta di credito – la carta viene rifiutata.
Uso altra carta (per fortuna) e parlando con la cassiera, conveniamo che forse c’è stato un blocco preventivo della carta “incriminata”.

Dopo qualche giorno mi arriva una busta (via POSTA NORMALE) che mi informa che la mia carta è stata preventivamente bloccata e, entro 15 GIORNI dalla data di ricevimento della presente (che NON ha nessun timbro che attesti la data di ricevimento…), devo:

  1. compilare il modulo allegato (IDENTICO a quello inviato via mail…)
  2. fare denuncia ai Carabinieri, allegandola al modulo “di cui la Punto 1.”
  3. inviare la documentazione via mail o via fax (il fax… questo glorioso aggeggio che resiste nel tempo…)
  4. telefonare al numero XYZ per confermare blocco della carta (…)
©Hanna-Barbera Productions [Foto d’epoca]

[Ricordo che siamo sempre in periodo Covid19…]

Vado dai Carabinieri che mi dicono che devo farmi dare dalla Banca la “lista movimenti” per risalire alla fonte della spesa (l’estratto conto non è sufficiente).

Vado in banca e scopro (essendo una che ci va pochissimo) che ricevono solo su appuntamento… (cerco di tenere a bada il mio “disappunto”, tenendo conto del periodo complesso che stiamo vivendo che comporta il “contingentamento ovunque e comunque”).
Telefono alla banca da fuori dalla loro porta, mi risponde un addetto e spiego la faccenda.
Mi dice che loro non possono vedere la “fonte della spesa” e che sono dati che ricevo solo io con il mio estratto conto.

(Inizio ad incazzarmi, perdonate il francesismo…)

Rabbia – Inside Out – ©Pixar

Faccio un bel respiro e torno dai Carabinieri (con l’estratto conto al seguito, che avevo già con me al primo giro).

Spiego la faccenda, abbiamo un confronto di vedute, mi arrendo e dico: “Torno in banca e vedo di portare a casa l’informazione…”
Il Carabiniere vede vacillare la mia tenuta mentale ed emotiva (nonostante indossi la mascherina) e mi dice: “Non si preoccupi, facciamo la denuncia”.
Spiegandomi nel frattempo le motivazioni della loro richiesta della “lista movimenti”, che non è l’estratto conto.
(Peccato però che la banca è “caduta dalla pianta” sostenendo che loro non possono accedere ai dati che vengono inviati solo a me… quindi?… che famo?…)

Fa niente.
Porto a casa la denuncia, faccio la scansione e invio tutto via mail.
(Nel frattempo ricevo la mail di avvenuta presa in carico, che mi dice che riceverò notizie via POSTA NORMALE)
E mi dimentico di fare la telefonata…

Peter Sellers in Hollywood Party [1968]


Passano i giorni…
Mi viene improvvisamente in mente che non ho più fatto la telefonata per confermare il blocco.
E sorge il dubbio amletico:

A chi telefono?
Al Servizio Clienti?
Oppure al numero sulla lettera ricevuta (quella del Blocco Carte)?

[Nel frattempo dal portale della banca scompare la carta di credito. Non esiste più. Ma non ho nessuna notizia di nuove emissioni di nuove carte di credito…]

Tiro la monetina e decido di chiamare il Servizio Clienti.

E dopo avere dipanato la matassa dei “digita X per parlare con… digita Y per parlare con… digita Z per parlare con… e ora digita il numero della tua carta di credito… e ora digita la tua data di nascita…“, riesco a parlare con una signora molto gentile che mi aggiorna che…

  • Sì – il rimborso della spesa non riconosciuta c’è stato (Yuppiiii!)
  • E – no, in effetti – non c’è stata nessuna emissione di nuova carta…
[Foto ANSA]

Sconfortata le dico: “Mi dica cosa devo fare per la nuova carta…”

La signora mi risponde: “Non si preoccupi, ci penso io. Inoltro io la richiesta alla sua filiale. Consideri che riceverà comunicazione via posta della avvenuta emissione della nuova carta, da ritirare in filiale.”
[E qui ci sta perché – via mail – comunicazioni simili possono essere preda facile di operazioni di phishing]

Passa qualche giorno e arriviamo ad oggi.

Inizio mese, faccio per entrare nel portale della banca – per controllare i movimenti – utilizzando la App sul telefono per accedere al sito e… la App non va!
Si impalla e non riesco ad avere lo sblocco per accedere su pc…
Né col riconoscimento facciale, né facendomi inviare il codice di accesso in formato numerico…
[Il mio equilibrio emotiva inizia a vacillare daccapo…]

Ma…
Nel tempo impiegato nello scrivere questo post di “sfogoracconto”, la App si sblocca ed io riesco ad accedere al sito.
Scoprendo nel frattempo che una nuova carta di credito è stata emessa…!

Forse un giorno riceverò la lettera che mi dice di recarmi in filiale per prendere la carta…
[Male che vada, telefono in questi giorni per prendere appuntamento.]

Come disse quello (aka Nick Carter): “Tutto è bene quel che finisce bene… E l’ultimo chiuda la porta!”

Nick Carter – ©riservati

[Immagine di copertina Avery Evans su Unsplash]

Di manutenzione e funzionalità

 

Da un po’ di tempo a questa parte sono pervasa da una sorta di “furia iconoclasta al contrario” (generata dalle recenti esperienze e di cui scriverò in un post successivo), che si palesa in varie forme, comprese quelle inaspettatamente banali e domestiche: mettere a posto (sistemare) alcune piccole cose che “stavano là” da tempo… In attesa (loro ed io, soprattutto) che si risolvessero da sole o per intercessione divina…

Qualche giorno fa, dopo avere iniziato a riordinare armadi di documentazione e oggetti (buttando via “tonnellate di carta”), ho improvvisamente prestato attenzione al gancetto per gli strofinacci da cucina.
Quello a sinistra nella foto, con la mela tagliata.
Caduto mesi fa, per cedimento da vetustà dell’adesivo, ha languito per settimane in una ciotolina (pur avendo rincollato con pazienza certosina alcuni pezzi che si erano staccati nella caduta).
Osservando l’oggetto mi sono detta: “Barbara, ti aspetti che ‘sto coso si riattacchi da solo?!”

E così è scattato il primo blitz al Brico Center a caccia di una colla (un mastice?) adatto a riattaccarlo.
Con la scusa anche di approvvigionarmi di batterie ricaricabili per il cordless (anch’esso “languente” da mesi “perché tanto a me la linea fissa serve solo per internet!”, mi raccontavo) e una batteria per la bilancia della cucina (esaurita anch’essa…).

Nel mentre – sulla strada – deviavo verso la discarica (“stazione ecologica”) per svuotare il bagagliaio dell’auto ingombro di roba che sembrava il deposito di un robivecchi, e provvedevo al successivo approvvigionamento di lampadine alogene per “fare magazzino” prima che vengano definitivamente ritirate dal mercato (visto che nel frattempo si era fulminata anche la lampadina del soggiorno).

Ma non è finita qui.

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Quello nella foto qui sopra è un “soffione di design” che ho quasi distrutto cercando di aprirlo per togliere il calcare.
Ma che essendo cementato dal calcare stesso, ho deformato e fatto sì che l’acqua trafilasse da ogni fessura e pertugio, senza riuscire nel mio intento.
Infastidita dalla faccenda, dopo giorni di (colpevole mia) procrastinazione, ieri ho fatto un secondo blitz allo stesso Brico Center aggirandomi tra gli scaffali di idraulica, cercando (e trovando) un degno sostituto.
Per la modica cifra di circa 36 euro (se penso a quanto ho speso per quello di design mi viene il mal di pancia).
Funzionale e funzionante.
Con buona pace dei pezzi di design che – purtroppo, a loro parziale discolpa – con l’acqua calcarea che ci ritroviamo, hanno vita breve.

Morale della storia?

Primo: mettere ordine nelle proprie cose, mette ordine anche nella propria testa. Ve lo assicuro. Provate per credere (per citare un vecchio slogan pubblicitario) e poi ditemi.

Secondo: sempre più convinta della bontà del “metodo Ikea” e del “mondo Brico”, fatti entrambi di pezzi facili e funzionali. (Potrei raccontare la storia di due amici con due cucine: il primo con la cucina Ikea, che ha anche smontato e rimontato per ristrutturare casa, e non ha avuto mai problemi di sorta; il secondo possessore di una cucina di design che ha avuto sempre qualche piccolo o grande problema di ante malfunzionanti, cerniere difettose, ecc. ecc.)

Sono sempre perplessa davanti alle lodi al design visto come il “produttore” di pezzi esteticamente meravigliosi, ma spesso assai poco funzionali.

Come citava Louis Sullivan (su Wikipedia in inglese e in italiano la sua biografia):

La forma segue la funzione.

Un oggetto che funziona, uno spazio facilmente fruibile, una funzione che viene assolta con semplicità ed immediatezza, sono obiettivi ben più importanti della bellezza ricercata ad ogni costo (a scapito della ergonomia).

Tanto più oggi in un mondo ad alta complessità (ma questo è un altro discorso).

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Il mistero insondabile della fisica della caffettiera

caffè

Il mistero insondabile della fisica della caffettiera…
Potrebbe essere il titolo di un romanzo o un racconto…
Invece è la quotidiana querelle con la caffettiera che – a suo insindacabile piacimento e gradimento – decide se e come fare il caffè…
Nonostante le mie procedure di preparazione restino immutabili giorno dopo giorno dopo giorno…
Chi te possino…

Scrivevo così il giorno 21 agosto 2013.
Per la precisione dopo pranzo, quando ho deciso di prepararmi un caffè pre-pisolo pomeridiano (che poi non ho fatto).

Già… La caffettiera… Questo “elementare” e vetusto aggeggio, minacciato dalle varie macchinette domestiche marcate Nespresso (o chi per esso), capaci di farti dei caffè espresso delle miscele più pregiate ed esclusive.
Le ho sempre disdegnate queste macchinette… Sarò antica, starò invecchiando… Però la ritualità del preparare il caffè con la Moka (volutamente con la “M” maiuscola) ha tutto un altro sapore.
La preparazione secondo dei riti comunque lenti, di una bevanda che ti deve dare la spinta a partire e ad affrontare la giornata,  ha un che di particolare.
Ti permette di svegliarti ancora un pochino, nelle prime ore della mattina, mentre esegui tutta la procedura di preparazione:
Riempire di acqua fino al di sotto della valvolina…
Riempire il filtro con il caffè (usando – io – miscela adatta alla Moka, per una mia mania di perfezionismo legata alla granulometria del caffè stesso), senza pressare e senza riempire troppo…
Chiudere, avvitando…
Mettere sul fuoco e aspettare che il caffè esca, gorgogliando…
(Mentre tu ti svegli ancora un pochino, uscendo dallo stropicciamento mattutino…)

Un rito. (D’altronde ognuno di noi ha i suoi riti.)
Una bolla di calma pre-giornata, che fa accendere gradualmente tutti i neuroni, uno dopo l’altro…

Tranne quando il rito in questione si “guasta”…
Cosa che è avvenuta “random” durante i 15 giorni di vacanza…

È la caffettiera?…
Pare di no… Mi è stato detto che ben 3 caffettiere sono state cambiate, con esisto sempre discontinuo e dubbio…
È la miscela?…
Pare di no… Usando la stessa miscela per Moka usata a casa, dove non si è mai verificato alcun problema, si pensa non sia colpevole…
È l’acqua?…
Non dovrebbe… È meno calcarea di quella di Milano…
È l’umidità?…
Mmmmhhhh… Potrebbe essere…
E torna alla memoria quell’articolo di giornale che avevi letto tempo addietro, dove – esperti di caffè e gestori di torrefazioni e bar – avevano spiegato che, al cambio della umidità atmosferica, dovevano cambiare la macinazione del caffè per evitare l’agglomerazione dei granuli e compromettere la preparazione di un buon espresso…

Tutto ciò pensi, mentre osservi la caffettiera che produce a fatica una schiumetta sinistra, seguita da un liquido di densità inquietante, che sgorga a fatica e riempie lentamente (molto lentamente) la caffettiera…
Mentre si diffonde nell’aria un odore ibrido tra “caffè robusto” (per usare un eufemismo) e qualcosa di bruciacchiato…

E sempre mentre osservi la manifestazione fisica di un “caffè sbagliato” (dal concetto ben diverso del ben più noto “Negroni sbagliato”), pensi ai principi della fisica che fanno sì che questa bevanda venga prodotta attraverso il calore che agita le molecole dell’acqua, contenuta nella caldaietta, che viene spinta e convogliata a passare attraverso questi granuli che rilasciano questa sostanza che diventa caffè liquido.
(Mi si passi la “licenza fisica” da spiegazione domestica…)

Processo fisico che – a volte – risulta fallace, producendo “sostanza-altra” lontanamente imparentata con il caffè…

L’insondabile fisica della caffettiera…
Mi fa tornare in mente il titolo di un libro (che ho da qualche parte) che prima o poi leggerò.
Mi pare si intitoli “La fenomenologia del tostapane”
Ma questa è un’altra storia…

PS: il 21 agosto sono riuscita – al secondo tentativo – a prepararmi il caffè. E, portata la tazza sul comodino, sistemando i cavi e cavetti del telefono, della tavoletta e dell’eReader, sono riuscita a mettere in ammollo nel caffè il cavetto del Kindle… Tanto per non smentirci… (Il giorno dopo ho utilizzato il cavetto per ricaricare il Kindle e non è esploso, per fortuna… funziona come se nulla fosse successo)

PS-1: e visto che non credo alle coincidenze (non è esattamente così… sono per il “non è vero ma ci credo”…), il Post proprio il 21 agosto ha pubblicato un articolo sulla storia della Moka Bialetti: http://www.ilpost.it/2013/08/21/moka-bialetti-caffe/

PS-2: e ancora… un amico mi è venuto in soccorso indicandomi questo link che spiega ben-bene come funziona una caffetteria… http://parliamone.eldy.org/2009/06/la-fisica-del-caffe-e-della-caffetiera/

PS-3: un altro amico mi ha segnalato che dipende anche dalla composizione dell’acqua (non solo dalla sua quantità di calcare)….

La Disincastratrice di Oggetti

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Ieri sera scherzavo on-line con degli amici a seguito di un episodio che era accaduto durante la giornata e che aveva suscitato la mia ilarità (visto che era già successo a me diverse volte): c’è una signora che viene una volta alla settimana a darmi una mano a tenere in ordine la casa e ieri, lavando i piatti, ha messo un bicchiere dentro una tazza e questo si è incastrato.
Dopo ripetuti tentativi andati a vuoto, ha rinunciato – mortificata – a disincastrare i due oggetti ad evitare di sfasciare il tutto.
Mia madre ha versato un po’ di acqua ed olio nella tazza, sperando le superfici diventassero scivolose. Ma non c’è stato niente da fare.
E ieri sera – rientrata a casa – non ho potuto fare altro che constatare che i due oggetti erano ben incastrati fra loro.

Mi è già accaduto qualche volta con i bicchieri e la situazione l’avevo risolta picchiando un paio di volte, in modo secco e deciso, sul bordo del lavello per sbloccarli e liberarli.
Ma stavolta no. Sentivo che non avrebbe funzionato: la tazza è più fragile del robusto vetro del bicchiere Ikea, e avevo la certezza matematica che se avessi usato lo stesso metodo avrei sicuramente spaccato la tazza (natalizia di Winnie the Pooh… assolutamente da salvare!).

Così dopo avere provato manualmente, ho pensato di usare un martello e di operare con 2-3 piccoli colpi secchi lungo la loro linea di contatto, affidandomi all’istinto.
E così ho fatto, disincastrando – con un colpo di fortuna – i due oggetti, senza danneggiarli.

E, commentando l’episodio on-line con gli amici, ho fatto la battuta scrivendo: “Ho un futuro: la Disincastratrice di Oggetti!”, precisando che avevo già svolto questo ruolo in altri contesti (in ufficio) disincastrando fogli aggrovigliati e lacerati nella fotocopiatrice, utilizzando delle pinze (dove le dita non arrivavano senza rischiare tagli ed ustioni). Ed una mia amica ha commentato (tra il serio ed il faceto): “C’è sempre un oggetto da disincrastrare!”

Facendo questa operazione, e pensando alla frase dell’amica (a metà tra una considerazione “detta così”, ed una sottile metafora) mi sono resa conto anche di quello che qualche ora prima avevo detto ad un’altra persona: “In genere mi perdo in un bicchiere d’acqua, affogo in una pozzanghera. Mentre quando invece sono dentro una burrasca, resto – paradossalmente – calma e cerco le soluzioni…”

Ora, disincastrare un bicchiere da una tazza non è un macro-problema di enormi dimensioni. Male che vada spacchi tutto, con buona pace della tazza di Winnie The Pooh, però…
Però, cosa ho fatto? Mi sono messa davanti agli oggetti (il problema), ho pensato ai materiali di cui erano fatti (struttura del problema), ho preso il martello (strumento per risolvere il problema) e con poche azioni ottimizzate ho risolto la questione.

Possibile che dal disincastrare una tazza ed un bicchiere si possa trarre un piccolo insegnamento su come risolvere i problemi?
Possibile che da uno stupido ed insignificante problemino casalingo, si possano estrarre macro-regole per la risoluzione di macro-problemi?
Può essere…
Perché “alla fine della fiera”, tutto si riduce a tre semplici passaggi: problema –> analisi della struttura del problema (e sua semplificazione) –> soluzione con gli strumenti adatti usati in modo adeguato (una pinza per i fogli incastrati, un martello per il binomio tazza-bicchiere).
Con buona pace di tutte le costosissime teorie super-sofisticate.

Sto delirando?
Può essere…

D’altronde stavo solo disincastrando un bicchiere da una tazza (di Winnie The Pooh…)…

Se c’è una cosa che non vuoi fare, falla…

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…perché spesso dietro si nasconde qualcosa di molto interessante dal quale stai fuggendo.

Per anni il mio mantra è stato: “Nel dubbio, non farlo.”
Da un po’ di tempo si è trasformato in: “Nel dubbio, fallo.”

E così è stato anche stavolta.
Anche se la cosa da fare era relativamente semplice, farla mi è costata parecchia fatica (all’inizio, nella fase di “attrito di primo distacco”): quest’anno ho deciso di fare 15 giorni di vacanza da sola, secondo i miei ritmi, con i miei libri e le mie riflessioni, e soprattutto con me stessa.

So che per qualcuno può sembrare di una banalità disarmante, ma per me non lo è stato.

Volevo farlo, agognavo farlo, e avevo l’obiettivo di mettere a posto un po’ di cose, di cercare di capire cosa voglio fare della mia vita.
Volevo pianificare.

Fino all’ultimo ho avuto ripensamenti, sempre lì-lì per fare il biglietto del treno per raggiungere i miei genitori e passare quindici giorni con loro in Puglia.
Ho resistito, sono rimasta focalizzata sull’obiettivo e sulla necessità di stare un po’ da sola, lontano da tutto e da tutti.
Mi sono concentrata sul fatto che la sola idea di trovarmi in un luogo incasinato, affollato e accaldato mi faceva venire l’orticaria.
Mi sono concentrata sulle inevitabili collisioni da scontro generazionale che avrei avuto coi miei, stando a stretto contatto per 15 giorni.
Avevo bisogno di staccare e per rinforzare la decisione ho riportato alla memoria il disagio, e la stanchezza dell’anno che mi facevano desiderare 15 giorni di solitudine e tranquillità.
Da trascorrere in un posto vicino, tranquillo ed educato.

Così sono partita armata di libri, bloc-notes e altro materiale.
Volevo “lavorare” su me stessa, pianificando (soprattuto mettendo per iscritto) idee, obiettivi.

È stato un successo.

Ho potuto confermar(mi) – se mai ce ne fosse stato bisogno – che stare con sé stessi, seguendo i propri ritmi, facendo ciò che si ritiene più consono e avendo tutto il tempo a disposizione per riflettere, può essere una occasione molto importante per imparare a conoscersi ancora un po’ di più.

Sì, ci sono stati momenti di riflessione intensi e turbolenti.
Ma ci sono stati anche momenti di lettura, di camminate (per scaricare la tensione), di silenzio fisico e mentale.
Non ho fatto esattamente quello che volevo fare, ma forse ho fatto qualcosa di più importante.
Assecondando gli stimoli mentali, ho fatto un punto della situazione in modo anomalo: senza scrivere sul bloc-notes, ma solo ragionando. Facendo scorrere i pensieri in assoluta libertà, lasciando che si aggregassero (secondo il giusto momento) in nuove forme e nuove concatenazioni.
Ho preso atto di nuove consapevolezze (a volte scomode, ma necessarie) e ho consolidato alcune certezze (oltre ad avere sdoganato caratteristiche che vedevo come handicap).

Sì, penso che ognuno di noi debba ogni tanto stare da solo con sé stesso (se può).
È utile per re-imparare ad ascoltarsi.
Anche se questo può essere faticoso e fastidioso.
Ma una volta che hai iniziato, non riesci più a smettere e – quando rientri – pensi già a quando ritagliarti ancora un’altra occasione per riprendere il discorso e approfondirlo.

Sono momenti di consapevolezza, e di messa a fuoco, che ti permettono di ripartire con maggiore lena e maggiore convinzione. Verso un “nuovo anno”.