L’immagine in evidenza mostra il giardino del complesso di Viale Lombardia 17
La bellezza cura. Magari non cura il corpo, ma la mente sì. E se la mente sta bene, anche il corpo (forse) ne beneficia.
E di “bellezza terapeutica” si è parlato anche in un recente incontro di un bookclub. Ma questo post (scritto dopo una lunga pausa, con un paio di altri articoli fermi in bozza) non è dedicato ai libri.
E’ dedicato ad uno spazio tornato fruibile e ai suoi antichi splendori. (Spazio di cui – confesso – non ne conoscevo l’esistenza.)
L’ingresso
Infatti sabato pomeriggio ho visitato – con WAAM – Casa Corbellini Wassermann, tornata accessibile grazie al restauro da poco terminato (2019) ad opera dello studio Binocle e che ospita la galleria d’arte Massimo De Carlo.
La scala a chiocciola esterna proveniente da una installazione di un padiglione della V Triennale di Milano del 1933.
Progettata e costruita da Pietro Portaluppi tra il 1934 e il 1936 per le famiglie da cui prende il nome (in particolare August von Wassermann, imprenditore del mondo della farmaceutica, fu anche scopritore del metodo per la diagnosi della sifilide), semplicemente meraviglia per gli spazi, la luce ed i materiali usati.
Sopra focus sui materiali ed i loro accostamenti
Modernissima nella fruizione e distribuzione degli ambienti, così come nelle finestrature orizzontali ed ampie che catturano la luce. Opulenta per la preziosità dei materiali impiegati che però mantengono un rigore che forse – paradossalmente – ne sottolinea ancora di più la preziosità.
Il gioco di apertura e l’accostamento dei materiali
Ho scattato 40 foto per un’ora di visita. Incantata da ciò che mi circondava.
Scegliendo di far parlare alcune di esse in questo post, accompagnandole con pochissime parole.
Negli ultimi tre mesi abbiamo trascorso gran parte del nostro tempo tra le mura domestiche. Ed è molto probabile che ne trascorreremo molto altro ancora (di tempo), assorbendo gradualmente e sempre più (spontaneamente o meno) nuove modalità di vita e lavoro.
Una “nuova normalità” (con buona pace di coloro che non apprezzano questo modo di definire questa quotidianità post-lockdown nella quale ci stiamo inoltrando) che sta mettendo in difficoltà molti di noi (a vari livelli, a seconda delle condizioni di vivibilità) che ci sta testando sia da un punto di vista fisico (la mobilità diversa), sia da un punto di vista psicologico.
Abitudini, agende, orari, movimenti e ritmi… tutto nuovo (o quasi).
Parlando con dei colleghi, ho ascoltato di diverse reazioni. C’è chi ha deciso di affittare lo studio e lavorare (definitivamente) da casa. Chi sta assaporando il lavoro da casa, forte di una disciplina che fa sì che rispetti orari che non lo portino ad abbruttirsi davanti al computer, migrando dal divano al letto, e viceversa. E c’è chi – come me – dopo l’entusiasmo iniziale, fatica ad imporsi una disciplina (sulla quale sta lavorando).
Ma questo non è un post sulla organizzazione del tempo. Sono la persona meno indicata per scrivere sul tema (a meno che non condivida un elenco di cose da non fare).
Questa è una riflessione sugli spazi che abbiamo abitato così tanto negli ultimi mesi (è probabile che molti di noi abbiano trascorso molte più ore in casa in queste settimane, che negli ultimi cinque anni…).
Spazi abitati sui quali in molti hanno scritto e parlato. Evidenziando che la casa – oggi – ha assunto improvvisamente e realmente (anche) la funzione di luogo di lavoro, dopo che se ne teorizzava da tempo, restando sempre nell’ambito di pochi esempi “di nicchia”.
Vita personale e vita professionale, raccolte all’interno degli stessi metri quadri. In una situazione forzata che forse ha distorto (nel bene e nel male) la percezione del tutto.
E nei periodi più difficili ho tenuto sempre “a portata di click” la videointervista ad Astrogiulia (al secolo Giulia Bassani) Coronavirus: stare a casa è un po’ come stare nello spazio. Parola di Astrogiulia (una piccola ancora di salvezza per vedere le cose da un lato diverso e più costruttivo) Un video che – di recente e a scoppio ritardato – mi ha acceso una lampadina e mi ha fatto mettere insieme argomenti dei quali mi interesso da tempo ma mai – fino ad oggi – approfonditamente come vorrei.
Tre argomenti che riguardano gli spazi che usiamo, non da un punto di vista stilistico e di design ma da un punto di vista di fruizione dell’utente. Che tanta familiarità hanno con il tema (quasi una missione che ho e mi muove) “progettare per gli altri“.
Illuminotecnica – Teoria del Colore – Architettura Comportamentale.
L’Illuminotecnica, una scienza che mi affascina da tempo e che non riesco ad afferrare totalmente in tutte le sue sfaccettature. Ma che mi è particolarmente cara per la sua importanza sull’uomo. Infatti è una disciplina che non mi affascina per il suo saper generare effetti scenografici (comunque stupefacenti); bensì mi affascina il suo influire (nel bene e nel male) sul benessere e sulla quotidianità dell’essere umano. Un tema che ho sentito particolarmente nei giorni nei quali non uscivo di casa e che mi ha portato ad osservare con occhi nuovi l’illuminazione (artificiale e naturale) in casa.
La Teoria del Colore (è recente la mia associazione al Gruppo del Colore dopo un corso che mi ha fatto scoprire un mondo nuovo), altra disciplina che leggo in relazione al benessere e alla quotidianità dell’essere umano. Una scienza dove il colore non è solo un elemento decorativo ma anche – e soprattutto – una componente in grado di influire sullo stato psicologico dell’individuo. (Ricorderò sempre la mia riflessione – in tempi non sospetti, tanti anni fa – osservando un vecchio ufficio che aveva pareti grigie, arredo metallico e luci al neon; ricordo che pensai: “Capisco perché chi lavora qui dentro è particolarmente scontroso…!”)
Ed infine l’Architettura Comportamentale, scoperta grazie ad un corso frequentato nel 2018 a tema “Architettura e Psicologia”. Una esperienza che mi entusiasmò e mi fece esultare nel vedere finalmente delle contaminazioni “dichiaratamente chiare” tra ambiti non così lontani fra loro (contaminazioni che possono apparire scontate, ma in realtà non sono poi così banali). Una disciplina – anche qui – che mette “insieme e in chiaro” due ambiti di studio che collaborano per rendere lo spazio più “amichevole” (user friendly, se vogliamo usare un anglicismo) e fruibile nella sua quotidianità.
Illuminotecnica – Teoria del Colore – Architettura Comportamentale
Tre aspetti che credo diventare ancor più importanti nella nostra nuova quotidianità (insieme alla Ergonomia, altra scienza legata alla fruibilità fisica degli oggetti). Nei nostri ambienti domestici. Che sono stati (nelle scorse settimane) luoghi nei quali abbiamo vissuto e lavorato con maggiore intensità. E che forse abbiamo visto e vissuto – per la prima volta – da una diversa angolazione. Scoprendone anche forse aspetti che non conoscevamo.
Da un po’ di tempo a questa parte sono pervasa da una sorta di “furia iconoclasta al contrario” (generata dalle recenti esperienze e di cui scriverò in un post successivo), che si palesa in varie forme, comprese quelle inaspettatamente banali e domestiche: mettere a posto (sistemare) alcune piccole cose che “stavano là” da tempo… In attesa (loro ed io, soprattutto) che si risolvessero da sole o per intercessione divina…
Qualche giorno fa, dopo avere iniziato a riordinare armadi di documentazione e oggetti (buttando via “tonnellate di carta”), ho improvvisamente prestato attenzione al gancetto per gli strofinacci da cucina. Quello a sinistra nella foto, con la mela tagliata.
Caduto mesi fa, per cedimento da vetustà dell’adesivo, ha languito per settimane in una ciotolina (pur avendo rincollato con pazienza certosina alcuni pezzi che si erano staccati nella caduta).
Osservando l’oggetto mi sono detta: “Barbara, ti aspetti che ‘sto coso si riattacchi da solo?!”
E così è scattato il primo blitz al Brico Center a caccia di una colla (un mastice?) adatto a riattaccarlo.
Con la scusa anche di approvvigionarmi di batterie ricaricabili per il cordless (anch’esso “languente” da mesi “perché tanto a me la linea fissa serve solo per internet!”, mi raccontavo) e una batteria per la bilancia della cucina (esaurita anch’essa…).
Nel mentre – sulla strada – deviavo verso la discarica (“stazione ecologica”) per svuotare il bagagliaio dell’auto ingombro di roba che sembrava il deposito di un robivecchi, e provvedevo al successivo approvvigionamento di lampadine alogene per “fare magazzino” prima che vengano definitivamente ritirate dal mercato (visto che nel frattempo si era fulminata anche la lampadina del soggiorno).
Ma non è finita qui.
Quello nella foto qui sopra è un “soffione di design” che ho quasi distrutto cercando di aprirlo per togliere il calcare.
Ma che essendo cementato dal calcare stesso, ho deformato e fatto sì che l’acqua trafilasse da ogni fessura e pertugio, senza riuscire nel mio intento.
Infastidita dalla faccenda, dopo giorni di (colpevole mia) procrastinazione, ieri ho fatto un secondo blitz allo stesso Brico Center aggirandomi tra gli scaffali di idraulica, cercando (e trovando) un degno sostituto.
Per la modica cifra di circa 36 euro (se penso a quanto ho speso per quello di design mi viene il mal di pancia).
Funzionale e funzionante.
Con buona pace dei pezzi di design che – purtroppo, a loro parziale discolpa – con l’acqua calcarea che ci ritroviamo, hanno vita breve.
Morale della storia?
Primo: mettere ordine nelle proprie cose, mette ordine anche nella propria testa. Ve lo assicuro. Provate per credere (per citare un vecchio slogan pubblicitario) e poi ditemi.
Secondo: sempre più convinta della bontà del “metodo Ikea” e del “mondo Brico”, fatti entrambi di pezzi facili e funzionali. (Potrei raccontare la storia di due amici con due cucine: il primo con la cucina Ikea, che ha anche smontato e rimontato per ristrutturare casa, e non ha avuto mai problemi di sorta; il secondo possessore di una cucina di design che ha avuto sempre qualche piccolo o grande problema di ante malfunzionanti, cerniere difettose, ecc. ecc.)
Sono sempre perplessa davanti alle lodi al design visto come il “produttore” di pezzi esteticamente meravigliosi, ma spesso assai poco funzionali.
Come citava Louis Sullivan (su Wikipedia in inglese e in italiano la sua biografia):
La forma segue la funzione.
Un oggetto che funziona, uno spazio facilmente fruibile, una funzione che viene assolta con semplicità ed immediatezza, sono obiettivi ben più importanti della bellezza ricercata ad ogni costo (a scapito della ergonomia).
Tanto più oggi in un mondo ad alta complessità (ma questo è un altro discorso).
Non ho un rapporto facile con l’Arte Contemporanea, confesso.
Ho provato a capire, a comprendere, cosa certe opere volessero dire.
Ho partecipato a visite guidate, ascoltando in reverente silenzio le spiegazioni.
Ma – ahimè – spesso la perplessità è rimasta.
Anche se davanti ad una tela di Fontana, ascoltando la citazione qui sotto ho avuto un’epifania (ho compreso – credo – la creazione di una terza dimensione su un piano, quella della tela, strettamente bidimensionale…):
“Scoprire il Cosmo è scoprire una nuova dimensione. E’ scoprire l’Infinito. Così, bucando questa tela – che è la base di tutta la pittura – ho creato una dimensione infinita. Qualcosa che per me è la base di tutta l’arte contemporanea”
E’ stato un episodio che ha aperto uno “squarcio” di comprensione davanti ad alcune rappresentazioni che comunque continuano a lasciarmi perplessa.
Concetto spaziale, Attese Lucio Fontana 1968. Tecnica mista
Più di recente però mi è capitato di emozionarmi davanti (forse sarebbe meglio dire “dentro”) ad alcune installazioni.
Ho provato stupore davanti alle Torri di Anselm Kiefer in Hangar Bicocca.
Trovarmele davanti la prima volta mi ha generato stupore e meraviglia.
Sette colossi apparentemente precari che si ergono davanti a te.
E ogni volta che torno, e le rivedo, provo sempre una profonda emozione.
Mi sono divertita come un bambina gattonando sulle bolle di On Space Time Foam, l’installazione site specific di Tomàs Saraceno per Hangar Bicocca, rimanendo con le ginocchia arrossate e doloranti per più di una settimana.
Mi sono commossa (e ho visto persone totalmente immerse nell’esperienza) dentro e davanti alla performance The Visitors di Ragnar Kjartansson (un ampio spazio buio con megaschermi disposti a semicerchio, ognuno proiettante immagini e suoni di un musicista, tutti sincronizzati coralmente fra loro, facendoti immergere fisicamente nel suono).
Sono rimasta un’ora e mezzo “dentro” l’installazione Hypothesis di Philippe Parreno, dicendomi in continuazione: “Sì, sì, adesso vado…”
Camminandoci in mezzo, sedendomi, spostandomi per avere punti di vista e di ascolto diversi.
Affascinata dal suono e dalle performance luminose della installazione. Totalmente immersa ed ipnotizzata.
[Per chi vuole a questo link Philippe Parreno – Petrit Halilaj, la gallery delle foto che ho scattato durante la visita.]
E ho vissuto con curiosità la recentissima installazione di Christo e Jeanne Claude, The Floating Piers.
Camminandoci sopra, guardandomi in giro, togliendomi le scarpe per camminare più a contatto con la materia e la sua struttura, osservando l’interazione delle persone con l’ambiente artificiale.
[A questo link – The Floating Piers – Christo 2016 – le foto che ho scattato il 26 giugno.]
Tutto questo mi ha fatto fermare un momento a riflettere.
Domandandomi quale potesse essere il filo conduttore che legava queste installazioni alle mie reazioni (di stupore, di meraviglia, di commozione, di divertimento, di curiosità…)
E ho pensato ad una curiosa commistione tra lato logico e lato emozionale. Una commistione tra Arte e Ingegneria.
Dove l’Ingegneria (col suo apporto tecnologico) rende possibili espressioni e costruzioni di Esperienze maggiormente immersive ed emozionanti.
Era da diversi giorni che volevo scrivere delle considerazioni personali sul corso di Design Thinking con Mafe De Baggis, Filippo Pretolani (aka Gallizio Lab) e Mauro Pellegrini (titolare del blog Forme Vitali).
Una sorta di riflessione a posteriori, cercando di fare un punto della situazione tra me e me su quanto mi ero portata a casa dalla giornata.
E confesso di avere fatto fatica all’inizio.
Non riuscendo a capirne il motivo.
Aspettative particolari? No.
Non avevo nessuna aspettativa.
Avevo deciso di frequentare il corso per un puro interesse personale.
Non avevo scopi professionali.
(Negli ultimi tempi questa mia spinta a frequentare giornate, ascoltare persone e sperimentare cose, è sempre più a scopo personale.)
Però stavolta, le prime ore post-corso mi avevano lasciato in uno stato di perplessità.
Qualcosa mi sfuggiva.
E non sapevo se si trattava di qualcosa a livello di contenuto trasmesso, o riguardava qualcosa di quanto da me percepito.
Ho avuto anche uno scambio di messaggi privati con una persona che aveva frequentato la precedente edizione, e qualcosa continuava a sfuggirmi.
(Quando qualcosa mi sfugge, inizio ad oscillare tra ansia e nervosismo, con la scarsa convinzione che si insinua strisciante.)
Uno dei tabelloni del corso
Poi ho capito.
Non a livello oggettivo (lungi da me il sentenziare qualcosa di assoluto), bensì a livello soggettivo.
Ho compreso che il concetto di “Design Thinking” è (era?) legato nella mia testa ad una interpretazione codificata del termine.
Sì, perché considero da tempo il Design Thinking come un sinonimo di Visual Thinking: la rappresentazione grafica di un processo creativo o di un pensiero.
Cadendo nell’errore che cerco sempre di evitare: modi e metodi per fare le cose.
Che fanno sempre più fatica ad adattarsi e a funzionare nel caos nel quale ci muoviamo costantemente.
Invece quello che mi sembra di avere compreso (e sul quale sto riflettendo in questi giorni) è che il Design Thinking è bene non venga identificato necessariamente in una o più tecniche precise ed univoche, bensì è necessario sia de-letteralizzato (citando un termine usato da Mauro Pellegrini durante la giornata), collocandolo su un livello diverso (non superiore, non inferiore, bensì diverso) che lo svincoli dal concetto noto di “disegno” e “facilitazione grafica” (tecnica utilissima per visualizzare pensieri, strategie, azioni…).
Credo debba essere considerato un modo di pensare. Variabile da persona a persona. E che quindi ogni persona conduce ed esprime in modo diverso.
Alcuni appunti sparsi della giornata
Confesso di averci messo giorni per riuscire ad afferrare il concetto, che intuivo esserci ma non riuscivo a tradurre in parole.
Un concetto sfuggente.
Come quando ti trovi davanti a qualcosa che non hai mai visto prima e che – proprio per questo – non sai come chiamarlo.
E ti genera confusione, smarrimento e perplessità (“non capisco”).
E – come un cane che si morde la coda – nel momento in cui riesci ad afferrare l’idea, dandole un nome (etichettandola), corri il rischio di imbrigliarla daccapo in un metodo rigido e codificato.
Ricadendo nel (personale) errore iniziale.
Non è semplice, almeno per me.
Si tende a dare un nome alle cose per dar loro riconoscibilità.
E’ normale. E’ umano.
In questo caso invece credo si debba cercare di tenere in sospeso la nominalizzazione, lasciando che resti una idea declinabile di volta in volta.
Libera di adattarsi alla situazione e al momento che si vive.
Da una mia Moleskine (ragionamenti a ciclo continuo)
Non sapevo cosa fosse il Photowalking (“A photowalk is the act of walking around with your camera and photographing your surroundings.“, da Revell Photography) fino a qualche tempo fa, quando su Facebook inciampo per caso in questo post/evento:
E’ stata una bella esperienza, molto interessante. Perché insieme a Orange Photo School (altra realtà scoperta, che ci ha accompagnato insieme a WAAM, offrendoci supporto tecnico), io ed i compagni di passeggiata, abbiamo avuto modo di imparare alcuni trucchi per fare fotografie migliori. Valutando i soggetti inquadrati, le distorsioni prospettiche, la differenza di obiettivi tra macchine fotografiche e smartphone, e altri utili consigli, prendendo consapevolezza di una questione fondamentale: il punto di vista del fotografo.
Che tu abbia una macchina fotografica, uno smartphone o altri dispositivi, sei tu (con il tuo occhio e la tua visione della realtà) a determinare il risultato, a vedere alcune cose che magari altri non vedono e a fissare il tuo punto di osservazione.
Non vado oltre con le parole e lascio spazio alle immagini che ho fissato (tratte dall’account che ho su Flickr, “Non solo un architetto”). L’album è visibile a questo link: Photowalking In Zona Tortona. [Scrivo “fissato” perché lo trovo un termine più adatto ad un dispositivo come lo smartphone, che non è una macchina fotografica a tutti gli effetti, pur offrendo performance sempre più evolute e sofisticate.]
Una vetrina con alcuni oggetti futuristi (settore dedicato agli anni dal 1851 al 1950)
Ieri – proprio all’ultimo momento, nell’ultima giornata disponibile – ho visitato la mostra “Arts and Foods” in Triennale.
In questi mesi di Expo, La Triennale è stata il “padiglione urbano” della Esposizione Universale.
E ha ospitato una “mostra totale” (che ha occupato quasi tutti i suoi spazi espositivi disponibili) sul cibo nelle arti.
Un vero e proprio viaggio attraverso il cibo rappresentato nell’arte e dall’arte in tutte le sue manifestazioni (pittura, fotografia, design, pubblicità, cinematografia…).
Un viaggio che ha coperto un arco temporale che andava dal 1851 (anno della prima Esposizione Universale) ad oggi 2015 (anno della Esposizione Universale a Milano).
Un excursus interessante.
E monumentale per ricchezza di oggetti, quadri, curiosità,…
Oggetti del settore 1950-1970, l’avvento della plastica e dell’ottimizzazione delle funzioni.
L’impilabilità e la funzionalità (settore anni ’50-’70 del ‘900)
Articolata in tre settori (dal 1851 agli anni ’50 del ‘900, dagli anni ’50 agli anni ’70 e – infine dagli ’70 ai giorni nostri), ha raccontato e declinato il cibo ed il cibarsi attraverso raffigurazioni pittoriche, oggetti d’uso, manifesti pubblicitari, libri, stili di vita, film e altro.
Alcuni famosi manifesti delle pubblicità (anni ’50-’70)
Ho particolarmente apprezzato il primo settore (quello dal 1851 al 1950 circa) dove ho avuto la sensazione di aggirarmi in una vera e propria Wunderkammer.
Oggetti “d’annunziani” esposti nel primo settore (dal 1851 al 1950)
Poi, mano a mano che ci si avvicinava ai giorni nostri, confesso che le installazioni artistiche che trovavo sul cammino espositivo mi sono diventate via-via sempre più incomprensibili.
Il terzo settore, che andava dal 1970 ad oggi, è stata una vera e propria scalata nella incomprensibilità, confermando la mia grande difficoltà nel capire e nel leggere il messaggio che talune installazioni vogliono trasmettere.
Una immagine di alcune installazioni del settore 1970-2015
Comunque – al di là dell’esperienza soggettiva – si è trattato di un percorso molto interessante e stimolante.
Che ho concluso inoltrandomi in“Cucine & Ultracorpi”: una curiosa installazione/esibizione (non saprei come definirla) dove gli elettrodomestici sono presentati e raccontati come “esseri viventi” in grado di aiutare e supportare nella preparazione dei cibi. (La mostra è visitabile fino al 21 febbraio 2016)
L’ingresso alla esibizione “Cucina & Ultracorpi”
Raggruppati per funzioni (tagliare, miscelare,…), elementi (aria, freddo, fuoco,…) e sensazioni (tatto, olfatto,…), la preparazione del cibo e l’ambiente preposto a tale funzione (la cucina) vengono raccontati in modo inconsueto.
Uno degli ambienti dedicato al concetto di “tagliare e mescolare” – sullo sfondo la sfera che contiene la “Mini-kitchen” progettata da Joe Colombo
Qui sotto il link alla gallery che ho caricato su Flickr (sono tante foto, lo so, mi sono lasciata prendere la mano e non sono riuscita a fare un scelta…):
Nonostante io sia laureata in architettura, non mi sono mai riconosciuta nel ruolo e non mi sono mai sentita un architetto. Tant’è che già negli ultimi due anni del corso di studi, ho cambiato indirizzo approdando all’allora neonato “indirizzo strutturale” (un indirizzo che iniziava a tracciare un legame con l’ingegneria strutturale, cercando di colmare falle sempre più ampie nella formazione di allora). Furono due anni tosti, ma anche inaspettatamente più consoni per me, che con la progettazione architettonica sentivo di non avere nulla a che fare (sono sempre stata manchevole di quel “guizzo” di creatività che contraddistingue colleghi che sono in grado di trovare soluzioni architettoniche interessanti ed inconsuete).
Successivamente, la mia storia professionale mi ha portato ad entrare sempre più nel mondo tecnico della progettazione (declinato in vari aspetti) e contemporaneamente:
a sperimentare l’utilizzo di oggetti di design (come utente e come tutti),
a frequentare più edizioni del Salone del Mobile (dove ho visto “cose” bellissime, minimaliste, linearissime e – spesso – tutte uguali; oppure oggetti e arredi talmente stravaganti da rappresentare un esercizio di stile, ma di dubbia utilità quotidiana),
a dialogare con colleghi che progettano spazi tra loro pressoché uguali,
e mi sono allontanata sempre più dal settore e dalla disciplina. Perché sempre più campo di sperimentazioni fini a se stesse, e – spesso ma non sempre – veicolo di pura autoreferenzialità del progettista, completamente dimentico delle esigenze reali dell’utente finale.
Qualche giorno fa parlavo con un collega ingegnere che ha appena acquistato un piano cottura elettrico per la mamma anziana (per ridurre il rischio “gas dimenticato aperto”). Mi raccontava di come sono piccole le manopole, corredate di scritte poco leggibili e poco comprensibili (a livello di significato delle funzioni). Di come i telefoni cellulari (anche i più elementari) hanno tastiere inadatte a persone anziane. [Mi sono ricordata di un telefono cellulare della Brondi dotato di una tastiera semplicissima con pulsanti enormi. Adattissimo per persone anziane. Tant’è che ho recuperato le informazioni e gliele ho girate.]
Il cellulare della Brondi
Abbiamo condiviso entrambi una riflessione (pur trovandoci – accademicamente parlando – su fronti contrapposti): anziché ostinarsi (quasi) tutti a voler diventare i “Norman Foster del futuro” (mi spiace deludere i colleghi ma di persone così ce ne sono poche…), e a progettare spazi tra loro tutti sconsolatamente uguali, forse conviene pensare ad un recupero della vera “funzione” dell’architetto. Intesa come progettazione ergonomica degli spazi e degli oggetti. Orientata all’uomo. Con un occhio ad uno dei più importanti utenti dei prossimi anni: l’anziano con le sue peculiarità motorie e percettive. (Senza dimenticare la progettazione per persone con disabilità: altra area molto importante)
Lì, secondo me, c’è tantissimo lavoro da fare. Lì è una sfida tra estetica, scienza, ergonomia ed ingegneria. Lì, sempre secondo me, si impara ad ascoltare ed osservare le esigenze dell’utente.
Se vi interessa, questi sono altri link relativi al progetto Eatwell:
Una meraviglia.
Un folle e gioioso assembramento di oggetti surreali… Più o meno…
Perché in realtà si tratta di oggetti di uso comune (tavoli, mobili, sedie, vassoi, paraventi… ma anche foulard) plasmati da forme e colori tali da trasformarli in altro, facendogli perdere la sua riconoscibilità usuale, decostruendoli e destrutturandoli…
Una mostra molto ben allestita, che è una gioia per gli occhi ed un profondo godimento per l’emisfero destro e la sua creatività insita.
Basta mettere da parte la razionalità, il minimalismo, la logicità e dare spazio al bambino che è in noi, per apprezzare questa passeggiata in mezzo ai colori, agli oggetti e alla fantasia del designer.
Da vedere!
Per rinfrancarsi, per stupirsi e per la bellezza dell’apparentemente inutile…
Alcune suggestioni catturate dalle pareti della mostra… Lascio parlare loro (e le immagini), sono più eloquenti…
Il nostro mestiere è senza limite, a tempo pieno. Non c’è orario. Giorno, anche notte. I miei sogni li traduco in realtà, qualunque cosa faccia.”
Ho fatto l’amore tutta la notte… con una lastra nera di cera e una sottile punta di acciaio. È stata una lunga notte e non so se ho vinto o perso. Certo non ho goduto…
[…] Questa è una mania quella che io combatto, quella delle etichette. Surrealista, neorealista, romantico, postmoderno. Abbiamo l’abitudine di comprare le “firme” e non più le cose belle che ci piacciono. Un artista che vuole avere successo non è più un artista. È una persona che vuole avere successo. Se si adegua alle mode arriva in ritardo perché ormai si sono adeguati tutti. […]
[…] Guarda il bambù per 10 anni, poi dimenticalo, poi dipingi il bambù.
Interiorizzare, creare, produrre.
Non faccio ritratti dal vero, li estraggo dalla memoria.
Magari faccio degli schizzi ma poi produco tutto a memoria altrimenti che ritratti sono!
Sarebbero una copia […]
Sì dice che i miei oggetti siano realizzati con dei metodi segreti… rido sotto i baffi… il mio solo segreto è il rigore con cui conduco il mio lavoro… Sono come un direttore d’orchestra che si serve di primi violini e di professori ma che li dirige tutti per ottenere la sinfonia.
Ho così vestito di vestigia, ceramiche, mobili e cose e ho così riposto in ogni opera un messaggio, un piccolo racconto certe volte ironico, senza parole evidentemente, ma udibile da chi crede nella poesia.
Mi reputo l’inventore del vassoio perché ad un certo momento della nostra civiltà non si sapeva più come porgere un bicchiere, un messaggio, una poesia. Sono nato in una famiglia di pessimo buon gusto e faccio del pessimo buon gusto la chiave di liberazione della fantasia.
Nota alla foto di apertura del post: “Makers” è il libro che ho acquistato assieme al catalogo della mostra nella libreria della Triennale e non è parte integrante delle pubblicazioni della mostra.
Ho iniziato con una visita guidata alle “Torri di Kiefer” davanti alle quali ho provato stupore, rimanendo senza parole.
Ho proseguito con Tomàs Saraceno, con il quale mi sono divertita a gattonare sul suo On Space Time Foam e dove ho visto in modo evidente per la prima volta, la concretizzazione di quello che io chiamo trasversalità: dove l’arte, l’ingegneria, il gioco e le emozioni, si mescolano.
Ho visitato altre due installazioni: quella di Apitchapong Weerasethakul e quella di Mike Kelley.
Ho trascorso 10 minuti magici nella installazione di Ragnar Kjartansson (“The visitors”): immersa nel suono e circondata da megaschermi, mi sono emozionata ascoltando la canzone di una struggente malinconia.
Penso sia uno degli spazi espositivi più riusciti degli ultimi tempi.
Che – per quanto mi riguarda – ha un grande merito: quello di avermi fatto avvicinare ed apprezzare l’arte contemporanea/moderna e le sue performance. Una forma di espressione artistica che ho sempre fatto fatica a comprendere, spesso rifiutandola per incapacità di comprenderne i messaggi.
[Ricordo ancora la visita guidata alla Galleria Pomodoro (in zona Porta Genova): ci misi tutta la buona volontà di questo mondo nel cercare di comprendere che cosa avevo davanti, ma uscii di lì con il dubbio di avere visto una mare di stupidate presentate e “vendute” come arte. (Purtroppo fallì e chiuse dopo qualche anno. Ed oggi mi viene il “sospetto” che forse ci fosse qualche difficoltà di comunicazione e di contenuti anche da parte dello spazio espositivo stesso.). Questo non avvenuto in Hangar Bicocca dove la capacità di comunicazione e la didattica sono molto seguite e curate.]
Delle installazioni che ho visitato, tre le ho fatte con visita guidata (un modo per avvicinarmi a queste “stranezze”, tenuta per mano da chi ne capisce più di me e può spiegarmi qualcosa).
Due (Saraceno, per oggettiva impossibilità logistica, e Kjartansson) le ho fruite da sola.
E ho capito una cosa: più che la spiegazione logica del “perché e del per come”, sono le sensazioni che provi davanti a questi lavori.
Cosa ti suscitano? Che emozioni ti trasmettono? Cosa ti stanno dicendo? Ascoltandoti, mentre le fruisci, che cosa senti? I tuoi sensi come stanno reagendo davanti a queste installazioni?
So che può sembrare una cosa un po’ ardita, ma è questo che io ho riflettuto negli ultimi tempi.
Soprattutto davanti a “The visitors”: mi sembrava di essere immersa in un fluido. E lì ho pensato proprio alla emozione che mi aveva suscitato e che avevo sentito chiaramente.
Quello che mi ripropongo con il nuovo anno è – sì – di capirne di più, cercando di partecipare anche alle rassegne cinematografiche e curiosando nella loro libreria (facendo lavorare un po’ anche l’emisfero sinistro), ma anche – e soprattutto – continuare ad esplorare la parte emotiva ed inconscia, utilizzando le loro installazioni come specchio personale.