Farsi i fatti propri conservando la (propria) autonomia di pensiero.
Questa riflessione mi è sorta ascoltando questa mattina il podcast Morning de Il Post (condotto da Francesco Costa).
E ascoltando delle turbolenze interne ed esterne al nostro Paese, di spionaggio più o meno autorizzato di “Paesi terzi” e altre “amenità” (virgolettato d’obbligo)… mi sono tornati in mente post drammatici all’indomani del risultato delle Elezioni Amministrative che paventavano la fine della libertà di espressione e di pensiero.
[E forse ne avevo già scritto in un post precedente (ricordo che comunque ci avevo riflettuto soprattutto in ragione dei contenuti drammatici di cui sopra).]
Oggi questo pensiero è tornato in superficie con una diversa natura.
Perché?
Perché ascoltando determinate notizie, si è fatto sentire un senso di inquietudine.
Credo sia normale: viviamo tempi molto particolari (soprattutto la nostra generazione che arriva da un lungo periodo di relativa quiete). E il rischio è di scivolare gradualmente in uno stato simil ansiogeno (assimilabile al “guardarsi le spalle”) è abbastanza facile.
Una sensazione malsana (oserei dire “disfunzionale”) dettata anche dalla particolarità della nostra Era fatta di comunicazione costante e continua, di perenne connessione & interconnessione. Una realtà che nella sua “virtualità” ha azzerato le distanze chilometriche, mutando la nostra percezione dell’intorno (di prossimità o lontano).
Una sensazione generata da questa connessione & interconnessione che ci consente di leggere e – soprattutto – comunicare. Senza soluzione di continuità.
E senza filtri.
Quei filtri che adottiamo quando comunichiamo in presenza (sulla base delle nostre capacità di ascolto e osservazione dell’interlocutore e dell’ambiente) e che usiamo molto meno (talvolta per niente) in un ambiente digitale (esso stesso già filtro, ma di natura assai diversa).
Ebbene, valutando l’insieme (il periodo storico + i mezzi di comunicazione + le personali capacità di elaborazione dei dati + i mezzi di informazione + … [aggiungete ciò che preferite]) mi sono domandata:
“Ma è proprio necessario che io esprima sempre e comunque il mio pensiero?”
(Domanda aggiuntiva apparentemente fuori contesto: che rapporto abbiamo con i nostri amici? Diciamo loro sempre tutto [come ai tempi delle amicizie del cuore] oppure alcune cose le teniamo per noi?)
La risposta credo sia “no”.
Non è sempre necessario.
E il mio non è un “no” censorio, è un “no” mediato.
Dal contesto, dalle persone con le quali dialoghiamo online e offline.
È un “no” supportato da un approccio che aiuti a valutare costruttivamente la condivisione dei propri pensieri. Che generi un pensiero critico in grado di scegliere non solo cosa dire, ma anche come dirlo.
[Sul tema del “come” dirlo tornerò a breve, in relazione al cosa scegliere di vedere/leggere/ascoltare in base alle proprie capacità emotive e nel rispetto delle capacità emotive altrui.]