Condividere, o no?

In questi ultimi tempi sono diventata molto più (forse meglio dire “ancor più”) sensibile ad argomentazioni palesemente basate su fonti poco attendibili, che fanno della disinformazione il loro pane quotidiano.
Disinformazione utile a fare leva sulla emotività e sulla ignoranza (intesa come “il non sapere”) altrui, ulteriormente utile ad altri scopi (talvolta ben noti, altre volte meno).

E su questa faccenda (gli altri scopi) faccio ancora molta fatica a comprendere il motivo di tali dinamiche: perché si ha interesse ad alimentare ignoranza che genera ulteriore impoverimento intellettuale ed economico, in un circolo vizioso che si autoalimenta e che prima o poi (più prima che poi, temo) collasserà su se stesso? Perché non si ritiene più utile condividere una visione di crescita utile al benessere nostro [nel qui e ora] e di chi verrà dopo di noi?
(Nel mentre scrivo queste parole mi sto dando già qualche tipo di risposta riassumibile – e sintetizzabile – in: cervello pigro —> facili spiegazioni —> facili soluzioni (immediate) —> mantenimento status quo —> cervello pigro —> facili spiegazioni —> facili soluzioni (immediate) —> mantenimento status quo… e via così, in questo percorso circolare che si autoalimenta e automantiene. Applicabile non solo per chi resta all’interno della propria bolla, ma anche alimentato da chi produce contenuti [per stupidità propria, per strategie di click-bait, ecc. ecc.].)

Non passa settimana (talvolta anche solo qualche giorno) che non mi trovi a discutere ascoltando frasi fatte e prelevate pari-pari da fonti note per scarsa obiettività e alta strumentalizzazione.
E ogni volta mi tocca fare un bel respiro per non aggredire verbalmente l’interlocutore, sfinita dall’ascoltare sempre le stesse argomentazioni come un disco rotto (sono stanca, confesso).
La voglia di ritirarsi, di chiudere i profili social, di ridurre le conversazioni (online e offline) al minimo sindacale (le note “conversazioni da ascensore”), è molto forte.

E l’ho pensato anche l’altra sera quando stavo per condividere su Facebook il link ad un podcast (a mio avviso) molto ben fatto: La Nave, prodotto da Il Post e dedicato alla imbarcazione Geo Barents (la nave di salvataggio di Medici Senza Frontiere che naviga nel Mediterraneo).
Argomento delicatissimo (questo delle navi delle ong), oggetto di speculazioni e strumentalizzazioni di tutti i generi (da ambo le parti), e portatore di risse digitali (e verbali) non indifferenti.

Stavo quindi per condividerne il link e poi… ho cancellato il post (“a che serve?”, mi sono chiesta).

A che serve continuare a condividere in ambienti digitali o meno (quasi tutti) sempre più polarizzati? Ha senso farlo?
E poi: perché lo voglio fare? Cosa voglio dimostrare (a me stessa e agli altri)?
E ancora: una volta che ho condiviso una informazione, sono in grado di reggere ad eventuali dibattiti di posizione?

(Mi è successo di recente su un altro argomento delicato di tipo spirituale e ho mollato la conversazione, fiaccata: lì sono stata annichilita da una dissertazione teologica che mi ha fatto sentire ignorante [su alcune informazioni non ero in grado di dibattere per mia non conoscenza] e profondamente stanca [percepivo – dal mio punto di vista – una graniticità di idee dell’interlocutore, fermo nelle proprie posizioni]. Posso dire però con grande serenità che ho trovato teologi molto più aperti e dialoganti, rispetto a persone comuni arroccate su certezze utili a non sentirsi esposte e prive di punti di riferimento.)

Quindi, ha senso continuare a condividere?
Non lo so. O meglio, dipende.

Se condivido per costruire la mia identità online (per posizionarmi), la risposta è sì (“ciò che scrivi ti posiziona”).
Se condivido per offrire uno sguardo diverso ad un problema (o a una questione, anche delicata) che porti qualche spunto di riflessione in più, la risposta è forse no. Forse non ne vale la pena.

Ma il scegliere di non condividere più con questo intento (l’offrire spunti di riflessione in più), non preclude il continuare ad esplorare, informarsi e percorrere proprie strade. Per cercare di imparare ad abitare nel modo migliore possibile questo mondo.
Semplicemente si sceglie di cambiare ambienti (digitali e/o reali) dove condividere quanto scoperto.
Facendo – nel contempo – parlare il proprio lavoro e le proprie azioni. (Ma questo è un altro discorso che merita qualche riga a parte).

[La foto è di Nijwam Swargiary su Unsplash]

Condividere con parsimonia

Farsi i fatti propri conservando la (propria) autonomia di pensiero.

Questa riflessione mi è sorta ascoltando questa mattina il podcast Morning de Il Post (condotto da Francesco Costa).

E ascoltando delle turbolenze interne ed esterne al nostro Paese, di spionaggio più o meno autorizzato di “Paesi terzi” e altre “amenità” (virgolettato d’obbligo)… mi sono tornati in mente post drammatici all’indomani del risultato delle Elezioni Amministrative che paventavano la fine della libertà di espressione e di pensiero.
[E forse ne avevo già scritto in un post precedente (ricordo che comunque ci avevo riflettuto soprattutto in ragione dei contenuti drammatici di cui sopra).]

Oggi questo pensiero è tornato in superficie con una diversa natura.
Perché?
Perché ascoltando determinate notizie, si è fatto sentire un senso di inquietudine.

Credo sia normale: viviamo tempi molto particolari (soprattutto la nostra generazione che arriva da un lungo periodo di relativa quiete). E il rischio è di scivolare gradualmente in uno stato simil ansiogeno (assimilabile al “guardarsi le spalle”) è abbastanza facile.

Una sensazione malsana (oserei dire “disfunzionale”) dettata anche dalla particolarità della nostra Era fatta di comunicazione costante e continua, di perenne connessione & interconnessione. Una realtà che nella sua “virtualità” ha azzerato le distanze chilometriche, mutando la nostra percezione dell’intorno (di prossimità o lontano).

Una sensazione generata da questa connessione & interconnessione che ci consente di leggere e – soprattutto – comunicare. Senza soluzione di continuità.

E senza filtri.

Quei filtri che adottiamo quando comunichiamo in presenza (sulla base delle nostre capacità di ascolto e osservazione dell’interlocutore e dell’ambiente) e che usiamo molto meno (talvolta per niente) in un ambiente digitale (esso stesso già filtro, ma di natura assai diversa).

Ebbene, valutando l’insieme (il periodo storico + i mezzi di comunicazione + le personali capacità di elaborazione dei dati + i mezzi di informazione + … [aggiungete ciò che preferite]) mi sono domandata:

“Ma è proprio necessario che io esprima sempre e comunque il mio pensiero?”

(Domanda aggiuntiva apparentemente fuori contesto: che rapporto abbiamo con i nostri amici? Diciamo loro sempre tutto [come ai tempi delle amicizie del cuore] oppure alcune cose le teniamo per noi?)

La risposta credo sia “no”.
Non è sempre necessario.

E il mio non è un “no” censorio, è un “no” mediato.
Dal contesto, dalle persone con le quali dialoghiamo online e offline.

È un “no” supportato da un approccio che aiuti a valutare costruttivamente la condivisione dei propri pensieri. Che generi un pensiero critico in grado di scegliere non solo cosa dire, ma anche come dirlo.

[Sul tema del “come” dirlo tornerò a breve, in relazione al cosa scegliere di vedere/leggere/ascoltare in base alle proprie capacità emotive e nel rispetto delle capacità emotive altrui.]

Complessità e incertezza

Il periodo che stiamo vivendo (e non mi riferisco solo alla pandemia in corso, ma anche alle altre vicende che agitano il mondo negli ultimi tempi), mi hanno fatto immergere nelle realtà parallele del comportamento umano.
Talvolta sfiorando la morbosità e comunque vivendo un certo disagio (mi è capitato di leggere su Internazionale un reportage scritto da Wu Ming 1 [un collettivo di scrittori] sul mondo di QAnon, che mostra una realtà che si fa fatica ad accettare come esistente: Il mondo di QAnon: come entrarci, perché uscirne. Prima parte).

E proseguendo in questa assai particolare esplorazione “dell’animale uomo” (come lo chiama mio padre), l’altro giorno ho letto un altro interessante articolo (sempre su Internazionale): L’intreccio tra complotti e populismo in Italia

Al suo interno vi è un passaggio secondo me interessante.
Lo ri-coniugo qui sotto, come introduzione alla lettura dell’articolo.
Partendo da un episodio abbastanza surreale, perché coinvolge un giornalista sempre abbastanza assennato, l’autore dell’articolo (Alessandro Calvi di Voxeurop) scrive:

“[…] anche per i più “insospettabili”, scivolare dall’analisi della realtà verso teorie di natura complottistica le quali, in genere, semplificano la complessità del reale, rassicurando chi le ascolta o costruendone l’identità.”

Semplificazione di una realtà sempre più complessa, che talvolta stentiamo a comprendere.
Una sorta di due velocità (la nostra, di creature analogiche con un numero “limitato” di sinapsi, e quella là fuori che viaggia ad una velocità molto più elevata) che genera un divario profondo.

E questa incomprensibilità può portare a due comportamenti, secondo me:

  • una continua, costante (e faticosa) corsa al cercare di comprendere (e di anticipare),
  • un rifiuto generato dal non comprendere che genera a sua volta paura e porta al rifugiarsi all’interno di una fortezza.

Una fortezza le cui mura sono costituite da certezze acquisite nel tempo che fu ma che – in confronto alla realtà là fuori – hanno (nel bene e nel male) fatto il loro tempo.
Certezze che rifiutano a priori qualsiasi cosa sia diversa dal proprio schema consolidato.

E questo atto di proteggersi dalla “paura del là fuori” mi fa pensare anche al fare gruppo/branco: l’aggregarsi con chi la pensa come noi rinforzando i nostri bias, in un corto circuito vizioso.

Foto di Ishan @seefromthesky su Unsplash

A questo punto il post che avevo inizialmente pensato di scrivere avrebbe preso una direzione di appello all’informarsi, alla verifica delle fonti, ecc. ecc.

Ma stamattina in “Morning” (il podcast de Il Post) ho ascoltato di un post scritto su Facebook da Daniele Ranieri (giornalista de Il Foglio) che sono andata a leggere e che – ahimè – mi sono ritrovata a condividere nel ragionamento.
E che sintetizzo in questa frase qui sotto (che è una personale sintesi).

E’ uno spreco di tempo ed energie il voler convincere persone a fare cose che non vogliono fare: più insistiamo più confermiamo i loro bias; più ne parliamo e li coinvolgiamo, più li facciamo sentire persone speciali e quindi importanti, rinforzando la loro identità.

Ed è quello che – con grandi scrupoli e a modo mio – sto facendo da qualche giorno a questa parte anche sui miei piccoli profili social (soprattutto Facebook, dove lo scontro è molto acceso): sto rimuovendo (e talvolta bloccando) persone i cui post mi compaiono in timeline e narrano di complottismi, sostenendo teorie negazioniste.

Questo non mi fa di certo stare bene, eticamente parlando (mi faccio una montagna di scrupoli).
Un’amica commentava il suo timore (da me condiviso) di chiuderci a nostra volta in una bolla contrapposta all’altra.
Ma in questi tempi così complessi mi vedo costretta a fare “di necessità virtù”.

Coltivando il dubbio (che ha modalità espressive ben diverse dal negazionismo e dal complottismo).
Cercando di aprirsi un varco nella foresta di parole, per cercare di intravedere possibili strade valide da percorrere.

[La foto di intestazione e dì Waldemar Brandt su Unsplash]

Informazione ed emozione

Di Covid-19 se ne parla ormai abbondantemente, l’OMS ha dichiarato l’altro giorno la “pandemia” e la fatica mentale si sta facendo sentire.

[Immagine ©JohnHopkinsMedicine]

Personalmente, la fatica si è presentata la scorsa settimana sotto le spoglie di una sensazione di sconforto emotivo attraverso un senso di smarrimento e di malinconia, comparsi a tarda sera. Che si sono insinuati al calare della luce e – mano a mano che il buio avanzava – sono aumentati di intensità.

Ho provato anche una sensazione di solitudine.
E ho sofferto nel leggere le cronache dei medici, del personale e dei pazienti in Terapia Intensiva, rivivendo con nitidezza emozioni relativamente recenti.

D’altro canto non ho mai pensato per un momento che si stia andando verso l’apocalisse, ma sicuramente ho pensato (e penso tuttora con maggiore lucidità) che stiamo andando verso una nuova realtà.
Che si può intuire in parte, ma forse anche no.

[Photo by Macau Photo Agency on Unsplash]

E stamattina, leggendo gli articoli de Il Post “Cosa rende così contagioso il coronavirus” e “I farmaci contro l’artrite reumatoide per trattare i casi gravi di COVID-19” (mettendo insieme riflessioni fatte in queste ultime 48 ore con altre persone, “mai avuto un periodo di conversazioni [virtuali] così fitte come in questi ultimi giorni” mi dicevo tra me e me ieri sera), ho ripensato ad una metafora che ho usato recentemente in un video pubblicato su Facebook qualche giorno fa, in piena escalation.

In particolare ho usato la metafora della prateria legata alla velocità di propagazione di Covid-19.
La prateria intesa come una distesa priva di ostacoli, che consente al vento di muoversi veloce e agli animali (di qualsiasi specie essi siano) di correre altrettanto veloci.

[N.B: l’articolo menzionato nel video è “Coronavirus, i numeri cominciano a parlare ma è difficile capirli. Ecco perché.]

Ecco, il contagio da parte del Coronavirus lo vedo così.

Non ha (per ora) ostacoli: che siano essi vaccini o difese immunitarie (fatto salvo l’avere un fisico in grado di reggere e contrastare l’attacco, sviluppando degli anticorpi tali da non portarti in ospedale o – peggio – in Terapia Intensiva).

E nel frattempo mi sono resa conto che – passata la scorsa settimana con i due momenti di sconforto ed entrata da mercoledì 11/03 in modalità smart working – mi sto adattando ed abituando alla nuova situazione (è stato immediato nella mia testa il rimando al concetto di adattamento della specie).

Un adattamento frutto forse di una reazione al down emotivo.
Reazione che è andata a pescare le risorse già utilizzate due anni fa proprio in questo periodo.
Reazione che fa capo a due parole: razionalità e informazione.

Una razionalità che – supportata dalla informazione – mi consente di gestire la parte emotiva (assai agitata e sfiancante).

Una informazione che sto sfrondando a favore di una tipologia precisa.
Quella scientifica.
Quella che mi aiuta a comprendere.

[Foto di CDC su Unsplash]

Perché se comprendo (o per lo meno cerco di capire, dando un ordine di misura alle cose e agli accadimenti), ragiono.
E se ragiono, la paura diminuisce.
Perché nominalizzo, creando delle similitudini e delle differenze.

Comporta fatica? Certo.
Comporta leggere montagne di informazioni? Certo.
Comporta valutare, vagliare, soppesare e scremare? Certo.

Ma personalmente la vedo come l’unica strada percorribile.
Per lo meno in questo momento.

Poi c’è anche il tempo delle riflessioni e delle dissertazioni filosofiche.
(La mente ha bisogno di divagare e vagare in modalità flusso di pensiero.)

Ma prima – per quanto mi riguarda – viene la scienza (in tutte le sue declinazioni) e il ragionamento.

Ragionamento che – insieme a informazione e razionalità – portano a valutare e trovare soluzioni.
Riducendo al minimo i momenti di paralisi da paura.

[Immagine di copertina del CDC su Unsplash]

Coronavirus e informazione

[Aggiornato con nuove fonti – 26 febbraio 2020]

Le foto qui sotto sono state scattate ieri sera da il babbo e me nelle due Esselunga di Cusano Milanino e Settimo Milanese. Due comuni che – per chi non è di Milano – si trovano ai lati opposti della città.

In questi ultimi giorni (e nello specifico nelle ultime 72 ore) ho letto di tutto e di più su profili social (soprattutto Facebook).
Opinioni che rasentavano il delirante in taluni casi.

E stamattina – scorrendo le informazioni su testate giornalistiche e agenzia di stampa (Ansa, Il Post, Corriere della Sera con escursioni [ieri] su Le Formiche [con un bel pezzo scritto da Andrea Fontana sulla “Infodemia”] e Oggi Scienza) – ho letto un editoriale di Luigi Ripamonti sul Corriere: Una prova di maturità.
Mi ha colpito un passaggio nello specifico.

I generi acquistati in eccesso non soltanto saranno poi indisponibili per chi, più debole, non avrà avuto la possibilità di partecipare alla corsa, ma ricadranno in diversa misura sulla filiera economica e contribuiranno ad amplificare l’ondata di irrazionalità.

E questa menzione del “più debole” mi ha fatto tornare in mente una immagine di domenica (sempre in Esselunga, in piena fase di assalto alle provviste).
Io e pochi altri con pochi generi alimentari, in coda alle casse self-service dei cestini.
Una signora anziana con nipote adolescente.
Entrambi un po’ intimiditi e spaesati (domenica pomeriggio sembrava fosse scoppiato un conflitto, non scherzo).
Coda (la nostra) un po’ disordinata; compressi e sopraffatti da carrelli stracolmi.
Ci siamo regolamentati stile studio medico: “Chi è l’ultimo?”
Nel movimento della coda ci siamo trovati un po’ disordinati e quando si è liberata una cassa, la signora anziana mi ha fatto cenno di andare avanti che toccava a me, quando in realtà toccava a lei.
L’impressione che avevo era che il caos e la folla la intimidissero non poco.
(Io osservavo stranita.)

Ecco, i “deboli” sono anche queste persone (così anche come coloro che soffrono di intolleranze alimentari o altre problematiche/patologie più o meno gravi, come mi ha fatto giustamente notare un contatto su Facebook, che sono costrette a tenere un determinato regime alimentare e che potrebbero non trovare gli alimenti adatti a loro perché precedentemente – compulsivamente – saccheggiati).

Photo by Markus Spiske on Unsplash

Persone sopraffatte da questa “mandria” (e uso il termine con discernimento, intendendo proprio il “comportamento epidemico” adottato in determinate situazioni) di individui fuori controllo nella cui testa scatta una dinamica primordiale governata dal cervello rettile (con la nota reazione “Fight or fly“) e assimilabile anche alla “Not In My BackYard” [NIMBY – il link rimanda alla versione inglese di Wikipedia, perché più neutrale rispetto alla versione italiana] che tante volte ci fa comportare in modo assolutamente illogico, distruttivo e inconsulto.
[Mi ha fatto pensare alla sindrome NIMBY anche questo trafiletto su La Stampa, che invita a riflettere su come muta la nostra percezione dei problemi in funzione della loro prossimità: Il coronavirus terrorizza, il clima no: come nasce la percezione del rischio]

“Mandria” facile preda di fake news e articoli strutturati secondo il sistema del click bait.

E come ho anticipato poco sopra Andrea Fontana, esperto di comunicazione, ha scritto un pezzo molto interessante (di cui condivido la riflessione) dedicato alla Infodemia:
Quando l’infodemia è più pericolosa di una epidemia
[Nel mentre scrivo questo articolo, il sito è irraggiungibile. Spero che il link venga ripristinato al più presto.]
Ne cito un passaggio breve, invitandovi a leggere l’intero articolo:

[…] l’epidemia cognitiva sta mettendo in evidenza i limiti dell’informazione nelle emergenze quando non è chiara, tempestiva ed univoca.

Il suo è un invito ad una comunicazione ponderata, equilibrata ed allineata.
Forse anche più lenta, ma non per questo meno capace di catturare chi (e sono la stragrande maggioranza purtroppo) legge solo le prime righe e non approfondisce.

Photo by Scott Webb on Unsplash

Nel contempo il non esagerare (il “non farsi prendere dal panico”) non vuol dire prendere la direzione contraria (spesso noi essere umani passiamo da un estremo all’altro, passando dal panico iper-conservativo all’incoscienza che supera ogni livello di irresponsabilità ad oggi conosciuto).
Non vuol dire essere incuranti degli effetti del Coronavirus, né essere incuranti degli effetti che una promiscuità può avere – con un effetto domino – su i “deboli” citati da Luigi Ripamonti nel suo editoriale.
Bensì significa prendersi il tempo per informarsi, da più fonti possibili.
Attendibili.
Il che – che ci piaccia o meno – comporta uno sforzo ulteriore di verifica della veridicità di quanto viene scritto.

In tema di informazione, chiudo questo post con il link ad alcuni articoli:

Un articolo molto interessante che spiega le dinamiche del contagio:
Coronavirus, la matematica del contagio che ci aiuta a ragionare in mezzo al caos

Il sito del Ministero della Salute dedicato al Coronavirus, che divulga i dati in tempo reale:
Nuovo Coronavirus

La sezione del Corriere della Sera dedicata espressamente al tema:
Coronavirus, la parola alla scienza

L’intervista all’Infettivologo Massimo Andreoni:
Coronavirus, Massimo Andreoni: «Più casi in Italia? Perché li cerchiamo. All’estero meno»

Su Oggi Scienza:
Quel che bisogna sapere adesso che il coronavirus è in Italia

Foto di copertina di Joël de Vriend su Unsplash

Leggere libri…

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Stamattina un contatto di Facebook, ha condiviso questo articolo della rivista Studio:

Leggere per piacere o leggere per dovere?

Il titolo dice già tutto e individua il nocciolo del problema.
Ma la dissertazione in esso contenuto va molto più in profondità, ponendo una questione forse non così scontata: “Se leggo per lavoro, è vera lettura?”

Questa riflessione mi ha fatto tornare in mente vecchie dissertazioni tra amici sul tema.
Una volta, ragionando attorno ad una idea di bookclub aziendali, un amico mi disse: “Mi hai fatto riflettere, perché non ho mai letto nulla al di fuori di libri legati al mio lavoro” (intendendo manuali).
E “a breve giro di posta”, chiacchierando con un altro amico sulla possibilità di partecipare ad un bookclub a cui volevamo iscriverci, mi disse: “Io non ho molto tempo per leggere libri al di fuori del mio lavoro!” (pensando al bookclub come ad una opportunità di variare letture e perdersi piacevolmente nelle storie).
E una terza persona (uno dei formatori più brillanti che conosca) seguendo un mio vecchio progetto di “un libro alla settimana”, mi disse: “Ma come fai a leggere così tanto? Quando riesci a leggere?”. E alla mia risposta (“Leggo durante gli spostamenti sui mezzi pubblici, e nei tempi di attesa vari che ci sono nell’arco di una giornata”) disse: “Leggi negli sfridi di tempo” (espressione assai suggestiva). E lui è una persona che macina libri come se non ci fosse un domani…

Ebbene, tre riflessioni di tre persone di grande vivacità intellettuale e di grande curiosità. (Ma?) Che leggono principalmente libri legati alla loro professione.

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Sì, posso essere d’accordo sul fatto che leggere solo ed esclusivamente libri legati al proprio lavoro possa alla lunga limitare la propria “visuale”. Ma è anche vero che comunque è un atto di acculturamento e aggiornamento, seppur dedicato ad uno specifico ambito.
In più, non dimentichiamoci che oggi il leggere sulla propria professione, significa anche andare in esplorazione di altri argomenti apparentemente esterni al proprio “recinto operativo”. Per ampliare ed arricchire le proprie competenze.

E poi c’è un’altra area che forse non è ancora così facilmente tracciabile: la lettura di contenuti online. Che provengono da testate giornalistiche, blog, siti,…
Una gigantesca prateria, dove pascolano indisturbate anche le famigerate bufale, ma dove si possono trovare contenuti molto interessanti (previo setacciamento paziente e certosino dei motori di ricerca).
E’ un’area che credo non sia ancora completamente mappata e che potrebbe riservare delle interessanti sorprese.
(Da tempo ho in programma di leggere un libro sull’argomento [“#letturasenzafine” di Paolo Costa, edito da Egea], che mi guarda da tempo e con insistenza da un ripiano della mia libreria.)

Ricordo anche (a tale proposito) una affermazione di Mafe De Baggis che giustamente osservò che quando vediamo una persona con lo smartphone in mano pensiamo immediatamente che stia “cazzeggiando” (mi si perdoni il termine), quando in realtà potrebbe stare lavorando e/o leggendo contenuti di alto livello e/o informandosi (ho una cara amica che usa lo smartphone anche per leggere ebook, nel mentre si sposta e viaggia, ottimizzando così anche numero di dispositivi al seguito, ingombri e pesi).

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Le “convinzioni antiche” sul termine “lettura” credo siano ancora tante.
Soprattutto legate alla lettura di libri e ancor più di classici (visti come un lasciapassare per assurgere a livelli di formazione e acculturamento superiori).
E questo potrebbe acutizzare il divario tra chi legge e chi non legge, allontanando tra loro le parti anziché lavorando per avvicinarle.

Poi, esistono anche modi di scrivere dove narrazione ed informazione si uniscono per trasmettere del sapere in un modo più coinvolgente, sfruttando la predisposizione della mente di apprezzare ed imparare attraverso esempi e storie.
Un argomento che si allontana un po’ da quanto scritto qui, e che meriterebbe una riflessione dedicata (che mi sto facendo in questo periodo leggendo “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” di Oliver Sacks, e “Diventare se stessi” di Irvin Yalom.)

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“Leggere libri” è un argomento vasto e declinabile in mille sotto-dissertazioni.
Per non andare oltre (leggasi “uscire dal seminato”) scelgo di chiudere con due spunti finali, che arrivano dal sito della Treccani.
Uno è la definizione della parola “lèggere”:

  1. Scorrere con gli occhi sopra un testo scritto o stampato, per riconoscere i segni grafici corrispondenti a determinati suoni, e formare così, mentalmente o pronunciandole, le parole e le frasi che compongono il testo stesso […]
  2. Intendere, interpretare in un determinato modo uno scritto, un passo d’autore […]

L’altro è un articolo scritto nel 2013, ma sempre attuale: “Perché leggere?”
Un testo quest’ultimo molto interessante, che apre ad ulteriori (e trasversali) riflessioni.

[Immagini tratte da Pexels]

Manuel Castells – appunti in libertà

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Questa sera ho seguito in streaming la conferenza che Meet the Media Guru ha organizzato con Manuel Castells.
Bella esperienza (per me che mi considero ancora una neofita del web), utilissima e ricca di stimoli. Due ore dense di informazioni, di citazioni di ricerca e di tanto altro ancora.
Di seguito gli appunti presi durante la conferenza… Lasciati così, come sono stati presi, nella immediatezza del momento… Utilizzando tutti i dispositivi possibili esistenti per condividere in tempo reale su Twitter.

Generare idee e contenuti.
Cultura digitale.
Negli anni 90 Castells anticipava i concetti di condivisione in rete (mentre noi combattevamo con i nostri modem…)
Maria Grazia Mattei innovatore culturale e agitatore digitale/sociale [Manuel Castells]
Io faccio ricerca, mi interessa la ricerca. Non faccio politica.
Questa crisi non è globale perché il 70% del mondo sta crescendo molto velocemente.
“After math”, libro appena pubblicato a Londra.
Cultura economica alternativa: la vita nuova e migliore la voglio vivere adesso, non dopo la rivoluzione!
Ricerca sofisticata sulle dinamiche economiche nuove, tramite – per esempio – “la banca del tempo”.
Reti di “divise” sociali, valute sociali.
Siamo sempre più liberi dalle banche rispetto al passato.
Movimenti sociali dell’era internet. Internet è una piattaforma sociale utile per la diffusione di questi movimenti.
Prevedere il passato. Verificare i nostri concetti sulla base di ciò che è avvenuto.
La nascita di questi movimenti avviene in genere in seguito ad una crisi. Sulla base di come viene gestita la crisi dai governi. Outrage. Indignazione.
Persuasione e coercizione. O noi aderiamo alle idee che ci vengono date e sviluppiamo una mentalità. Oppure vengono usati sistemi più duri di coercizione.
La battaglia più importante per il potere è sempre stata per la comunicazione.
Se cambia il processo di comunicazione, cambiano anche i nostri cervelli.
Auto comunicazione di massa, supportata da internet e dai dispositivi mobili. È cambiata di conseguenza anche l’organizzazione della comunicazione.
Internet è una piattaforma organizzativa che riesce ad elaborare una forma di comunicazione (favorita la comunicazione orizzontale).
Comunicazione verticale: tivù.
Intelligenza affettiva: se prendo esempio delle emozioni collettive, quello che fa scattare la molla è la “rabbia”. Il “timore” crea ansia e reprime. La paura è l’emozione più importante nel controllo.
Togetherness: Il collante dei grandi processi è la comunità, lo stare insieme.
Caratteristiche fondamentali: sono delle reti (in tante forme: internet, ma dalla strada parte tutto… Internet ci fornisce delle piattaforme di autorganizzazione di comunicazione, reti online e offline… Tante forme di associazione spontanea… Non c’è bisogno di una leadership centralizzata…)
Il movimento è molto difficile da sostituire: non ha regole precise. Le reti non sono vulnerabili perché non sono facilmente identificabili.
Le comunicazioni virali non sono facilmente tracciabili.
La leadership non è centralizzata.
I movimenti sono globali e glocali.
La sfera pubblica è nella comunicazioni. Stare insieme. Creare una comunità.
I movimenti non sempre hanno idee condivise. Possono avere idee da condividere, dissensi da condividere ed un progetto da creare.
Mancanza di obiettivo specifico. Il punto di debolezza è che non si capisce per cosa stai combattendo. Il punto di forza è che tutti quanti possono partecipare al movimento. Open-ended.
Non mi posso organizzare se sono un anarchico. Nel momento in cui mi organizzo non sono un anarchico.
I movimenti sociali sono quelli che dicono di essere. Vogliono difendere e proteggere i bisogni della gente. Difendendo la dignità e libertà della gente.
Le utopie sono i punti di partenza, incarnandosi e diventando parti delle menti delle persone. Concretizzandosi in qualcosa.
Movimenti arizomatici: il rizoma è internet. Espansione arizomatica.
Ogni cambiamento di politica deve passare attraverso le istituzioni politiche. La politica deve quindi aprirsi. Ed i valori non negoziabili dei movimenti, sono molto importanti e diventerà inevitabile confrontarsi con loro.
I governi ora stanno agendo come dei robot (con da un lato un dio divoratore con le fauci spalancate che è il mondo finanziario), ma di fronte hanno visi, gente con valori e bisogni.
Controllo delle persone sulla propria vita. Approccio olistico alla nostra vita. Con i movimenti si può intervenire nel miglioramento dello stile di vita e nella salute della gente.
Imprenditorialità: piccole e medie imprese offrono opportunità. Non le grandi corporation: troppo verticalizzate, mastodontiche. Formazione, politiche di crescita e mentalità imprenditoriale (essere imprenditori di sé stessi). Auto-imprenditorialità.
I cambiamenti politici possono avvenire solo attraverso una spinta dal basso.
Tanti semi che possano generare nuovi alberi e nuovi cambiamenti.