Di Covid-19 se ne parla ormai abbondantemente, l’OMS ha dichiarato l’altro giorno la “pandemia” e la fatica mentale si sta facendo sentire.

Personalmente, la fatica si è presentata la scorsa settimana sotto le spoglie di una sensazione di sconforto emotivo attraverso un senso di smarrimento e di malinconia, comparsi a tarda sera. Che si sono insinuati al calare della luce e – mano a mano che il buio avanzava – sono aumentati di intensità.
Ho provato anche una sensazione di solitudine.
E ho sofferto nel leggere le cronache dei medici, del personale e dei pazienti in Terapia Intensiva, rivivendo con nitidezza emozioni relativamente recenti.
D’altro canto non ho mai pensato per un momento che si stia andando verso l’apocalisse, ma sicuramente ho pensato (e penso tuttora con maggiore lucidità) che stiamo andando verso una nuova realtà.
Che si può intuire in parte, ma forse anche no.

E stamattina, leggendo gli articoli de Il Post “Cosa rende così contagioso il coronavirus” e “I farmaci contro l’artrite reumatoide per trattare i casi gravi di COVID-19” (mettendo insieme riflessioni fatte in queste ultime 48 ore con altre persone, “mai avuto un periodo di conversazioni [virtuali] così fitte come in questi ultimi giorni” mi dicevo tra me e me ieri sera), ho ripensato ad una metafora che ho usato recentemente in un video pubblicato su Facebook qualche giorno fa, in piena escalation.
In particolare ho usato la metafora della prateria legata alla velocità di propagazione di Covid-19.
La prateria intesa come una distesa priva di ostacoli, che consente al vento di muoversi veloce e agli animali (di qualsiasi specie essi siano) di correre altrettanto veloci.
[N.B: l’articolo menzionato nel video è “Coronavirus, i numeri cominciano a parlare ma è difficile capirli. Ecco perché.“]
Ecco, il contagio da parte del Coronavirus lo vedo così.
Non ha (per ora) ostacoli: che siano essi vaccini o difese immunitarie (fatto salvo l’avere un fisico in grado di reggere e contrastare l’attacco, sviluppando degli anticorpi tali da non portarti in ospedale o – peggio – in Terapia Intensiva).
E nel frattempo mi sono resa conto che – passata la scorsa settimana con i due momenti di sconforto ed entrata da mercoledì 11/03 in modalità smart working – mi sto adattando ed abituando alla nuova situazione (è stato immediato nella mia testa il rimando al concetto di adattamento della specie).
Un adattamento frutto forse di una reazione al down emotivo.
Reazione che è andata a pescare le risorse già utilizzate due anni fa proprio in questo periodo.
Reazione che fa capo a due parole: razionalità e informazione.
Una razionalità che – supportata dalla informazione – mi consente di gestire la parte emotiva (assai agitata e sfiancante).
Una informazione che sto sfrondando a favore di una tipologia precisa.
Quella scientifica.
Quella che mi aiuta a comprendere.

Perché se comprendo (o per lo meno cerco di capire, dando un ordine di misura alle cose e agli accadimenti), ragiono.
E se ragiono, la paura diminuisce.
Perché nominalizzo, creando delle similitudini e delle differenze.
Comporta fatica? Certo.
Comporta leggere montagne di informazioni? Certo.
Comporta valutare, vagliare, soppesare e scremare? Certo.
Ma personalmente la vedo come l’unica strada percorribile.
Per lo meno in questo momento.
Poi c’è anche il tempo delle riflessioni e delle dissertazioni filosofiche.
(La mente ha bisogno di divagare e vagare in modalità flusso di pensiero.)
Ma prima – per quanto mi riguarda – viene la scienza (in tutte le sue declinazioni) e il ragionamento.
Ragionamento che – insieme a informazione e razionalità – portano a valutare e trovare soluzioni.
Riducendo al minimo i momenti di paralisi da paura.