Condividere con parsimonia

Farsi i fatti propri conservando la (propria) autonomia di pensiero.

Questa riflessione mi è sorta ascoltando questa mattina il podcast Morning de Il Post (condotto da Francesco Costa).

E ascoltando delle turbolenze interne ed esterne al nostro Paese, di spionaggio più o meno autorizzato di “Paesi terzi” e altre “amenità” (virgolettato d’obbligo)… mi sono tornati in mente post drammatici all’indomani del risultato delle Elezioni Amministrative che paventavano la fine della libertà di espressione e di pensiero.
[E forse ne avevo già scritto in un post precedente (ricordo che comunque ci avevo riflettuto soprattutto in ragione dei contenuti drammatici di cui sopra).]

Oggi questo pensiero è tornato in superficie con una diversa natura.
Perché?
Perché ascoltando determinate notizie, si è fatto sentire un senso di inquietudine.

Credo sia normale: viviamo tempi molto particolari (soprattutto la nostra generazione che arriva da un lungo periodo di relativa quiete). E il rischio è di scivolare gradualmente in uno stato simil ansiogeno (assimilabile al “guardarsi le spalle”) è abbastanza facile.

Una sensazione malsana (oserei dire “disfunzionale”) dettata anche dalla particolarità della nostra Era fatta di comunicazione costante e continua, di perenne connessione & interconnessione. Una realtà che nella sua “virtualità” ha azzerato le distanze chilometriche, mutando la nostra percezione dell’intorno (di prossimità o lontano).

Una sensazione generata da questa connessione & interconnessione che ci consente di leggere e – soprattutto – comunicare. Senza soluzione di continuità.

E senza filtri.

Quei filtri che adottiamo quando comunichiamo in presenza (sulla base delle nostre capacità di ascolto e osservazione dell’interlocutore e dell’ambiente) e che usiamo molto meno (talvolta per niente) in un ambiente digitale (esso stesso già filtro, ma di natura assai diversa).

Ebbene, valutando l’insieme (il periodo storico + i mezzi di comunicazione + le personali capacità di elaborazione dei dati + i mezzi di informazione + … [aggiungete ciò che preferite]) mi sono domandata:

“Ma è proprio necessario che io esprima sempre e comunque il mio pensiero?”

(Domanda aggiuntiva apparentemente fuori contesto: che rapporto abbiamo con i nostri amici? Diciamo loro sempre tutto [come ai tempi delle amicizie del cuore] oppure alcune cose le teniamo per noi?)

La risposta credo sia “no”.
Non è sempre necessario.

E il mio non è un “no” censorio, è un “no” mediato.
Dal contesto, dalle persone con le quali dialoghiamo online e offline.

È un “no” supportato da un approccio che aiuti a valutare costruttivamente la condivisione dei propri pensieri. Che generi un pensiero critico in grado di scegliere non solo cosa dire, ma anche come dirlo.

[Sul tema del “come” dirlo tornerò a breve, in relazione al cosa scegliere di vedere/leggere/ascoltare in base alle proprie capacità emotive e nel rispetto delle capacità emotive altrui.]

Decameron 4.0

Durante l’ultimo meeting (online) del Milan-Easy Toastmasters Club ho tenuto un breve discorso del nuovo percorso educativo Pathways.
E’ stata una buona occasione per condividere (e/o perseguire) due obiettivi.

Il primo relativo alla modalità di comunicazione (comunicazione in video, che tanta importanza ha assunto improvvisamente a causa della pandemia Covid19), il secondo relativo a cosa condividiamo e raccontiamo in questi giorni di isolamento sui social network.
(La qualità del video è bassa perché ricavato dalla registrazione del meeting via Zoom)

Di seguito il testo del discorso, disponibile in formato pdf qui:

Una nota esplicativa

I colori usati per evidenziare la varie parti del discorso, mi sono tornati utili per avere una memoria visiva dei vari passaggi.
Non sono necessariamente un rimando agli argomenti trattati in diversi punti del testo (non ci sono collegamenti univoci tra argomento e colore), bensì si tratta di una semplice individuazione dei vari “pezzi” di cui è composto.

Chi mi conosce sa che peroro la manualità nella preparazione dei propri discorsi (scrittura a mano, disegni, schemi, matite e pennarelli…).
In questo caso mi sono trovata a scrivere velocemente il testo al computer (dopo diversi giorni di ruminamento su “di cosa parlo?”) e a lavorarlo successivamente, cercando un modo che aiutasse la mia memoria visiva a ricordare i vari passaggi in una sequenza di colori riconoscibile anche a colpo d’occhio.

Colmare le distanze

pexels-photo-261970
Foto di pixabay.com su Pexels

Un paio di giorni fa – scorrendo Twitter – leggo questo tweet di Trame Formazione  (associazione che si occupa di Medicina Narrativa e “Umanizzazione delle cure”, scoperto essere tra i miei follower con mia grande sorpresa):

Il link condiviso, rimanda ad un articolo pubblicato sul sito americano PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States) : Finding the plot in science storytelling in hopes of enhancing science communication.

L’articolo in questione riflette sulla necessità di usare la narrazione come strumento di divulgazione scientifica verso un pubblico “non esperto”.
Evidenziando “l’abitudine”, comprensibile, di coloro che lavorano nel settore a comunicare utilizzando un linguaggio tecnico orientato specificatamente alla documentazione di studi e ricerche scientifiche.

Anche se si tratta di una riflessione non così nuova, il fatto che sia un organo ufficiale a farla è significativo di un’apertura verso l’esterno, con la volontà di includere, di rendere partecipe e di condividere. (Tanto più nel far west quotidiano delle fake news di cui sono oggetto le informazioni scientifiche… ma mi fermo qui per non scoperchiare un pentolone…)

L’articolo però va oltre e approfondisce il tema, riflettendo sulla differenza tra story (storia) e plot (trama). Una sottile ed importante differenza (che nella nostra lingua si coglie meno, avendo la parola “storia” un duplice significato) che traccia una linea di confine tra il raccontare una sequenza di eventi (limitandosi ad un ordine cronologico) e il raccontare gli stessi eventi, motivandoli e dando loro una connotazione emotiva. Umanizzandoli e accompagnandoli con riflessioni.

pexels-photo-997721
Foto rawpixel.com da Pexels

A questo punto è un attimo mettere in relazione queste autorevoli considerazioni con la provata efficacia dello strumento della narrazione.

Si sa che Leggere romanzi cambia il cervello (come scrive Annamaria Testa nel suo interessante articolo sul suo blog Nuovo e Utile) e sappiamo anche che il cervello stesso è predisposto ad apprendere attraverso le storie.
Sappiamo che le storie sono forse il più antico veicolo di trasmissione della conoscenza (un libro che mi sento di consigliare – che studiai all’università – è “Oralità e scrittura” di Walter J. Ong, che narra della trasmissione del sapere attraverso la tradizione orale e scritta).
Sappiamo anche che le emozioni hanno un ruolo fondamentale nella capacità di “presa” di un concetto (e/o di una situazione): se ascoltiamo/leggiamo/vediamo qualcosa che ci emoziona, difficilmente ce ne dimentichiamo.

Di questo “leggere emozionandosi” ne avevo già scritto in passato (anche più di una volta), accusando difficoltà nella lettura di manuali e perdendomi invece nelle pagine di romanzi e di narrazioni in genere (col dubbio – allora – di non imparare nulla…).
E dove questo perdersi è coinciso con narrazioni scientifiche è stata – per me – una “epifania” (Yalom, Sacks e Gawande recentemente “insegnano”).

pexels-photo-287335
Foto freestocks.org da Pexels

Ebbene, introdurre la narrazione in tutti quegli ambiti tecnici e scientifici che – ognuno a modo suo – comunicano in modo complesso, criptico, forbito, colma le distanze, divulgando e riducendo quella “ostilità” data dal fatto di non capire.

[Penso anche all’Architettura: disciplina che emoziona, che stupisce, ma che talvolta sembra distante nel suo essere troppo “saccente”, troppo imposta dall’alto. Tant’è che la “progettazione condivisa” e “del basso” sta assumendo sempre più forza ed importanza. A tale proposito suggerisco la lettura di “Design, When Everybody Designs” di Ezio Manzini e “Architettura open source” (a cura) di Carlo Ratti: due testi che offrono interessanti spunti di riflessione.]

E sempre in termini di narrazione di materie scientifiche, chiudo con il Talk che Michela Prest ha tenuto al TEDxLakeComo due anni fa: perfetto esempio di come un argomento ostico e pressoché inavvicinabile (la Fisica delle particelle) possa essere narrato in modo comprensibile ed altamente coinvolgente.

 

Condivisione di saperi

Libri
Immagine tratta dal web

Tra ieri ed oggi mi è capitato di assistere (commentando) ad una discussione su Facebook relativa alla condivisione integrale di un libro tuttora in commercio.

Tecnicamente (e giuridicamente) si tratta di una violazione del copyright (Wikipedia dà una spiegazione abbastanza esaustiva e chiara dell’argomento, rimandando a link di ulteriore approfondimento: Copyright).

Infatti se prendo un libro (che non è mio, ma è frutto della fatica intellettuale e fisica di chi – rispettivamente – lo ha scritto e lo ha reso fisico e reale, rendendolo “prodotto”) ne faccio la scansione e lo condivido online commetto un reato. Non c’è molto altro da dire.

Ma quello che mi ha lasciato perplessa è stata la reazione delle persone che hanno dato il loro contributo alla discussione: poche hanno evidenziato il problema di violazione esprimendo forti dubbi, molte hanno parlato di condivisione positiva del sapere e di utile veicolo di diffusione della reputazione dell’autore.

In particolare mi ha colpito la “leggerezza” di approccio. Leggerezza che mi ha dato la sensazione che la questione dello “sharing” (e la sua scarsa conoscenza perché – presumo – argomento molto acerbo) stia facendo travisare la realtà delle cose, sdoganando comportamenti potenzialmente scorretti (mettendo un momento da parte “la buona fede”). (Sempre Wikipedia – nella versione inglese – ha una pagina molto esaustiva dedicata alla Sharing Economy di cui essa stessa – come “enciclopedia libera” e open source ne è una declinazione.)

Onestamente ho qualche grossa perplessità sul tema.

Penso che chi crede nella “condivisione a prescindere” rischi di perdere di vista un punto fondamentale: il valore del lavoro fatto da altri (che merita di essere riconosciuto non solo intellettualmente ma anche economicamente).

L’atto del condividere non è applicabile senza un minimo di cognizione di causa.

A chi accarezza questa idea (con più o meno buone intenzioni) porrei una domanda

Saresti contento di fare un lavoro intellettuale non retribuito? Saresti realmente soddisfatto della sola retribuzione in termini di visibilità?

Non credo…

Credo anzi sia necessario iniziare a fare delle distinzioni nel mare magnum dell’informazione online e offline, facendo mente locale e prendendo consapevolezza di alcune dinamiche che la velocità del web e dei click-baiting ci hanno fatto perdere di vista.

Partendo da un punto fondamentale secondo me: un conto è la condivisione delle idee trasmesse via social media (che non sono un prodotto di serie B a cui attingere a piene mani ignorando i “credits”, altra questione annosa), un conto è un prodotto intellettuale come il libro, messo in vendita il cui prezzo è costruito per ripagare chi ha contributo alla sua costruzione.

Sulla condivisione dei contenuti e delle idee via web ci sono interessanti esperimenti di tutela e pareri legali interessanti, che penso siano eccellenti per iniziare ad avere una idea di quali possano essere diritti e doveri.

Uno dei tanti è la licenza Creative Commons che rappresenta un buon metodo di regolamentazione e responsabilizzazione rispettivamente per chi produce contenuti e per chi li condivide (TED – colosso della condivisione, ma con precise regole – è tutelato da licenza Creative Commons).

E sempre per il web esistono molti interessanti studi e pareri di cui riporto qui alcuni link (l’elenco non è esaustivo e qualsiasi contributo aggiuntivo è ben accetto):

Credo che sia arrivato il momento di avviare un processo di alfabetizzazione su argomenti troppo nuovi per essere compresi appieno.

Ma che se capiti diventano uno strumento utile e vantaggioso per tutti, dalle immense potenzialità.

sharing-cake-1940x900_36102
Immagine tratta da http://www.inc.com

Blog personale e social network

Quasi un mese fa ho deciso di prendermi una pausa di riflessione, sospendendo le pubblicazioni su questo piccolo blog personale (che nel corso degli ultimi tempi ha subito moltissime modifiche e rimaneggiamenti).

Sedotta dalla sempre maggiore versatilità dei social network, ho pensato che portare avanti un blog personale stesse diventando gradualmente sempre più impegnativo e faticoso.
Così ho iniziato a pubblicare dei post su LinkedIn, con un buon riscontro di visualizzazioni.
Ho pensato che una comunicazione più mirata a seconda dei social network, e maggiormente adatta al “mobile”, fosse la soluzione migliore (la più facile).

Però devo confessare che – nonostante sia stata una strenue sostenitrice di queste pubblicazioni – ho iniziato a sentirmi in gabbia.

Ho vissuto una sorta di paradosso.
Se da un lato scrivere per e su social network “specifici”, costituisce un ottimo esercizio di calibrazione linguistica e di sintesi (è sconsigliabile scrivere post emotivi su LinkedIn, così come scrivere post professionali su Facebook non funziona molto a meno che tu non abbia una pagina professionale), d’altro canto può accadere di sentirsi costretti a percorrere strade delimitate da robusti e metaforici paracarri.

Sì, certo, dipende molto da come e perché usi i social.
Dipende da cosa vuoi comunicare e come lo vuoi comunicare.

Non so voi che leggete come vivete la vita digitale, ma nel mio caso mi sono resa conto che passato l’entusiasmo della novità e dello sperimentare un nuovo strumento (nella fattispecie la funzione di blogging su LinkedIn, disponibile per ora solo in lingua inglese), ho iniziato a sentirmi in gabbia.
Piano-piano ho iniziato a scrivere post che tendevano via-via ad essere dedicati meno alla professione, e più ad impressioni e riflessioni.

E proprio qualche giorno fa, pubblicavo su Facebook questo post:

In un mondo che ti dice che devi avere obiettivi e che devi focalizzarti su alcune cose, scegliendo-scegliendo-scegliendo, che dite se decidiamo di seguire liberamente i nostri interessi e le nostre passioni, senza costringerci a scegliere in funzione di un possibile business…?
La vita è una sola ed è già abbastanza faticoso portare avanti la baracca.
Se poi i nostri hobby, le nostre passioni, devono essere costrette in funzione di un possibile e specifico business… beh… benvenuti stress e frustrazione…
Negli “sfridi di tempo” cerchiamo di fare le cose che ci piace fare. Per sgombrare la testa, per ricaricarci, per divertirci, per il gusto di imparare.
Poi se ne esce un business tanto meglio.
Sennò va bene uguale.
Senza frustrazione e senza ansia.
Basta che abbia un senso per noi, che facciamo quello che facciamo.

E allora, daccapo!
Con buona pace della non-bontà della visione blog-centrica, scatta la nostalgia del blog come spazio personale.
Di narrazione di ciò che si fa, si impara e si è.

E come se non bastasse, ti capita di incrociare sul tuo percorso digitale, un libro (che ho acquistato e che leggerò nelle prossime settimane): “Bloggo con WordPress dunque sono: Remixa la tua identità digitale e personalizza l’interfaccia del tuo blog” di Paolo Sordi.
La cui sinossi recita:

Ha senso oggi parlare di blog e siti personali? Se vuoi tenere un diario, c’è Facebook. Se vuoi un album fotografico, Instagram. Se vuoi pubblicare un video, YouTube. Vuoi mettere in luce le tue competenze? LinkedIn. Vuoi buttare giù una riflessione veloce? Twitter. Vuoi scrivere un articolo? Medium.
Il blog non è morto, si è frammentato in tante piattaforme che del blog hanno assunto alcuni tratti e alcune funzionalità di base, ma che dal blog si sono distaccate, offrendo ognuna caratteristiche e funzioni specifiche che ne hanno favorito un’adozione sempre più di massa.
Con i social network la voce inedita e personale dell’utente ha conquistato un’esposizione infinita, ma si è chiusa in tanti “giardini chiusi” dove ha perso unità di spazio, libertà e indipendenza. Eppure la Rete aperta dell’open source, del PHP, dell’HTML, dei CSS, dei feed RSS, di WordPress (rigorosamente punto org) è ancora un luogo libero, aperto e flessibile che può restituire agli autori il controllo su contenuti, tempi, modi e proprietà di quanto pubblicato online.
Bloggo con WordPress dunque sono ti spiega come.

E poi leggi – veramente per caso – un progetto avviato da una blogger: #CurriculumDelLettore: come è nato e compagni di viaggio.

E leggi di tanti altri blogger per passione che hanno attraversato come te momenti di pausa, nei quali si sono fatti un po’ di domande (la più importante delle quali è: “Ma chi me lo fa fare?”), ma che dopo una assenza di settimane sono tornati alla loro creatura (quel blog che hanno costruito con tanta passione, con le loro mani) e sono ripartiti con più voglia di prima.

E allora perché lo fai?
Perché ti prendi la briga di scrivere su un blog su WordPress (con tutte le sue difficoltà del caso, perché una piattaforma un pochino complessa)?

Già, perché?
Perché coltivare le proprie passioni…?

Vi lascio con qualche link che ho incontrato nel corso di queste settimane di pausa (sono letture apparentemente scollegate fra loro e non tutte congruenti con l’argomento del post, però hanno contribuito a farmi riflettere e forse a farmi ripartire):

Comunicare, condividere e fare formazione

14 - 2Secondo me il mondo della formazione, così come noi lo abbiamo visto sino ad oggi, non è destinato a durare a lungo.
Perché?
Provo a spiegare nelle righe che seguono…

Frequento corsi di formazione e “crescita personale” dal 2007 (via-via con sempre minore frequenza) e ho visto questo mondo (con le sue discipline) crescere, fiorire, prosperare, dare molto… ma ora ho la sensazione che si stia approssimando al capolinea.

Infatti è da diverso tempo che non sento più parlare di cose nuove.
Mentre – al contrario e paradossalmente – vedo proliferare formatori da ogni parte.
Sono tutti formatori.
Tutti organizzano corsi.
Tutti si riciclano nel mondo della formazione.
Tutti parlano e trattano di crescita personale e “annessi&connessi”.

Più di una volta ho pensato: “C’è qualcosa che non va…”.

E questa riflessione è tornata in superficie proprio ieri sera, tornando a casa dopo avere assistito all’appuntamento mensile di 5×15 italia.
[Per chi non lo sapesse 5×15 è un format che arriva da Londra e che vede alternarsi 5 speaker che parlano 15 minuti a testa.
Raccontano le loro esperienze, i loro progetti, fornendo spunti di riflessione e offrendo motivo di arricchimento culturale, di idee e di conoscenza.]

Ricorda un po’ TED, dove – anche lì – si alternano sul palco speaker che si sono distinti per iniziative, studi particolari o altro, e che raccontano la loro esperienza attraverso interventi (denominati “Talk”) della durata massima di un quarto d’ora.
(I 15 minuti hanno un motivo neurologico preciso – legato ai tempi di attenzione – e vi rimando ad un libro molto interessante, scritto da Carmine Gallo, dal titolo “Talk like TED”, disponibile per ora solo in inglese)

Il diffondersi (positivo secondo me) di questi format multidisciplinari e “corali” mi fa pensare che c’è in atto un cambio di comunicazione delle competenze, di trasmissione e condivisione della conoscenza.

Se si guardano – per esempio – anche i format come Dieci Cose (bella sorpresa del 2014, qui e qui gli Storify delle due giornate di formazione), o altre iniziative simili, si intuisce (almeno mi pare di intuire) che l’obiettivo verso il quale si sta andando è quello di condurre una sorta di “brainstorming” incrociando dati e conoscenze, fornendo nuove visioni e nuovi punti di contatto.

Credo che questo sia espressione di un nuovo mondo della informazione che non può più essere sottovalutato dai “formatori classici” in circolazione che – se non sapranno cogliere e catturare queste nuove modalità espressive – saranno destinati inevitabilmente a soccombere.

14 - 1

Poi il paradosso (che appare quasi come un cane che si morde la coda) è che proprio questo nuovo modo di divulgare e comunicare ci vede tutti “formatori”.
Tutti con competenze da offrire e da raccontare, mettendo in condivisione il proprio sapere.
(E senza per questo avere timore di “scippo” delle proprie idee perché un conto è raccontarle, un conto è “saperle fare”…)

Sono scenari che mi affascinano e che aprono prospettive interessanti (sono anche – secondo me – un po’ l’evoluzione delle cara e vecchia “tavola rotonda” e/o “dibattito” rinata in forma più evoluta).

[In foto i libri di alcuni dei relatori del Forum delle Eccellenze e del World Business Forum, che sono altri eventi formativi che vedono l’alternarsi sul palco di varie figure che in un determinato “slot” di tempo, raccontano e condividono esperienze ed informazioni.]

Una vita normale…

2014-10-09 12.02.26Non se capita anche a voi, ma ci sono delle giornate che hanno il potere (per le cause più strane ed imprevedibili) di capovolgere alcune cose.
Hanno il potere di spostare dei punti di vista…

In genere (per quanto mi riguarda) sono pre-annunciate da scossoni emotivi o sensazioni di disagio più o meno striscianti…
Che sfociano in post nervosi, rognosi, emotivi su Facebook (usato proprio come un diario online).
Ed in questi giorni è stato un po’ così…
Partita con una richiesta assolutamente innocua su una breve recensione che avevo scritto (“Cosa preferisci che scriva a fianco del tuo nome? Architetto, blogger, Presidente Milan Easy Toastmasters Club, altro…“) che mi aveva fatto cambiare due volte le indicazioni (“Scusate, sono refrattaria alle etichette”, avevo commentato mortificata), sono esplosa con due post in rapida successione (intervallati da un crescente fastidio nei confronti dei termini roboanti e vincenti che leggi sui social [dimostrazione palese dello stato di frustrazione pericolosa indotta dalle condivisioni che leggi che possono indurre stati di inadeguatezza assolutamente ingiustificati])

Il primo recitava così:

Attenzione, post rognoso.
Se non volete leggerlo, fermatevi qui.

Sarà l’atmosfera plumbea di oggi, sarà l’approssimarsi della menopausa, fatto sta che…

Lo so, sono una che non chiede mai.
E che non si autoincensa mai.
Sono una discreta.
E questo mi sta costando caro.
Molto caro.
Ne sono cosciente.
In un’era e con degli strumenti utilizzati da parecchi per farsi una pubblicità autoincensante imbarazzante.
Ma non posso farci nulla.
Fare altro equivarrebbe a forzare e a rendermi ridicola. Ergo non lo faccio.
Faccio quello che posso.
E cerco di farlo con le mie forze.
Sono arrivata dove sono arrivata, per conto mio.
Non sono arrivata in alto. No.
Non sono amministratore delegato di nulla.
Né sono direttore generale di alcunché.
Non ho scritto libri (onestamente non saprei che scrivere).
Non sono interessata a fare corsi.
Lavoro (grazie a Dio).
Ho un piccolo blog dove scribacchio.
E sono refrattaria alle etichette roboanti.

Insomma sono un bipede che si alza alla mattina, va a lavorare e torna a casa alla sera.
Coltivando qualche hobby.
E il mattino dopo ricomincia.

Perché ho scritto tutto questo?
Non lo so.
Avevo voglia di farlo. E basta.
Sarà il tempo.
Sarà l’approssimarsi della menopausa.
Boh…
O forse è solo un reclamo di normalità.
Buona serata.
(Fine del post rognoso)

Ed il secondo – di stamattina – recitava così:

“Una vita normale”… ecco, se dovessi scrivere un libro (per riagganciarsi ad un post “rognoso” di un paio di giorni fa) lo intitolerei così: “Una vita normale”.
Fatta di lavoro quotidiano, di ragionamenti attorno a cose da risolvere, di cose da pagare, di corse per prendere il treno, di libri letti nei ritagli di tempo, di “sabati del villaggio”, di domande (che aumentano all’aumentare dell’età) e di accettazione per lo stato in essere, di lotte, di arrabbiature, di tregue e di ricerca di un po’ di un pace…
Sembra che parlare di tutto questo sia scandaloso.
Sia proibito.
Sembra il nuovo tabù.

Confesso che anche io rifuggivo la normalità come la peste.
Ma erano altri tempi.
Erano tanti anni fa.
Anni nei quali ballavo sui tavoli fino alle 3.00 di notte, con 2-3 Cuba libre in corpo. E poi il mattino dopo mi alzavo e e andavo a lavorare, bevendo 5-6 caffè al giorno.
Senza batter ciglio.
(Se lo faccio ora, stramazzo…)

Oggi essere normali, “essere quotidiani”, sembra sia qualcosa di orribile. Da evitare a tutti i costi.
Perché?
Gli status che leggi sui social network sono tutti ad alta celebrazione di imprese epiche.
Perché?
Sembra che la normalità faccia paura.
Sembra che la normalità sia sinonimo di estinzione. (Quando ormai l’epicità collettiva sta creando un gigantesco rumore di fondo, che annulla qualsiasi singolarità.)

Che poi – per me – essere “normali” può anche voler dire essere se stessi, senza sovrastrutture.
Linearmente, essenzialmente.
Facendo quello si sa fare.
Essendo quello che si è.
Senza tanti orpelli.
Facendo semplicemente le cose.

Ebbene, ecco perché ho cambiato stamattina – scrivendo questo post – volevo cambiare il motto del blog in “Una Vita Normale“.
Un motto che sarebbe è decisamente più aderente al concetto di “blog personale” e a quello che cerco di comunicare qui: “una vita normale”, fatta di riflessioni e di esperienze vissute.
Ma per ora va bene così. Va bene “Non Solo Un Architetto”.
Perché, che mi piaccia o no, c’è bisogno di definizioni ed etichette. Costruite anche attraverso negazioni (ma questo è un altro discorso…).

“Io vivo nel futuro”, Nick Bilton

io-vivo-nel-futuro

“Perché il vostro mondo, il vostro lavoro e il vostro cervello stanno per essere creativamente distrutti.” [Sottotitolo del libro]

Sono inciampata per caso in questo libro, mentre cercavo testi su Twitter, sull’utilizzo ottimale dei blog, sul Personal Branding e sulla comprensione delle potenzialità del Web 2.0.

Navigando nel sito della Hoepli, dopo avere digitato la parola “Twitter” nel loro motore di ricerca interno, ho trovato anche questo libro e – spinta dalla curiosità (e dal suo sottotitolo, che trovo geniale)  –  l’ho acquistato nella libreria di via Hoepli a Milano.

Mi sono divertita e ho trovato anche conforto e conferme, leggendolo.

Il conforto l’ho trovato leggendo il divertente excursus che l’autore fa nella storia dell’uomo, attraverso le più importanti innovazioni tecnologiche: la nascita delle tecniche di stampa prima, del treno poi, della radio e della televisione successivamente. Tutte innovazioni tecnologiche che hanno generato puntualmente anatemi, strali, urla e stracciamenti di vesti di preoccupazione. Tutte indicate dai loro detrattori come causa della fine della civiltà, in una costante di corsi e ricorsi storici, pressoché ciclici.

Mi sono divertita (e si è risvegliato in me il bambino) a leggere i possibili (anzi ormai certi) sviluppi della tecnologia e del Web 2.0 come lo conosciamo oggi (mi sembrava di leggere un romanzo di fantascienza).

Mi sono anche un po’ preoccupata ed inquietata nel leggere gli sviluppi futuri che correranno sulla sottile linea di demarcazione che divide la libertà (e la condivisione assoluta), dal controllo ad opera di un Grande Fratello, sicuramente figurativamente diverso da come se lo immaginava George Orwell nel suo libro “1984”, ma già presente (basti pensare alle carte di credito, alle varie carte Fidaty, alla posta elettronica, ai Social Network, alle batterie dei cellulari che funzionano come transponder, ecc. ecc.).

Sono rimasta affascinata dalla futura possibile iper-personalizzazione della informazione, grazie alla immensa offerta e condivisione di informazioni ad opera di tutti che ci permette già oggi di scegliere ciò che a noi più si confà.

E ho trovato conferme (supportate anche da recenti articoli che ho letto) alla sensazione di cambiamento dei processi neurologici che avvengono nel cervello, grazie (o a causa di, a seconda di come la si voglia vedere) alla interazione con la rete: pensi più veloce, ti sposti più rapidamente da un argomento all’altro e diventi capace di gestire più cose contemporaneamente, in un apparente stato di distrazione continua. Una conferma a quanto avevo già percepito  e avevo espresso in un mio precedente post su questo blog (come 40enne neofita del web… quindi con tutte le difficoltà del caso di un rappresentante di una generazione che si trova a cavallo di questo cambiamento che viaggia ad una velocità esponenziale).

Ed un conferma ulteriore arrivata da una recente ricerca che afferma che “domani” (a me sta iniziando a succedere già oggi) useremo il cervello in modo diverso: non ricorderemo più i fatti, le nozioni, ecc., bensì ricorderemo dove andare a cercare le informazioni, gestendo il flusso di informazioni immenso in modo profondamente differente.

L’autore Nick Bilton, specialista del settore e giornalista del New York Times, descrive il tutto e racconta la storia dell’uomo (passata e futura) con piglio ironico (spassosa la sua indagine sul mondo del porno, decisamente fuori dagli schemi ma molto interessante) e con forza visionaria, spinto da una autentica passione.

Ci fa comprendere, con un linguaggio narrativo e quindi ancor più piacevole, che grazie al Web 2.0 siamo (saremo) tutti scrittori, fotografi, giornalisti, opinionisti e politici, in grado anche di generare cambiamenti di (possibile) ampia portata.

D’altronde:

Il battito d’ali di una farfalla è in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo.

[Foto in evidenza tratta dalla pagina About.me di Nick Bilton]