Gli argomenti “Ospedali – Medicina – Cura” e ancora di più “Sale Operatorie – Terapie Intensive”, vengono sempre trattati (e visti) con grande cautela.
Infatti se da un lato, se ne parla in termini giustamente tecnici e professionali da coloro che sono del settore, su canali specifici che raramente contemplano i social (comprensibilmente, aggiungo), dall’altro ho l’impressione che da parte di noi gente comune vengano tenuti a debita distanza.
Credo un po’ per ignoranza (a volte non ne conosciamo letteralmente l’esistenza), ma anche un po’ perché portatori di carichi emotivi importanti (può essere molto difficile “guardare ed aggirarsi” dentro ambienti ed argomenti simili).

E quando ti capita di venire in contatto con questi “ambienti limite” (e con le persone che operano al loro interno) due sono le strade che puoi prendere a “tempesta” finita: scappare il più velocemente possibile per cercare di dimenticare, oppure scendere in profondità.
Personalmente ho scelto la seconda perché sono fortemente convinta che capire e conoscere sia uno dei modi migliori per accettare, elaborare e metabolizzare (si ha paura e si fugge davanti a cose che non si conoscono e non si capiscono: guardarle in faccia e tentare di comprenderle aiuta a dare senso e a ridurne – gestendolo – l’impatto emotivo).

Così piano-piano ho iniziato ad esplorare anche l’altra faccia di questo mondo (non solo da un punto di vista progettuale – come mi è accaduto diverse volte nell’ambito della mia professione – ma anche da un punto di vista operativo prima e umano poi).
E aggirandomi in questo mondo (quasi) totalmente sconosciuto (mi ricordo che un pomeriggio, in un “momento personale straniante” in Terapia Intensiva, osservando i tre pazienti ricoverati in quel “box” e le attrezzature medicali che li circondavano, in un momento di quiete, ho pensato: “Sant’Iddio…, sembra Matrix… Questa è un’altra dimensione…”), ho incontrato il mondo della “Umanizzazione delle Cure” (di cui avevo già sentito parlare durante i colloqui coi medici) e della Medicina Narrativa, scoprendo recentemente anche i romanzi scritti da Marco Venturino (di cui scriverò nel prossimo post).
Ma non solo.
Si sa che spesso accade che quando ci inoltriamo in un sentiero con l’intento di esplorare, capita che iniziamo a trovare tante altre cose.

Non è da adesso che seguo portali divulgativi di scienza, medicina e tecnologia.
Ho una personale ossessione che nutro da anni: la progettazione per gli altri.
Ed essendo anche affascinata dalle possibilità del futuro, sono inevitabili le personali scorribande conoscitive nel mondo della tecnologia e della robotica (scrivendone qui sul blog, a più riprese).
E grazie a questa esplorazione e contaminazione di aree al limite del caos, ho scoperto (e seguo sempre con grande attenzione) il sito “La medicina in uno scatto” (date anche una occhiata alla sua pagina Facebook, sempre molto interessante) che non molto tempo fa ha pubblicato un post su un interessante profilo Instagram relativo ad un progetto fotografico: ScrubNurseArt.
Un esperimento inconsueto e – per alcuni scatti – un po’ forte (ma comunque sempre trattato elaborando/editando le immagini per dare loro una connotazione pittorica).

Un modo di condividere, comunicare e raccontare attraverso vari linguaggi ed espressioni artistiche (in questo caso la fotografia) la complessa realtà della Sala Operatoria.
E se qualcuno può avanzare qualche dubbio e/o perplessità, mi domando (e gli/le domando): quale è la differenza tra uno scatto di questo progetto ed un quadro Rembrandt?
Entrambe rappresentano un certo tipo di realtà.
Veicolano delle informazioni, documentano qualcosa e raccontano delle storie.
Forse la pittura è meno realistica della fotografia perché filtrata dall’occhio e dalla mano di chi osserva e riproduce graficamente.
Ma forse anche la distanza temporale gioca un ruolo fondamentale: Rembrandt e le sue opere sono “là in fondo”, perse in un tempo lontano che noi conosciamo solo attraverso tele, affreschi e disegni. Di cui nessuno di noi è stato testimone (per ovvie ragioni…)
(E ancora più “in fondo nel tempo” sono le tavole anatomiche di Leonardo da Vinci, per citare un altro protagonista che tanto ha maneggiato la materia.)


Forse le tecniche rappresentazionali e la distanza temporale collaborano a togliere forza emotiva. A noi che siamo qui oggi.
Ma anche le tecniche rappresentazionali sono veicoli di espressione che funzionano molto bene nel presente: per narrare, elaborare e divulgare.
Testimoniando e aprendo una finestra su altre realtà.