Un mese fa – a distanza di un anno – ho (ri)varcato la soglia della Terapia Intensiva del Blocco DEA.
E questa volta sono entrata con un cappello in testa diverso: visitatore ed ex-parente della paziente (mia mamma) che – un anno fa – ha soggiornato per tre settimane nel reparto.

In foto il pannello all’ingresso della Terapia Intensiva del Blocco DEA Niguarda
Rimetterci piede è stato un lungo lavoro, per me.
Un lavoro preoccupato della possibile reazione al mio ripercorrere quella strada e al conseguente risvegliarsi di “ricordi faticosi”.
Accompagnato – mentre attraversavo l’ospedale per raggiungere l’edificio – dal timore che emergesse una “bolla emotiva imponente” che mi mettesse in ginocchio e mi facesse fare dietrofront.
Sì, perché è vero che ho scritto sui social, condividendo il durante ed il dopo, ho parlato con amici e parenti (durante e dopo), ho vissuto momenti di quella paura mostruosa dell’inevitabile (una paura che ti terrorizza), ho scritto la testimonianza per i medici (dopo), ho alzato muri di silenzio (durante) rigettando qualsiasi aiuto percepito (da me) come interferenza,… insomma di tutto e di più…
Ma temi che la tua calma troppo logica e glaciale (a parte una certa tachicardia all’avvicinarsi all’edificio, a prendere l’ascensore e a fermarmi qualche secondo davanti alla porta chiusa della sala d’aspetto) possa nascondere una “bestia” ben acquattata nell’oscurità, pronta a stringerti in una morsa paralizzante…
Invece al varcare quella porta chiusa (“1, 2, 3… vai!… Apri la porta ed entra, cazzo!”, mi sono detta), entrando nella sala d’attesa (e vedendo le piccole ma fondamentali migliorie che fanno una enorme differenza in situazioni simili), sedermi qualche minuto ad osservare e respirare l’ambiente, essere poi accolta dalla Coordinatrice Infermieristica e – con molto tatto e gentile fermezza – accompagnata dentro il reparto, e sentire una stravagante calma (“Io devo avere qualcosa che non va…”, le ho detto condividendo le sensazioni di calma), è stata una esperienza interessante.
Forse ho guardato in faccia un mostro, scoprendo che è molto meno feroce di quanto mi figurassi nella mente.
E questo però non l’ho fatto da sola.
Chi (a vario titolo e ognuno come meglio ha potuto) mi ha dato una mano, ha dato tempo al tempo per far sì che accadesse al momento giusto.
(Restando in contatto in tutti questi mesi con alcune figure del reparto in una sorta di rapporto epistolare 2.0.)
“Fa che quel che sia accaduto non sia accaduto invano” è stato (ed è) un mantra che mi recito ogni santo giorno da un anno a questa parte.
Un mantra comunque valido per qualsiasi cosa.
Non solo per eventi “complessi”.
Ma anche importante per cogliere e apprezzare quello che la vita e la quotidianità ti porge (che ti piaccia o no).
Alla fine – tornando a casa al termine della giornata – mi sono ritrovata un po’ fiaccata. [Una (comprensibile) questione di emozioni.]
Ma ho continuano (e continuo) ad essere calma.

Chiudo questo post con due immagini.
La prima – qui sopra – è la foto alla lettera che mio padre inviò al Corriere della Sera: sentì l’esigenza di far conoscere l’eccellenza dell’operato di questo “manipolo” di persone.
Esigenza che fu colta e rilanciata dalla testata milanese.
La seconda – qui sotto – è tratta da un pdf scaricabile dal sito dell’Ospedale Niguarda, pagina dedicata alla Umanizzazione delle cure (progetto in corso all’interno del reparto).
Un pdf che offre una sguardo (apre una finestra) sui pensieri dei parenti dei pazienti ricoverati e fa conoscere i volti di questo reparto molto particolare.
Dateci una lettura.
E’ toccante, è emozionante ma è anche incoraggiante perché in un mondo dove sembra che tutto vada a scatafascio e ti devi destreggiare in un mare di informazioni disfattiste, ti rendi conto che ci sono persone che ogni santo giorno si alzano e vanno a combattere una battaglia per la vita e in onore della vita, nel rispetto dell’essere umano.
