Ho scritto un libro e ho imparato alcune cose

Alla fine, come avevo “annunciato” in un articolo di qualche tempo fa, ho scritto un libro.

Per la precisione ho scritto il libro (almeno per me).
Perché questo libro è come la chiusura di un cerchio, la fine di un percorso iniziato il 9 febbraio del 2018, che ha visto una catarsi il 28 marzo dello stesso anno, e i cui effetti sono proseguiti ancora per qualche tempo. In forma chiara, prima, in forma più intimista, dopo.

Il libro si intitola “Dare un senso alle cose” e narra di quello che mio padre e me abbiamo vissuto con mia madre dal (appunto) 9 febbraio al 28 marzo (la data in cui lei ci ha lasciato).

È la storia di un lutto, ma anche della successiva fase di elaborazione.
Ed è anche (e forse soprattutto) una storia di umanizzazione delle cure.
Perché è la storia di quello che abbiamo sperimentato “vivendo” per tre settimane in Terapia Intensiva, a fianco di mia madre.

Della vicenda ne avevo già narrato – in una sorta di diario online – sui social (durante la fase più intensa) per poi passare (quando tutto è finito) qui, sul blog, raccontando del dopo.

Oggi, dopo quasi quattro anni, ho preso tutto quel flusso di parole (alcune condivise solo con gli operatori del reparto) e l’ho organizzato in un libro, aggiungendo delle riflessioni a distanza di tempo. Chiedendo ad alcuni degli attori direttamente coinvolti nella vicenda, di scrivere qualcosa.
E così il diario, la storia, di quello che è accaduto si è arricchita delle testimonianze del Dott. Paolo Brioschi (Responsabile della Terapia Intensiva 1 dell’Ospedale Niguarda), della Coordinatrice Infermieristica Isabella Fontana e della psicologa D.ssa Barbara Lissoni (psicologa consulente della Terapia Intensiva).

Nel fare questa operazione di scrittura ho imparato un po’ di cose.
Molto pragmatiche.

Ho imparato (ho avuto conferma) che scrivere per i social (e anche per il blog) è una cosa, scrivere per un libro è tutta un’altra faccenda.
Infatti in prima battuta avevo semplicemente raccolto ed ordinato cronologicamente gli scritti, revisionandoli un po’.

All’atto però della rilettura, mi sono resa conto che alcune parti erano “impresentabili”. Ripetitive, scritte male, scoordinate… Tra loro non dialogavano.
Così ho rivisto, e riletto, più e più volte il testo fino a renderlo organizzato nella sua totalità.

E poi ho imparato che la versione cartacea di un libro non sempre può essere identica alla sua versione in eBook.
Soprattutto se al suo interno ci sono rimandi a fonti, accompagnate da link. (Tanto è stato il personale lavoro di documentazione durante la vicenda, per razionalizzare l’evolversi della situazione, e dopo, per aiutarmi a metabolizzare, ad elaborare.)

Vi è mai capitato di avere in mano una copia cartacea e trovarvi dentro dei link (anche piuttosto lunghi) a siti che – per ovvie ragioni – non vi è possibile cliccare e seguire?
A me sì.

E così – dopo avere caricato la versione digitale su Amazon (sì, ho usato KDP di Amazon autopubblicandomi, ma di questo ne parlo più avanti) – quasi pronta ad autorizzare la versione cartacea (dopo innumerevoli passaggi e controlli sulle bozze), mi sono fermata e ho riorganizzato le note in modo diverso: tolti i link alle fonti (semplicemente citate), si sono estese (diventando esplicative).

E ancora, ho imparato che le pagine bianche sulle copie cartacee (utili a mantenere un certo tipo di impaginazione), nella versione digitale non servono.

Ho imparato questo e molto altro durante il caricamento sulla piattaforma KDP (Kindle Direct Publishing) di Amazon.

Perché sì, ho scelto di autopubblicare.
Perché non avevo tempo per cercare una casa editrice (volevo che il libro uscisse secondo una tempistica precisa).
E (memore di un paio di esperienze che sicuramente non rappresentano l’intero universo editoriale, ma amareggiano assai) non volevo pagare una casa editrice per pubblicare il libro.

Anche perché – e questa è la cosa più importante – l’intero ricavato delle vendite va al progetto di “H for Human” di Wamba Onlus dedicato alla Umanizzazione delle cure in Terapia Intensiva.

Quella umanizzazione (quella umanità) che mio padre ed io abbiamo avuto modo di sperimentare direttamente e che molto ci ha aiutato in quei difficili giorni del 2018.
Che – pur nell’esito nefasto della storia – ha lasciato un buon ricordo delle persone che operano all’interno di quel reparto.

Un progetto (H for Human) importante che merita di essere supportato e ampliato, e di cui vi lascio qui il link per andare a conoscerlo: H FOR HUMAN.

Vi lascio il link al libro: Dare un senso alle cose.
Una piccola testimonianza di una vicenda molto intensa.
Una vicenda tra le tante che accadono in quel luogo.
Una vicenda che racconta di donne e uomini veramente straordinari.

Grazie a chi lo acquisterà, contribuendo al progetto.
Grazie a chi lo condividerà, contribuendo a far camminare questo libro e la storia che porta con sé.

Se mai provi, mai sai

Un mese fa – a distanza di un anno – ho (ri)varcato la soglia della Terapia Intensiva del Blocco DEA.
E questa volta sono entrata con un cappello in testa diverso: visitatore ed ex-parente della paziente (mia mamma) che – un anno fa – ha soggiornato per tre settimane nel reparto.


In foto il pannello all’ingresso della Terapia Intensiva del Blocco DEA Niguarda

Rimetterci piede è stato un lungo lavoro, per me.

Un lavoro preoccupato della possibile reazione al mio ripercorrere quella strada e al conseguente risvegliarsi di “ricordi faticosi”.
Accompagnato – mentre attraversavo l’ospedale per raggiungere l’edificio – dal timore che emergesse una “bolla emotiva imponente” che mi mettesse in ginocchio e mi facesse fare dietrofront.

Sì, perché è vero che ho scritto sui social, condividendo il durante ed il dopo, ho parlato con amici e parenti (durante e dopo), ho vissuto momenti di quella paura mostruosa dell’inevitabile (una paura che ti terrorizza), ho scritto la testimonianza per i medici (dopo), ho alzato muri di silenzio (durante) rigettando qualsiasi aiuto percepito (da me) come interferenza,… insomma di tutto e di più…

Ma temi che la tua calma troppo logica e glaciale (a parte una certa tachicardia all’avvicinarsi all’edificio, a prendere l’ascensore e a fermarmi qualche secondo davanti alla porta chiusa della sala d’aspetto) possa nascondere una “bestia” ben acquattata nell’oscurità, pronta a stringerti in una morsa paralizzante…

Invece al varcare quella porta chiusa (“1, 2, 3… vai!… Apri la porta ed entra, cazzo!”, mi sono detta), entrando nella sala d’attesa (e vedendo le piccole ma fondamentali migliorie che fanno una enorme differenza in situazioni simili), sedermi qualche minuto ad osservare e respirare l’ambiente, essere poi accolta dalla Coordinatrice Infermieristica e – con molto tatto e gentile fermezza – accompagnata dentro il reparto, e sentire una stravagante calma (“Io devo avere qualcosa che non va…”, le ho detto condividendo le sensazioni di calma), è stata una esperienza interessante.

Forse ho guardato in faccia un mostro, scoprendo che è molto meno feroce di quanto mi figurassi nella mente.

E questo però non l’ho fatto da sola.
Chi (a vario titolo e ognuno come meglio ha potuto) mi ha dato una mano, ha dato tempo al tempo per far sì che accadesse al momento giusto.
(Restando in contatto in tutti questi mesi con alcune figure del reparto in una sorta di rapporto epistolare 2.0.)

Fa che quel che sia accaduto non sia accaduto invano” è stato (ed è) un mantra che mi recito ogni santo giorno da un anno a questa parte.
Un mantra comunque valido per qualsiasi cosa.
Non solo per eventi “complessi”.
Ma anche importante per cogliere e apprezzare quello che la vita e la quotidianità ti porge (che ti piaccia o no).

Alla fine – tornando a casa al termine della giornata – mi sono ritrovata un po’ fiaccata. [Una (comprensibile) questione di emozioni.]
Ma ho continuano (e continuo) ad essere calma.

[11 aprile 2018] Nonostante sia andata come è andata, mio padre scrisse una lettera al Corriere della Sera per raccontare questa realtà.

Chiudo questo post con due immagini.
La prima – qui sopra – è la foto alla lettera che mio padre inviò al Corriere della Sera: sentì l’esigenza di far conoscere l’eccellenza dell’operato di questo “manipolo” di persone.
Esigenza che fu colta e rilanciata dalla testata milanese.

La seconda – qui sotto – è tratta da un pdf scaricabile dal sito dell’Ospedale Niguarda, pagina dedicata alla Umanizzazione delle cure (progetto in corso all’interno del reparto).
Un pdf che offre una sguardo (apre una finestra) sui pensieri dei parenti dei pazienti ricoverati e fa conoscere i volti di questo reparto molto particolare.

Dateci una lettura.
E’ toccante, è emozionante ma è anche incoraggiante perché in un mondo dove sembra che tutto vada a scatafascio e ti devi destreggiare in un mare di informazioni disfattiste, ti rendi conto che ci sono persone che ogni santo giorno si alzano e vanno a combattere una battaglia per la vita e in onore della vita, nel rispetto dell’essere umano.

Una pagina de “Il quaderno della Terapia Intensiva”

Ambienti intensivi [Video]

Recentemente ho tenuto un discorso al club Toastmasters di cui faccio parte.
Si è trattato di un speech costruito sulla traccia di uno dei manuali avanzati del percorso formativo, riguardante “discorsi tecnici” (Technical Presentation) rivolto in particolare ad un pubblico non tecnico (The nontechnical audience).

È stata l’occasione per condividere l’esperienza delle tre settimane in Terapia Intensiva in affiancamento a mia madre traducendo in parole non solo scritte (come fatto nei mesi scorsi) ma anche dette, quanto visto ed imparato.
Infatti il discorso verte sul funzionamento del reparto visto dagli occhi di un non-addetto ai lavori (non sono un medico), ma che ha avuto l’opportunità – in tempi non sospetti – di partecipare alla progettazione di alcune di questi spazi (all’interno di progetti di strutture sanitarie più ampie), cercando di fare buon uso anche delle informazioni fornite dallo stesso reparto ospitante mia madre. Incrociando così le informazioni per organizzare i pensieri.

Questo modo di approcciare l’esperienza è servito – ai tempi – per sopportare il carico emotivo molto elevato.
E il raccontarlo oggi (a distanza di mesi) ad un pubblico è stato un banco di prova per misurare l’intensità e la vividezza di quanto vissuto, ed il personale livello di “coinvolgimento emotivo”, pur trattandosi – volutamente – di un discorso puramente informativo.
[Durata: 17 minuti circa]

[L’immagine di copertina è tratta dal web]


Due libri importanti

Sono una strenua sostenitrice della lettura come mezzo per evadere, informarsi, conoscere e anche per trovare conforto e senso in momenti complessi.

E spesso i libri hanno segnato momenti importanti nella mia vita.
Due su tutti mi sono accaduti generando cambiamenti: il primo fu “Come ottenere il meglio da se stessi e dagli altri” (scritto da Anthony Robbins), il secondo fu “Shantaram” (di Gregory David Roberts, di cui possiedo anche il seguito – “L’ombra della montagna” – che però non ho ancora letto).
Il primo mi capitò per puro caso e diede inizio ad una nuova fase della mia vita, disegnando una via di uscita da una situazione professionale e personale altamente critica.
Il secondo capitò durante una estate un po’ così, durante la quale stavo trascorrendo le vacanze da sola: “Shantaram” fu un viaggio non solo nelle vicende del protagonista, ma anche all’interno della sottoscritta che leggeva la storia.

E ultimamente ho incontrato altri due altri libri molto importanti.

Importanti per il periodo nel quale sono capitati.
Importanti per il contenuto.

Curare sulla soglia della vita” l’ho incontrato nel momento in cui ho fatto una ricerca online sull’Hospice nella quale mia mamma sarebbe stata trasferita di lì a breve.

L’Hospice “Il Tulipano”: la struttura dell’Ospedale Niguarda che accoglie malati terminali (che hanno iniziato il “percorso di fine vita”, per citare la dottoressa palliativista con la quale approcciammo la fase) affetti da patologie degenerative di tutti i tipi (cardiache, neurologiche, tumorali…) incurabili.

Appena lessi del libro (di difficile reperimento, essendo stato scritto nel lontano 2009, e di non facile divulgazione), lo acquistai “al volo” su Amazon con l’intento di leggerlo in pochi giorni per prepararmi al trasferimento della mamma.
L’obiettivo era cercare di conoscere e capire di più di questa struttura, andando oltre le informazioni reperibili sul portale dell’Ospedale Niguarda e quelle avute durante i colloqui preparatori.

Chiaramente il costante, inesorabile e permanente riordino delle priorità di quei giorni resero impossibile leggerlo secondo i miei progetti.
E fu meglio così.
Perché se lo avessi letto prima, è molto probabile che avrei vissuto quella breve esperienza molto peggio di come l’ho vissuta in realtà.

L’ho comunque letto dopo.
A “vicenda” conclusa.
Ed è stato un viaggio letterario e conoscitivo molto interessante.

È la storia della nascita di questa struttura.
La storia del progetto e della sua messa in marcia.
Narrata attraverso la voce dei suoi protagonisti: il responsabile, la psicoterapeuta, il personale medico e gli infermieri.
Raccontando della nascita del team di lavoro, del processo personale e collettivo di costruzione della identità come singoli e come gruppo di lavoro.
È un viaggio intenso e istruttivo dentro una delle strutture forse più particolari all’interno di un percorso di cura: un luogo che rappresenta (per come la vedo io) una stazione, un’area di attesa, dove si attende di intraprendere un “nuovo viaggio”.

Non è un libro facile, lo riconosco.
Ma è un libro necessario. E importante.
Scomodo per certi aspetti, ma di grande interesse.

Il secondo testo (“Turno di parola“) invece l’ho incontrato attraverso un articolo condiviso qualche giorno fa via Facebook, non mi ricordo più da chi (purtroppo!): “Per fare i medici rianimatori in una Terapia Intensiva pediatrica ogni tanto bisogna urlare“.

Un piccolo libro di una intensità e delicatezza incredibili.
Un piccolo libro costruito dalle voci narranti dei rianimatori della Terapia Intensiva Pediatrica De Marchi, moderati da una psicologa di supporto.

Voci narranti che giorno-dopo-giorno raccontano (nell’arco di una settimana tipo) sensazioni, pensieri, esperienze, storie piccole e grandi, vittorie e sconfitte.

Un libro che ti entra sotto pelle e ti porta con sé dentro un reparto che già di per sé è un ambiente di confine (dove tutto sembra muoversi e svolgersi in un tempo al di fuori del normale tempo che viviamo nella quotidianità), ma che in questo caso è ancora più “limite” perché i pazienti sono speciali: sono bambini.
Una situazione (quella dei bambini in Terapia Intensiva) che non pensi possa (e debba) esistere.

Ed è stato inevitabile per me ripensare ai rianimatori (e al personale) che ho incontrato nella Terapia Intensiva del Blocco DEA Niguarda.
Nonostante la situazione, non sono state poche le volte che – osservandoli – mi sono domandata come si possa lavorare in un ambiente simile e cosa spinge una persona a fare un lavoro così intenso.

La stessa domanda che mi sono fatta osservando (per pochi giorni) i medici e gli infermieri che lavorano in Hospice: situazione diversa rispetto alla turbolenza di una Terapia Intensiva, ma comunque altrettanto emotivamente e psicologicamente intensa.

Ecco perché considero questi due libri così importanti.
Due testimonianze che dovrebbero avere – a mio avviso – una maggiore divulgazione.
Per aiutare a capire e per gettare uno sguardo controllato e filtrato (grazie alle pagine scritte) in realtà che difficilmente accettiamo e concepiamo.

Una ulteriore conferma (se mai ce ne fosse bisogno) che i libri sono un insostituibile veicolo di conoscenza e di crescita.
Dove la conoscenza – ed il sapere – sono un grande supporto utile alla comprensione (e accettazione) di eventi, vicende e situazioni che altrimenti potrebbero essere difficili da capire.

Della delega e della fiducia

checklist-byRawpixel_PixabayAccettare di “delegare a” qualcuno qualcosa è un problema con il quale sovente mi confronto.
E con il quale si confrontano alcuni amici con i quali spesso ragioniamo sul tema, tentando (ora io, ora gli altri) di digerire (e fare digerire) il concetto e quello che esso porta con sé.
Infatti credo che alla base di questa difficoltà di “mollare l’osso” ce ne sia un’altra ancora più robusta, “propedeutica a”: l’avere fiducia (nel prossimo).

E l’impossibilità di controllare la situazione, e l’oggettivo impedimento a prendere decisioni a 360°, è una delle cose più complicate da accettare in una situazione limite: essere il parente di un paziente ricoverato in Terapia Intensiva.
Una situazione completamente sbilanciata, dove la tua “ampiezza di manovra” e di “esercizio del potere e del controllo” è ridotta pressoché a zero.

Dove chi ha le capacità operative, razionali, tecniche e conoscitive non sei tu.
[E dove se riesci ad accettare una situazione simile, la delega (in senso lato) – dopo – sembrerà una passeggiata.]doctor-563428_1280Una delle affermazioni che mi sono rimaste impresse durante i tanti colloqui (che erano quasi dei dialoghi) avuti con i medici del reparto è stata questa:

“Non siete in condizioni di decidere. Siamo noi a decidere per voi, condividendo le scelte.”

Una affermazione che può apparire linguisticamente dura, ma che è una grande verità (per come la vedo io e per come l’ho vissuta).

Perché?
Perché non hai le capacità tecniche (e anche se ce le avessi è bene restare in ascolto, condividendo pensieri e perplessità senza soverchiare l’interlocutore, rispettando il suo spazio operativo).
Perché non hai la lucidità di pensiero: le emozioni che vivi sono talmente forti, che è bene che tu ti impegni a restare aggrappato alla lucidità utile per gestire le emozioni stesse, anziché utilizzarla per prendere decisioni per l’altro.

Devi quindi “delegare nella tua testa” (perché operativamente è già così, che ti piaccia o meno): ossia devi accettare la situazione e fare un gigantesco atto di fede.

doctor-3464761_1280Devi accettare una suddivisione di compiti e – se il reparto ed il personale te lo consente (e noi abbiamo avuto questa possibilità) – lasciare che chi è del mestiere maneggi la materia e si occupi dell’aspetto tecnico e di cura, accettando dal canto tuo la delega che ti viene data di occuparti dell’aspetto empatico ed emotivo di chi giace nel letto (anche se in stato di sedazione).
Una delega – quest’ultima – non meno importante e intensa che solo tu puoi fare, e che non è affatto semplice prendere in carico (tendendo a fuggire dalla pressione emotiva in situazioni simili).

Poi, nel nostro caso, abbiamo avuto la fortuna (nel disastro della situazione) di vedere mescolarsi alcuni compiti: l’umanità del personale di quella Terapia Intensiva che abbiamo frequentato per tre settimane (oserei dire “che ci ha accolto”) è stata quel tassello importante che ha mostrato la differenza nel concetto di Prendersi Cura, inteso come: “Interessamento solerte e premuroso per un oggetto, che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività – Oggetto costante (costituito da persone o cose) dei proprî pensieri, delle proprie attenzioni, del proprio attaccamento” (fonte Treccani).

[Immagini tratte da http://www.pixabay.com]

Di linguistica e di parole

Non so se vi è mai capitato di prestare attenzione alle parole che dite, che pensate e che usate durante le conversazioni.
So che sembra una considerazione stravagante, ma è una mia personale fissa che inseguo e perseguo da diverso tempo.

Questa mia “sensibilità” (chiamiamola così) deriva da dei corsi che ho fatto in passato, nei quali mi hanno insegnato ad essere un po’ più consapevole del linguaggio usato sia verso l’esterno (raccontando e interloquendo con qualcuno), sia verso l’interno (raccontandosela).
Imparando che le parole che diciamo – e ci diciamo – disegnano la nostra realtà e quello che gli altri percepiscono di noi.

E nel corso di questi anni ho avuto modo di osservarlo anche in altre persone, ascoltando con attenzione quello che dicono.
Riconoscendo alcune parole chiave che vengono utilizzate e osservando del loro effetto in chi ascolta.
Accorgendomi di termini ricorrenti utilizzati che – in accezioni negative – diventano dei veri e propri bachi nella percezione della realtà.

E recentemente – nei tanti colloqui avuti coi medici – mi sono accorta ancora di più di quanta importanza stessi dando al linguaggio usato.

Da me e dagli altri.

Per esempio mi sono resa conto che alcuni verbi tendevo a coniugarli al presente a scongiurare (metaforicamente parlando) e a rifuggire l’ipotesi di scenari negativi.

In una situazione specifica, dovendo fare una domanda che poteva urtare la sfera professionale dei medici (che stavano facendo l’impossibile) – e non riuscendo a calibrare la persona che avevo davanti (che in altre occasioni, devo avere involontariamente urtato inciampando in parole sensibili) – mi sono dovuta “attrezzare” con una premessa (“La prego di prendere la domanda che sto per farle con le dovute pinze, perché non sono in grado di trovare termini migliori di questi per fargliela…”).

Altre parole urtavano – inaspettatamente e pesantemente – il mio stato mentale e psichico: paradossalmente parole come “abbraccio”, “carezza”, “amore” non volevo sentirle pronunciare (ma non ho mai avuto il coraggio di dirlo, semplicemente quando accadeva smettevo di ascoltare).
“Come mai?”, si chiederà qualcuno.
Perché – per gestire il peso emotivo – mi sforzavo di spostare la lettura della realtà tutta dal lato scienza e battaglia (per la vita). Due interpretazioni che mi tornavano più utili per mantenere un po’ di energia e di lucidità.

La parola “morte” non l’ho mai pronunciata.
Neanche mentalmente.
Forse oggi – qui – mentre scrivo, è la prima volta che lo faccio.
Perché?
Perché – presumo – la ristrutturazione linguistica  aveva raggiunto livelli estremi.
Ed il tentativo di governare lo stato di alterazione emotiva passava anche attraverso questa personale modalità (edulcorando più o meno  la lettura della situazione, o rendendola il più possibile asettica).

E la reazione (solamente interiore) davanti al linguaggio usato dai medici (differente da medico a medico) poteva tenermi calma, mandarmi in bestia, darmi speranza oppure tenermi in uno stato di fredda neutralità (quasi di “galleggiamento”).
Pur dicendo tutti la stessa cosa.

Le parole usate hanno una importanza notevole. Si sa.

E quello che dici ha una ricaduta in chi ti ascolta. Inducendogli non solo la lettura della realtà, ma anche la lettura e l’opinione che si fa di te.

Credo quindi che la scelta delle parole da usare sia una operazione molto delicata.
Quasi etica in situazioni ad alta sensibilità.
Una scelta che necessita di una operazione preventiva di calibrazione dell’altro molto accurata.

Un lavoro che – nello specifico della mia personale esperienza – non può essere fatto solo dal personale medico (che ha ben altre comprensibili priorità), ma che potrebbe essere fatto da specifici “facilitatori” fortemente orientati all’ascolto e all’osservazione di chi ti siede davanti. Capaci di fare da mediatori (e traduttori) nel dialogo tra medici e parenti dei pazienti (ma anche pazienti).

 

[Immagini tratte da Pexels]

Tre cose che ho imparato in Terapia Intensiva

esperienze

“Quello che non mi uccide, mi fortifica.”, Friedrich Nietzsche

Qualche giorno fa – scorrendo la timeline di LinkedIn – ho letto un post che menzionava un TED Talk che affrontava la questione su come acquisire nuove abitudini. Il Talk serviva per affrontare l’argomento di gestione del “business social network”, e sottolineava di come la pazienza e la perseveranza siano strategiche per acquisire e metabolizzare nuove routine.

Inaspettatamente (ma forse neanche poi così tanto, visto che il cervello continua a lavorare in background sul suo vissuto, come un vero e proprio sistema operativo, elaborando quanto acquisisce attraverso i sensi) mi sono trovata a riflettere ancora una volta sulla recente esperienza di “affiancamento” di mia madre nella sua degenza di tre settimane in Terapia Intensiva.

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Immagine tratta dal sito http://www.intensiva.it – pagina “Capire l’unità di cura”

Questa volta però cercando di rispondere ad una domanda che mi pongo spesso al termine di una qualsiasi vicenda vissuta (qualunque essa sia): “Cosa mi porto a casa?“.
In particolare – oggi – mi chiedo: “Che cosa ho imparato (da questo episodio)?”
Cosa ho acquisito che mi può tornare “utile” nella quotidianità?

Tutto ciò fatto salvo la dissertazione attorno al tempo e al riordino delle priorità di cui ho già scritto nei precedenti post dedicati.
(E mentre scrivo stanno emergendo altre riflessioni; in particolare sulla linguistica, sull’uso di termini specifici e su parole chiave che possono incidere in modo molto diverso in chi ascolta e nella sua percezione della realtà. Ma su questo scriverò più avanti.)

La-pazienza-667x468-1236x867Ebbene, ho imparato cosa sono la calma e la pazienza.
Nella loro accezione più forte.

Pazienza che devi avere nell’avanzare giorno per giorno, aspettando senza aspettative. Una condizione che – per essere sostenuta – deve essere supportata dalla calma. Quella calma che ho modellato osservando medici ed infermieri del reparto. Che – sì, certamente – non hanno lo stesso livello di legame affettivo che hai tu con la persona che giace nel letto, ma che nel loro comportamento possono fornirti indicazioni utili su quali sono le caratteristiche che le compongono.

tenaciaHo imparato cos’è la costanza (e la sua associata: la tenacia).
Avanzare con costanza giorno per giorno.
Cercando di mantenersi stabili e solidi.

Tenendo lo sguardo il più possibile davanti a sé, diritto.
Senza però avere (e alimentare) un focus sulla lunga scadenza (che potrebbe serbare delusioni dure da digerire).

Osservando – e trovandocisi immersi – in un metaforico campo di battaglia emotivo.

resilienza-1080x650Ed infine ho imparato cos’è la resilienza.
Che accorpa ed ingloba le precedenti pazienza (calma) e costanza (tenacia).

Una tipologia di resilienza molto avanzata e molto lontana dalla resilienza sportiva, fisica, manageriale e delle organizzazioni di cui si legge.
Una tipologia di resilienza che riguarda la tenuta mentale ed emotiva e che – come tale – incide profondamente sul fisico. Che – a sua volta – in un processo circolare deve sostenere la mente (e per farlo necessita di cure e sostegno suppletivi).

Calma, costanza e resilienza.
Due (calma e costanza) che generano, sviluppano e alimentano la terza (resilienza).
E che tutte e tre insieme creano una struttura (abbastanza) solida per fronteggiare situazioni inaspettate (e non) che la vita ti mette sul percorso.

[Immagini tratte dal web]

Di code lunghe ed elaborazioni

Circa un mese pubblicavo il post dedicato ad un “nuovo inizio” pensando – tra me e me – cosa poteva significare non solo in termini di vita quotidiana e di affetti, ma anche in termini di attività.

Nel frattempo ho anche indagato (e continuo ad indagare) sui processi di elaborazione di eventi importanti, osservandomi nei pensieri e nei comportamenti, in una sorta di laboratorio permanente.

E mi sto facendo delle considerazioni.

La prima riguarda il tempo.
La sua percezione e la sua durata (o permanenza).

Tempo
Immagine tratta da Google

Della sua percezione distorta durante l’accadere dell’evento ne ho già scritto nel pdf che ho pubblicato nel precedente post (scaricabile anche qui).

Ma l’inaspettato è che questa percezione modificata permane e si è evoluta: mi sembra di avere più tempo.
Una considerazione che di primo acchito sembra una anomalia, ma che forse assume un senso se osservo cosa l’evento ha fatto (e continua a fare sulla distanza) sulla quotidianità: il riordino delle priorità.

“Cosa ha veramente importanza per te?”, mi sono chiesta più volte durante l’esperienza, avanzando mano a mano in una pulizia implacabile di “cose” senza nessuna remora.
Un po’ per costrizione ed un po’ per prese di coscienza successive.

Una pulizia che continua ancora oggi.

Decidere
Immagine tratta da Gratisography

E qui arrivo a quello che ho definito in modo forse improprio “durata” (o – sempre in modo altrettanto improprio – “permanenza”).

Alcuni studi affermano che se si vogliono acquisire nuove abitudini, bisogna forzare gesti e comportamenti (“funzionali a”) per tre settimane affinché si acquisiscano nuovi automatismi.
Bene, credo che questa dinamica si possa applicare anche al vivere (non volontariamente) determinate esperienze per un certo intervallo di tempo.
Se poi queste esperienze hanno anche un impatto emotivo, la modifica di certe dinamiche di pensiero e comportamentali è più importante.
Operando una sorta di riprogrammazione del nostro sistema operativo (parafrasando), contribuendo – nello specifico – alla costante creazione di ampi spazi di recupero del tempo.

cambiare
Immagine tratta da http://www.pilotfire.com

Ma non solo.
Il tempo sta incidendo anche nel processo di elaborazione e nelle “code lunghe”.
Variabili con le quali sto facendo i conti adesso.

Quando ho letto che i tempi di elaborazione di un lutto possono durare anche due anni, ho sbarrato gli occhi.
“Due anni!!??”, mi sono detta basita.
“Non esiste proprio!”, ho continuato.
Mi sono anche detta che forse la parte più “aggressiva” della elaborazione l’ho già attraversata in quelle tre settimane che hanno modificato tutto l’intorno e la sua percezione.
(Attualmente mi trovo in uno stravagante stato di “galleggiamento emotivo” che non riesco a capire dove mi stia portando.)

Bansky Balloon Girl
Balloon Girl ©Bansky – 2002

Mentre oggi sto sperimentando le “code lunghe” di sentimenti più silenti ma non meno intensi (la sensazione della mancanza, per esempio) e le somatizzazioni (il fisico si sta facendo sentire con manifestazioni di allergie, nevralgie varie e cali energetici).

Ma la personale reazione – il “dare un senso alle cose” – può essere un buon veicolo per elaborare la perdita in modo costruttivo, affinché nulla vada perso e nulla sia stato vano.
E si possa costruire qualcosa di nuovo con quello che si è ereditato.

Un nuovo inizio

UnNuovoInizio

Ritorno a scrivere su questo blog dopo un periodo di assenza un po’ lungo (quasi tre mesi), dovuto a vicende che hanno colpito la mia famiglia: un lutto inaspettato.
E ancor più inaspettato per la velocità di progressione della causa e – forse ancora di più – per il suo inizio apparentemente innocuo.

Chiaramente eventi simili, quando arrivano, hanno la capacità di resettare pesantemente vita ed abitudini.

A seconda di come decidi di viverli sono in grado di farti fermare e farti ripensare ad una serie di priorità che avevi in mente e che d’improvviso vengono spazzate via o capovolte nella loro elencazione.

Ed è quello che successo a me (e credo anche a mio papà).

Quello che mi sto portando a casa come insegnamento da questa esperienza, è un consolidamento di alcuni valori su cui primeggia uno per tutti: aiutare (progettare per) gli altri.

Un “valore ossessione” di cui ho già scritto in passato (che ho sempre sentito molto mio e di cui presi consapevolezza qualche anno fa) e che oggi – dopo questa tempesta durata un paio di mesi – ha acquistato ancora più forza e importanza.
Un “valore ossessione” che sta diventando IL valore ossessione per antonomasia. E che mi sta spingendo a cercare il come renderlo (e strutturarlo) il fondamento di quello che sto facendo oggi e di quello che farò in futuro.

Progettare per gli altri
Assemblare i pezzi in modo diverso per percorrere strade diverse

Nel frattempo – nel processo di elaborazione della esperienza – ho condiviso impressioni e riflessioni e sentimenti e vicende, durante il percorso.

Ed oggi, dopo averne condiviso alcuni brani con specifici interlocutori, ho deciso di assemblare tutti i contenuti in un pdf che ho caricato in Google Drive, rendendolo disponibile a tutti per il download.

DARE UN SENSO ALLE COSE

Un modo per fissare i ricordi, mettere in fila gli eventi e preservare i contenuti dall’oblio delle timeline dei social.

Buona lettura, per chi leggerà il pdf, e a presto con nuovi post…

[Immagini tratte dal sito gratisography.com]