Di elezioni americane e bisogni

© Tgcom 24 – Mediaset

Questo è un post scritto da una persona comune, che non fa l’analista e che fatica a capire di politica (tanto più di quella americana), ma che cerca di mettere in fila un po’ di considerazioni per dare una spiegazione (forse più a se stessa che agli altri) della vittoria di Donald Trump (che — tra parentesi — non mi meraviglia poi così tanto).

Partirei subito da un assunto apparentemente scontato e banale, ma che credo generi un effetto domino anche di tipo circolare:

Il mondo sta cambiando. Pesantemente. Sotto tutti i punti di vista: politici, di lavoro e – di conseguenza – anche sociali.

Cosa vuol dire questo?

Che davanti a nuovi equilibri politici, davanti ad una rivoluzione industriale 4.0 che comporta anche una pesantissima riconfigurazione della società in cui viviamo, scatta la paura da incognita.

E la reazione davanti alla paura è paralisi o fuga. Si oppone resistenza cercando di mantenere lo status quo. Oppure ci si sente attaccati e si risponde fuggendo o attaccando a nostra volta. E questa è la prima considerazione.

La seconda è:

L’America è un Paese molto grande.

Noi – al di qua dell’oceano – spesso pensiamo che l’America sia le grandi metropoli (una su tutte New York), la loro multiculturalità ed internazionalità. Che pensiamo estesa e spalmata al di là dei loro confini metropolitani.

© Marriott

Ma non è così (ormai dovremmo saperlo).

L’America è solo in minima parte fatta di grandi metropoli.

Il resto sono paesaggi sconfinati, popolati di piccoli paesi o piccole città, che vivono di ben altra quotidianità.

© Xplore America

Dove vivono persone che appartengono anche a categorie che – dispregiativamente – vengono definite redneck («colli rossi» ad indicare la nuca bruciata dal sole durante il lavoro nei campi).

Willie Robertson – © Daily Jstor

Dove ciò che accade al di fuori della propria cittadina è vista come qualcosa di molto lontano.

E proprio a tale proposito suggerisco di guardare il film documentario di Michael Moore «Bowling for Columbine» che mostra cosa è veramente l’America, di cosa parlano le televisioni (non sono tutte come la CNN), cosa pensa la gente comune, cosa è la quotidianità.

Tra parentesi Michael Moore ha proprio dichiarato qualche tempo fa che (secondo lui) Donald Trump avrebbe vinto le elezioni: 5 motivi per cui Donald Trump vincerà (a questo link l’articolo originale comparso su Huffington Post america)

Michael Moore – © Showbiz411

L’America è fatta anche di tradizioni conservatrici che possono piacere o meno. Che possiamo condividere o meno.

© Corriere della Sera

Stamattina scrivevo a caldo su Facebook:

Non voglio esprimere nessun giudizio su quanto sta accadendo in queste ore in America.
Posso solo dire che non me lo aspettavo.
Ma forse anche sì.
Perché queste sorprese sono tipiche di alcune dinamiche (se verranno confermate).
E rappresentano come ragiona la stragrande maggioranza delle persone (che — nella fattispecie — non vive in città rappresentative del nostro immaginario “al di qua dell’oceano”).
Certi personaggi (anche nostrani), con le loro idee, rappresentano e danno voce ai bisogni più nascosti.
Se osservati con calma e distacco — questi personaggi — dicono molto dell’epoca strana che stiamo vivendo.
Staremo a vedere.

Ergo il risultato non mi meraviglia più di tanto.

Donald Trump rappresenta quello che tanti vorrebbero essere (anche chi non lo ammetterebbe mai):

  • imprenditore che si è risollevato molte volte nonostante alterne vicende
  • indicato spesso (anche da noi, non dimentichiamocelo) come modello di determinazione (nel bene e nel male)
  • scrittore di libri di successo (ho letto il suo “Pensa in grande e manda tutti al diavolo” e si tratta di un libro ad alto tasso di motivazione, nel bene e nel male)
  • conferenziere di successo.

Ora primo Presidente americano ad essere stato eletto pur non avendo alcuna esperienza politica e militare.

Questo è indicativo — secondo me — di due/tre cose:

  1. c’è bisogno di pragmatismo e di concretezza
  2. i sogni e le vision ad ampio respiro non bastano più
  3. il divario tra politica e “quotidianità” è molto più profondo di quanto ci si aspetti.

Ecco, credo che un po’ tutto questo (e forse anche altro che non individuo ancora), sia alla base dell’inaspettato (ma forse neanche poi tanto) successo di Donald Trump.

Chiudo con una frase scritta questa mattina da un contatto su Facebook e che condivido:

Quando nella vita si perde o si sbaglia è necessario capire le ragioni della propria sconfitta e non serve criticare chi vince. Anzi, criticare chi vince nasconde le ragioni della nostra sconfitta. [cit.]

Credo sia necessario un bell’esame di coscienza ed un maggiore ascolto ad intercettare i bisogni di chi abbiamo davanti.

Se non lo vivo, non lo capisco

troppo-studio

In questi giorni ho ricominciato a “liberarmi” di un po’ di libri.
Di manuali di gestione, di comunicazione, di crescita personale, …
Libri che magari acquisti in determinati momenti della tua vita, durante i quali sei alla ricerca di nuovi strumenti per capire, per comprendere, per imparare.
E che oggi – passati quei momenti – ti rendi conto non hanno più nulla da dirti. Restando solo come presenze coi quali condividi lo spazio.

Attenzione, non sto dicendo che non sono testi validi. Tutt’altro!
Sono testi che hanno fatto la storia di alcune discipline e alcuni di loro sono diventati dei classici.
Solo che con me hanno fatto il loro tempo.

E stamattina, non so per quale strana ragione, mi è tornato in mente un libricino di cui ho già parlato in precedenti post, che – se di primo acchito mi aveva lasciato un po’ perplessa – oggi continua (silenziosamente e subdolamente) a lavorarmi ai fianchi su alcuni concetti che colsi durante la sua lettura.
Un paio di esempi (di concetti)? Prossimità e semplicità delle cose.
(E di “prossimità” ho scritto qualche settimana fa in questo post: Stanzialità e prossimità.)

Il libricino si intitola “Quando siete felici, fateci caso” (di Kurt Vonnegut).

Kurt Jr. Vonnegut
Author Kurt Vonnegut Jr., wearing khakis, sitting in front of his typewriter in studio-like room. (Photo by Gil Friedberg/Pix Inc./Time Life Pictures/Getty Images)

E da questo inaspettato flash mattutino, è emerso un secondo ricordo più antico: l’esame di Fisica Tecnica e Impianti all’Università.
Esame che ho rifatto cinque (sì… 5…) volte per poi passarlo esausta con un 20.
(Era quasi più mortificato il docente della sottoscritta: avevo frequentato tutto il corso, sempre in prima fila a prendere appunti, studiato il suo libro fino a distruggerlo dalle tante sottolineature… e questo era il risultato… “Non ce la faccio a fare più di così…”, dissi al docente distrutta e sconsolata, arrendendomi all’evidenza… [Le quattro volte precedenti non avevo neanche superato la prova scritta, tanto per dire…])

Non c’era niente che potessi fare di più.
Quella materia non mi entrava in testa.
Nonostante le pazienti ripetizioni estive con un cugino laureato in Fisica e docente alla facoltà di Fisica di Napoli: due/tre volte alla settimana, di mattina – durante un agosto di tanti anni fa – con mio zio (insegnante di Matematica) che passava a prendermi e andavamo in campagna (dove soggiornava mio cugino per l’estate) e facevamo un’ora di ripetizioni di Fisica. Che proseguivano con lunghi e solitari pomeriggi di studio.

Mi ricordo che mentre cercavo di farmi entrare in testa il concetto di Entropia, nel mezzo di una delle tante crisi di incomprensione per la materia, avevo detto: “Se non riesco a capire concretamente il concetto non riesco a ricordarlo…!”
Lui (il cugino) rispose rassegnato: “Purtroppo alcune cose le devi ricordare così come sono. Senza alcuna spiegazione concreta.”

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La formula della Entropia (Fonte Treccani)

Ecco, probabilmente questo è un mio “baco cognitivo alla San Tommaso”: se non lo vivo, non lo capisco.
(Un “vivo” che può essere anche declinato in “vedo”)

E questo mi fa tornare alla questione dei libri (di cui ho già ampiamente scritto in vari post a più riprese).
Le tecniche, le strategie, su di me hanno una presa limitata (nella comprensione e nel tempo).
Affinché si installino nel retrocranio (o nel DNA, come preferite), devo vederle in storie e/o viverle con esperienze.

E questa considerazione mi fa sorgere una ulteriore domanda:
Sono nate prima le esperienze o le strategie?

(Una domanda che è anche l’origine delle personali crisi d’ansia da manuali… “se non leggo manuali, non imparo cose nuove”…)

[Immagine di copertina tratta dal sito http://www.medioera.it]

Stanzialità e prossimità

 

Una Yurta Mongola [Fonte Wikipedia]

Ieri mattina mi sono ritrovata a fare delle riflessioni dopo che mi ero svegliata con una scelta precisa da compiere.

Si trattava di una considerazione che coinvolgeva (e coinvolge) l’anno che mi si prospetta davanti e che – per una attività volontaria che sto svolgendo – comporta numerosi spostamenti.
E che necessita quindi di una programmazione attenta ed una ottimizzazione delle attività altrettanto accurata.

Non è arrivata come un “fulmine a ciel sereno”.
Tutt’altro: è stata ruminata ed è maturata nel corso di giorni precedenti durante i quali – per una strana casualità – avevo anche incrociato un articolo che aveva catturato il mio interesse:

I lati positivi di non cambiare mai città.

E che forse ha contribuito in qualche misura – ed in modo indiretto – al ragionamento in corso.
Facendomi anche riandare alla memoria ad un altro articolo, apparentemente diverso per argomento, ma nel quale ho “sentito” (intuito) più che visto, un legame con il precedente:

I nuovi viaggiatori che non prendono l’aereo.

Il processo di associazione di idee non si è fermato qui, bensì è proseguito, riandando ad un libro che ho letto lo scorso Natale: “Quando siete felici fateci caso”.
Una raccolta di discorsi che Kurt Vonnegut ha tenuto in diverse scuole ed università americane.
Leggendolo talvolta avevo l’impressione che il relatore si trovasse in un curioso stato dissociato (alcune affermazioni mi risultavano un po’ sconclusionate), ma un filo logico, quasi un mantra, che tornava spesso nel libro è “la prossimità”.
Intesa come comunità di appartenenza, chilometricamente vicina, con cui interagire e presso cui portare il proprio contributo.

 

Foto natalizia del libro (scattata durante la sua lettura)

Ed è stato proprio durante questa curiosa ed inaspettata associazione di idee che mi sono domandata se e quanto vale la pena sgomitare e annaspare per andare, fare, brigare con il rischio che il tutto diventi compulsivo a soddisfacimento del “must do” (ricadendo quindi anche nei ragionamenti che mi stavo facendo sulla scelta da prendere).

E in un’era dove sembra che se non sei internazionale, se non presenzi e se non fai networking in maniera percussiva, in un’era dove la vaporizzazione di confini virtuali data dai social network (che hanno annullato distanze fisiche e temporali) sta travasando anche nello spazio fisico, forse si iniziano a cogliere i primi cenni di una inversione di tendenza (o comunque un ridimensionamento).
Di un ritorno ai luoghi a noi prossimi e alla comunità fisica (che raramente collima con quella virtuale).

O forse è solo una personale percezione e altrettanto personale ricerca di equilibrio.
Per non farsi sopraffare da obblighi imposti da altri che – se non sono in risonanza con te – rischiano di diventare fonte di frustrazione.

E a proposito di prossimità e comunità, chiudo con questo “talk” di TEDx Lake Como dell’anno scorso, che narra di una bella iniziativa:

[Foto di copertina: ©Aldo Mingozzi “Villaggio di campagna”, olio su tela – http://aldomingozzi.com/]

Ridurre

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Sarà che un contatto di Facebook ha scritto che ha fatto un viaggio in Giappone di circa tre settimane con solo il bagaglio a mano.
Sarà che attraverso lo stesso contatto ho letto il libro “Solo bagaglio a mano” (interessante) e una amica mi ha regalato il libro di Marie Kondo “Il magico potere del riordino” (di prossima lettura).

Fatto sta che stamattina pensavo al valigiotto nero che ho preparato per la trasferta di questo weekend (partenza oggi pomeriggio, rientro domenica pomeriggio).

BagaglioAMano_BarbaraOlivieri

Valigiotto che sarà bagaglio a mano e che spero non mi facciano imbarcare nella stiva dell’aereo che prenderò.
(Non dovrebbero… Ho fatto tutte le verifiche possibili ed esistenti: dimensioni, peso, imballaggio dei liquidi…)

E stavo pensando a quante masserizie ho e quante me ne porto via ogni volta che mi muovo.

Questa estate me ne sono accorta in modo particolare: ho utilizzato il 70% degli abiti che mi sono portata via.
(E va già meglio rispetto a qualche anno fa, quando utilizzavo il 40% di quello che mettevo in valigia. Ai tempi non c’era consapevolezza dell’ingombro, c’era attenzione all’esibire.)

Bagagliaio_Viaggiare_BarbaraOlivieri
Il bagagliaio della nostra auto (non si vede bene ma è coinvolto anche il sedile posteriore a sinistra). Quante persone? Tre…

Quindi posso dire che sulla “questione abiti” sto migliorando.
Mentre sulla “questione accessori” no.
E per accessori intendo libri, cosmetici, oggetti vari. (Con l’aggiunta negli ultimi tempi degli oggetti elettronici, che dovrebbero sostituire oggetti ma che attualmente – per me – sono ancora un di più.)

PostazioneLavoroMobile_BarbaraOlivieri
Quest’estate ho lavorato un po’ su alcune cose e mi sono attrezzata con una piccola postazione mobile che sogno sempre diventi LA postazione di lavoro per antonomasia.

Ed è da tempo che penso a come eliminare definitivamente il PC per restare con iPhone e iPad (la strada è ancora lunga per me, essendo in fase di implementazione di YouTube e video che – per le mie competenze in materia – necessitano di editazioni da PC.)

Libri_CartaceoDigitale_BarbaraOlivieri
Questione di ingombri e pesi…

E poi c’è l’annosa questione dei libri.
Una personalissima spina nel fianco, assai combattuta (su cui rifletto da tempo): è da tempo che sono divisa tra libri cartacei e formati digitali.
E quest’anno l’ho sentita ancora di più: mi sono portata via 5 libri cartacei ed il Kindle.
Dei 5 libri ne ho letto 1…
Il resto è arrivato da fonti diverse.

Libri_BarbaraOlivieri
I libri che mi sono portata via e che volevo leggere…
LettureEstive_BarbaraOlivieri
… I libri che ho effettivamente letto: solo 1 dei 5 che mi sono portata via. Il resto è arrivato strada facendo .

(E proprio ieri ho acquistato la versione eBook di “Yeruldelgger” dopo che sono entrata in difficoltà con la copia cartacea per una questione di maneggevolezza e trasportabilità… pur non essendo un gigante come “L’ombra della montagna”.)

Che poi con tutte le masserizie piccole e grandi che mi porto dietro, finisce che dimentico qualcosa e – per esempio – recupero al volo lo spazzolino da denti dimenticato, infilandolo in borsa…

Borsa_BarbaraOlivieri
Raccogliendo cose seminate in giro

Così, tra il disfare le valigie sabato scorso e fare il valigiotto stamattina, mi sono resa conto – ancora di più – delle montagne di stratificazioni (come ere geologiche) che stocco, e talvolta ficco in tutti i pertugi, ammucchiando.

Ed è da queste considerazioni che mi sono fatta sabato scorso, disfando le valigie, che mi sono data un obiettivo ad orizzonte lungo: da adesso e per un anno, ogni domenica dedicherò un’ora a smaltire e riordinare.
Facendo spazio.
Puntando all’essenzialità.
Facendo pulizia.
Che magari finisce per essere non solo fisica ma anche mentale.

Chiudo con un link ad un articolo sulla estremizzazione della essenzialità applicata da un ragazzo giapponese: Less is Less – Japan’s minimalism

[Immagine di copertina tratta dal web]

Complessità e Semplificazione

Stamattina – scorrendo le timeline dei vari social e leggendo diversi post – mi facevo una considerazione, frutto forse anche della fatica psicologica che molti di noi stanno vivendo da un punto di vista professionale (che non esclude ricadute anche nella sfera personale).

Una riflessione che mi ha ricordato una frase di Jeff Bezos che avevo visto condivisa via Facebook nei giorni precedenti:

“Bisogna essere testardi nella visione e flessibili nei dettagli.”

Frase che fa parte di una intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica: Jeff Bezos: “Un passo alla volta”, dai libri ai giornali e poi fino alle stelle

Jeff Bezos
Foto di Marco Montemaggi via FB (pagina Sebastiano Zanolli – La Grande Differenza)

Considerando la sua affermazione, ho pensato a quante volte – negli ultimi tempi – mi sono confrontata con la personale idea dell’avere un obiettivo, lasciando un buon margine di approssimazione alla programmazione, riservandomi diversi gradi di flessibilità.

Un controsenso rispetto alla definizione nota dell’obiettivo SMART:

  • Specifico, cioè che non lascia spazio ad ambiguità;
  • Misurabile senza equivoci e verificabile in fase di controllo;
  • raggiungibile (dall’inglese Achievable), poiché un obiettivo non raggiungibile demotiva all’azione allo stesso modo di uno facilmente raggiungibile;
  • Rilevante da un punto di vista organizzativo, cioè coerente con la mission aziendale;
  • definito nel Tempo.

[Fonte Wikipedia]

La questione è che ho l’impressione che la programmazione per obiettivi misurabili, temporalmente definiti, ecc. ecc. sia valida solo in alcuni casi: in particolare se tratti un oggetto, o un servizio, “concreto”.

E che tale approccio forse non è applicabile all’interno della complessità crescente dell’ambiente nel quale ci muoviamo, dove – tra l’altro – gli stessi beni e servizi hanno durata molto più breve e sono soggetti ad un “deperibilità” (una caducità) molto più rapida rispetto al passato.

Complessità

 

Se poi navighi, ti interessi e ti confronti con l’intangibile, allora ti rendi conto che certi metodi semplicemente non vanno bene.

Con la conseguenza che se li hai sempre considerati fondamentali bussole per orientarti nelle scelte e nelle interpretazioni, puoi trovarti costretto gioco-forza a scegliere di “navigare a vista”, assumendoti un nuovo tipo di rischio (indeterminazione), cercando di intercettare e ascoltare quello che il mondo là fuori fa, dice e crea, passo-passo.

Tutto questo mi fa pensare anche a quanto è comoda la semplificazione. Di processi, di metodi, di concetti.

Una comprensibile necessità umana utile per leggere e codificare la realtà in un linguaggio semplice e accessibile, ma in talune condizioni a rischio di miopia interpretativa.

Un bisogno favorevole alla creazione di una nuova zona di comfort, nella quale erediti chiavi di lettura confezionate da altri.

(A questo proposito segnalo una interessante intervista a Zygmunt Baumann, pubblicata sul sito del Corriere della Sera: Zygmunt Bauman: «Le risposte ai demoni che ci perseguitano»)

Credo ci si trovi di fronte a delle scelte.

O si sceglie di vivere secondo letture ed interpretazioni prodotte da altri.

O si sceglie di confrontarsi con la complessità e l’interdisciplinarità, cercando di comprenderla, e di navigarla, secondo le proprie interpretazioni, sperimentando.

Intangibile

 

Intangibile

E’ qualche giorno che rifletto su alcune cose legate al tormento quotidiano del futuro professionale.

Ed in particolare sto pensando ad una parola che conosco come significato comune, ma che di recente mi è stata fatta vedere sotto un aspetto diverso.

La parola è intangibile.

Pensando all’intangibile, ho pensato a quanto sia difficile misurarlo.
Quantificarlo.

E’ qualcosa di ancora più rarefatto del lavoro intellettuale (che sia di progettazione o simile).
E’ qualcosa che ha un valore etico, emotivo, di sapere, alto.
Ma è difficilmente quantificabile economicamente.

E chi si trova a maneggiare l’intangibile, appassionandocisi pure, gli viene a volte riconosciuto un alto valore umano.
Ma fa fatica a vedersi riconosciuto un valore economico.
Fa fatica a trovare una collocazione nel mercato.

E’ “facile” (non è vero, non è facile per nessuno, però rispetto all’intangibile sì) raccogliere risultati economici se vendi un prodotto solido (qualsiasi esso sia) o un servizio ben definito.
E’ difficilissimo raccogliere risultati economici se tratti (e “vendi” in senso lato) intangibilità.

Questa riflessione, che mi gira nella testa da un po’, è frutto di una chiacchierata con una amica di TEDx Crocetta che per prima mi ha parlato di “intangibilità”.

E questa riflessione sulla intangibilità è andata a collegarsi ad una riflessione sulle future figure professionali interdisciplinari che si profilano all’orizzonte, che mi hanno fatto tornare in mente una frase pronunciata da Ezio Manzini durante un suo recente intervento. Parlando di “sharing economy” e di figure professionali ad esse collegate, ha menzionato la difficoltà che tali figure stanno incontrando sul mercato in questo momento.
La difficoltà a farsi riconoscere un determinato valore.
Perché avanzano in un territorio non ancora ben definito.
Una difficoltà che verrà – secondo le sue riflessioni – ripagata dal fatto che quando finalmente avverrà il processo di riconoscibilità sociale, saranno i primi ad avere un riscontro.

Ebbene, confido che questa stessa dinamica avvenga anche per chi tratta l’intangibile.

Perché attualmente è come esplorare un “oceano blu”.
Ignoto e privo di qualsiasi mappa di riferimento.

Dirigere Orchestrare
[Foto tratta da http://www.espressocommunication.com]
Nota alla redazione di questo post: è stato anche difficile trovare immagini adeguate che non sconfinassero nell’esoterico. Il caso ha voluto che Google Immagini mi mostrasse anche le mani di un Direttore d’orchestra… Un suggerimento inaspettato che ha un suo perché.

[Foto in evidenza tratta da calia.me da Medium: “Misurare l’intangibile”]

Condivisione di saperi

Libri
Immagine tratta dal web

Tra ieri ed oggi mi è capitato di assistere (commentando) ad una discussione su Facebook relativa alla condivisione integrale di un libro tuttora in commercio.

Tecnicamente (e giuridicamente) si tratta di una violazione del copyright (Wikipedia dà una spiegazione abbastanza esaustiva e chiara dell’argomento, rimandando a link di ulteriore approfondimento: Copyright).

Infatti se prendo un libro (che non è mio, ma è frutto della fatica intellettuale e fisica di chi – rispettivamente – lo ha scritto e lo ha reso fisico e reale, rendendolo “prodotto”) ne faccio la scansione e lo condivido online commetto un reato. Non c’è molto altro da dire.

Ma quello che mi ha lasciato perplessa è stata la reazione delle persone che hanno dato il loro contributo alla discussione: poche hanno evidenziato il problema di violazione esprimendo forti dubbi, molte hanno parlato di condivisione positiva del sapere e di utile veicolo di diffusione della reputazione dell’autore.

In particolare mi ha colpito la “leggerezza” di approccio. Leggerezza che mi ha dato la sensazione che la questione dello “sharing” (e la sua scarsa conoscenza perché – presumo – argomento molto acerbo) stia facendo travisare la realtà delle cose, sdoganando comportamenti potenzialmente scorretti (mettendo un momento da parte “la buona fede”). (Sempre Wikipedia – nella versione inglese – ha una pagina molto esaustiva dedicata alla Sharing Economy di cui essa stessa – come “enciclopedia libera” e open source ne è una declinazione.)

Onestamente ho qualche grossa perplessità sul tema.

Penso che chi crede nella “condivisione a prescindere” rischi di perdere di vista un punto fondamentale: il valore del lavoro fatto da altri (che merita di essere riconosciuto non solo intellettualmente ma anche economicamente).

L’atto del condividere non è applicabile senza un minimo di cognizione di causa.

A chi accarezza questa idea (con più o meno buone intenzioni) porrei una domanda

Saresti contento di fare un lavoro intellettuale non retribuito? Saresti realmente soddisfatto della sola retribuzione in termini di visibilità?

Non credo…

Credo anzi sia necessario iniziare a fare delle distinzioni nel mare magnum dell’informazione online e offline, facendo mente locale e prendendo consapevolezza di alcune dinamiche che la velocità del web e dei click-baiting ci hanno fatto perdere di vista.

Partendo da un punto fondamentale secondo me: un conto è la condivisione delle idee trasmesse via social media (che non sono un prodotto di serie B a cui attingere a piene mani ignorando i “credits”, altra questione annosa), un conto è un prodotto intellettuale come il libro, messo in vendita il cui prezzo è costruito per ripagare chi ha contributo alla sua costruzione.

Sulla condivisione dei contenuti e delle idee via web ci sono interessanti esperimenti di tutela e pareri legali interessanti, che penso siano eccellenti per iniziare ad avere una idea di quali possano essere diritti e doveri.

Uno dei tanti è la licenza Creative Commons che rappresenta un buon metodo di regolamentazione e responsabilizzazione rispettivamente per chi produce contenuti e per chi li condivide (TED – colosso della condivisione, ma con precise regole – è tutelato da licenza Creative Commons).

E sempre per il web esistono molti interessanti studi e pareri di cui riporto qui alcuni link (l’elenco non è esaustivo e qualsiasi contributo aggiuntivo è ben accetto):

Credo che sia arrivato il momento di avviare un processo di alfabetizzazione su argomenti troppo nuovi per essere compresi appieno.

Ma che se capiti diventano uno strumento utile e vantaggioso per tutti, dalle immense potenzialità.

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Immagine tratta da http://www.inc.com

Una immagine

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Courtesy of FB profile di Mark Zuckerberg (dal Mobile World Congress)

Poco fa ho letto questo articolo (in inglese) pubblicato da The Verge:

This image of Mark Zuckerberg says so much about our future

Leggendolo mi ci sono ritrovata.
Ho ritrovato una visione un po’ preoccupata del futuro.
E tante spie di allarme si sono riaccese nella mia testa.
Riaccese perché proprio ieri avevo letto lo status di Zuckerberg su Facebook, accompagnato da foto ad alto impatto visivo che mi avevano inquietato non poco, generando nella mia mente delle immagini di un qualcosa di pericolosamente vicino alla distorsione.

Zuckerberg World Mobile Congress
Il post di Mark Zuckerberg

 

The Verge, nell’articolo, evoca scenari distopici (è quasi inevitabile pensarci, guardando quella foto) riandando allo spot della Apple “1994”, creato da Ridley Scott, che narrava di un futuro alla Grande Fratello di Orwell dove proprio Apple incarnava la figura dell’eroe che rompeva uno schema dominante (quasi un paradosso pensando alla presa emotiva che Apple ha oggi sui suoi clienti e non solo).

Apple Ridley Scott
Immagine tratta da Cult of Mac: lo spot di Ridely Scott per la Apple [“1984”]
Ma non solo.

Mi sono venute in mente anche delle immagini di un trailer del film “Prometheus” (sempre di Ridley Scott).
Un trailer che non era una sequenza del film, bensì il racconto di un episodio che mostrava un evento accaduto prima delle vicende narrate nella pellicola (un interessante esperimento di “cinema che esce dal cinema”).

Prometheus TED Talk
Una immagine tratta da uno dei trailer del film “Prometheus” [2012]

Zuckerberg 2
Dal profilo FB di Mark Zuckerberg, una delle immagini suggestive pubblicate (dal Mobile World Congress)

Ora, non metto in dubbio la bontà della iniziativa pensata da Samsung, “Samsung Gear VR”: personalmente intravedo sviluppi interessanti per persone con gravi disabilità (così come gli esoscheletri sono altrettanti interessanti studi che possono avere – e spero avranno – ricadute positive su persone in difficoltà).
Quello che mi fa impressione, che mi preoccupa, è la ricaduta sull’uomo comune.
E sulla sua percezione e distinzione tra ciò che è reale e ciò che è immaginario.

Già la potenza evocativa e di comunicazione di Facebook è in grado di sfumare il confine tra realtà ed ambiente virtuale (facendoci perdere di vista alcuni punti fondamentali relativi al comportamento sociale, al dialogo e alla interazione tra individui).
Già possediamo, e portiamo in tasca, dispositivi in grado di tenerci sempre connessi comunque e ovunque, che sono gli anelli di congiunzione tra due mondi non più tanto separati e sempre più permeati uno nell’altro.
Così facendo, il confine potrebbe definitivamente sparire, rendendo reale quanto alcuni film di fantascienza disegnavano solo pochi anni fa.

BRUCE WILLIS (right)
Immagine tratta dal film “Il mondo dei replicanti” [2010]
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Una sequenza tratta dal film “Il tagliaerbe” [1992]
Non voglio essere allarmista. Né purista.
Non servirebbe a niente.
Anche perché vivo in questo mondo e faccio un uso massivo dei social network e delle tecnologie (perdendo talvolta di vista alcuni concetti fondamentali e rendendo necessaria una presa di distanza per “rimettere a post alcuni paletti”).

Però penso che sia fondamentale ora più che mai una educazione all’utilizzo di questi mezzi, potenti e versatili, anche e soprattutto da parte di chi li pensa, li progetta e li produce.
Coniugando un uso consapevole ed etico ad una logica di marketing più che giustificata.

E a proposito di regole etiche, qui un link ad un dibattito in corso sulle auto che si guidano da sole:

Decisioni difficili per le auto a guida autonoma

A prima vista può sembrare un discorso lontano dall’argomento di questo post, ma forse è solo un altro aspetto che l’etica si trova ad affrontare in questo nuovo mondo.

Polverizzazioni

 

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Immagine tratta dal sito Green Me

Scrivo sempre da utente neofita che corre dietro alla evoluzione tecnologica, mangiando costantemente polvere… (a proposito di “polverizzazioni”).

Vivendo la vita digitale (e anche una parte di quella reale) in stato Beta permanente (per usare una espressione coniata da Reid Hoffman e Ben Casnocha usata nel loro libro “Teniamoci in contatto”; che ho iniziato a leggere, ma che è in stand-by da un po’…).
Montando e smontando di continuo.

Ed il titolo del post nasce da una prima considerazione che mi facevo ieri (dopo una chiacchierata con un amico) su cui si è innestata una seconda considerazione nata da una iniziativa segnalata questa mattina su Facebook da Maria Cristina Pizzato.

Partiamo dal principio.
Se volessi dare un significato personale alla parola “polverizzazione” senza passare dal vocabolario, penserei ad una azione di livello superiore allo “sbriciolamento”. Ossia una azione meccanica di riduzione delle pezzature generate dalla frantumazione, rottura, di un oggetto.
Emotivamente parlando, lo considero un termine forte. D’impatto.
Che identifica una azione forte. (Mi ricorda anche il termine anglosassone disruption)

La prima considerazione sulla polverizzazione è partita l’altra sera, durante una cena.
Chiacchierando con un caro amico, sono state inevitabili alcune considerazioni sul (proprio) futuro professionale. Riflettendo su se stessi e sulle proprie competenze, percependo la difficoltà a comprendere il delinearsi all’orizzonte di nuovi mestieri (anche a livello di comprensione linguistica, per quanto mi riguarda), consapevoli della inevitabilità degli eventi.

Top 10 skills WEF

Ormai lo sappiamo bene e non passa giorno che non lo troviamo scritto da qualche parte, o che ci venga detto da qualcuno: che ci piaccia o no, alcuni lavori si stanno letteralmente polverizzando (partendo da quelli più “automatizzati” come cassieri, addetti alle biglietterie di cinema e aeroporti per esempio, per risalire via-via la “gerarchia”).

Ci salverà l’esperienza?

E gli strumenti con cui affrontare queste successive polverizzazioni sono mutevoli.
Mi rendo conto che appare come un paradosso (come diavolo fa uno strumento ad essere mutevole?, si potrebbe domandare qualcuno), ma credo sia realmente così: puoi solo stare allerta, con le orecchie dritte, affinando i sensi per cercare di catturare in anticipo segnali e tendenze.
Imparando sempre cose nuove, anche apparentemente lontane dal tuo mestiere.

10 Job Skills You’ll Need in 2020

Lavorare meno: sarà complicato, ma ci arriveremo

6 Secret Habits of Highly Successful Millennials

E qui arrivo alla seconda declinazione del concetto di polverizzazione: l’istruzione e la formazione.
Che stanno pesantemente mutando, macinati e sbriciolati da nuovi format e da nuovi canali di comunicazione.

In particolare mi riaggancio al post di Maria Cristina Pizzato di cui ho parlato all’inizio di questo post e che segnalava una realtà elearning nuova per me: Emma Mooc.

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Emma Mooc

Una ulteriore opportunità (ancora in versione Beta) che si va ad aggiungere ad altre consolidate realtà digitali di elearning (per citarne alcune: Lynda – recentemente acquisita da LinkedIn – Coursera, edX, SkillShare, … tutte disponibili anche in versione mobile, tanto per dire…)

Senza dimenticare format meno didattici, ugualmente ricchi di stimoli ed informazioni: TED (il più noto), 5×15 (5 speech da 15 minuti), Pecha Kucha Night (con la regola del 20×20: ossia 20 slide da 20 secondi) e la recente scoperta The DO Lectures (scoperto grazie ad un post su Facebook di Francesca Marchegiano).

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The DO Lectures

 

Tutte occasioni di ascolto di storie, di condivisione di esperienze e di competenze.

Tutti format che stanno scuotendo pesantemente la classica formazione in aula che – secondo me – per sopravvivere deve trovare nuovi modi di comunicazione e di coinvolgimento.

In tutta questa mutazione costante c’è da farsi prendere dallo sconforto, lo so.
Hai la sensazione di essere sopraffatto dalla incredibile disponibilità di informazioni.
E temi di non riuscire a stare al passo.
Temi di perdere pezzi importanti per strada.
Ed in questo caso scegliere è veramente difficile, se non impossibile (con buona pace del discorso delle nicchie).

Coraggio, invece!
Rimboccarsi le maniche e darsi da fare.
Creare il proprio piano di studi “open”, dando fondo alla curiosità e alla voglia di esplorare per trovare nuove soluzioni.
Pensando che abbiamo una grandissima fortuna: possiamo accedere a risorse intellettuali pressoché infinite. E non è così scontato.
Una cosa impensabile fino a pochi anni fa…

Buon surfing!

[Immagine di copertina tratta da http://www.antichitadelsito.it]

Ritorno alla carta

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(Immagine tratta da http://www.trackback.it)

Questa mattina ho letto l’articolo di “Science of us” dal titolo “A Neuroscientist on the Calming Powers of the To-Do List“.

Una lettura casuale che capita a proposito.
E che si collega con una azione che ho intrapreso da poco per altri motivi.
Infatti dopo un lungo periodo altamente digitale sto riscoprendo il valore del cartaceo.

Sono tornata sui miei passi dopo che mi sono resa conto che attivare promemoria, usare il calendario di Google (sempre aperto in background sul desktop) e scrivere appunti, il tutto sullo smartphone, è sì un buon metodo di archiviazione e di gestione del mare di dati che ci circonda, ma sta generando un progressivo effetto collaterale non indifferente (e che non avevo previsto): io dimentico. (Che detto così appare come un paradosso.)

Mi sono resa conto che l’efficacia del promemoria digitale e sonoro (che si attiva al momento opportuno) è fondamentale, ma tutta l’attività che lo precede (l’appuntare le cose da fare sui dispositivi elettronici) ha gradualmente creato un processo di delega massivo all’ambiente digitale. (Funzione utile per sgombrare la mente da incombenze a volte superflue, che – parallelamente – mi sta facendo “perdere pezzi per strada”.)

“Vi piacerebbe un dispositivo tascabile che ci ricordasse ogni appuntamento e impegno della giornata? A me sì. Aspetto il giorno in cui i computer portatili saranno diventati così piccoli che potrò portarne sempre uno in tasca. Decisamente lo caricherò di tutto il peso di ricordarmi le cose. Dev’essere piccolo. Dev’essere comodo da usare. E dev’essere relativamente potente, almeno rispetto agli standard di oggi. Deve avere una tastiera completa e uno schermo abbastanza grande. Ha bisogno di una buona grafica, perché questo fa un’enorme differenza nella facilità d’uso, e molta memoria, anzi, una memoria enorme. E dev’essere facile da collegare al telefono; ho bisogno di collegarlo ai computer in casa e al laboratorio. […]”

La citazione qui sopra è tratta dal libro “La caffettiera del masochista”, scritto da Donald A. Norman nel lontano 1988 e di cui sto leggendo in questi giorni l’edizione Giunti del 1997 (esiste una versione aggiornata e ampliata). Un sogno di un uomo che ha scritto queste righe in un mondo ancora fortemente analogico, e che sentiva la pressione gradualmente sempre più forte di una tecnologia sempre più complessa, ancora poco dialogante con l’utente finale (e che richiedeva un aumento delle capacità di memorizzazione e comprensione).

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NeXT Cube, 1988 (fonte Computer History)

Non sto mettendo in discussione quanto la tecnologia sempre più avanzata e user friendly offre in termini di vantaggi. Sto solo facendo alcune riflessioni osservando (e osservandomi) cosa accade quando compio alcune attività.

E qualche tempo fa, mentre stavo disegnando su un pezzo di carta la struttura (il flusso) di un progetto per capirne le sfaccettature e comprendere come proseguire, ho avuto l’ennesima conferma (e la netta percezione) che scrivere a mano ti aiuta non solo a ragionare meglio attorno ad un problema, ma anche a ricordarlo più efficacemente (è un processo neurologico noto ai più, ma che può accadere di dimenticarsi davanti a dispositivi sempre più “performanti”).

Oltre che – personalmente – mi è utile per calmarmi visto che lo scrivere (abbozzare) a mano è un’azione più lenta rispetto alla digitazione rapida (e quasi compulsiva) su telefono.

Visual Note e Sketchnotes sono alcuni dei metodi per prendere appunti non solo elencando, ma anche disegnando. Rinforzando il processo neurologico di apprendimento (immagine tratta da mrlosik.com)

Così quest’anno sono tornata all’agenda cartacea, ai quaderni e alla elencazione delle cose da fare suddivise ed ordinate per priorità, giorni, punti, associazioni di idee, ecc. ecc. (continuando comunque ad utilizzare promemoria e calendari digitali, preziosi per avvertire dell’approssimarsi di qualche appuntamento).

Devo dire che i primi riscontri personali sono positivi, nonostante sia un’appassionata di digitale (sempre come utente) che ne apprezza le immense potenzialità (e che tempo fa faceva le stesse considerazioni dell’autore de “La caffettiera del masochista”).

E credo anche che il giusto equilibrio sia nell’area di intersezione tra il digitale e l’analogico/cartaceo. Lì dove si possono intersecare e rendere collaborative le azioni effettuate sui dispositivi con quelle effettuate su supporti cartacei (e fisici).

Link utili:

[L’immagine di copertina è tratta dal sito unadonna.it]