Un diario fotografico

Sicuramente stiamo vivendo un periodo che ci sta rivoltando come un calzino.
Emotivamente, operativamente,…
E ognuno di noi lo sta vivendo a modo suo.

Io mi sto ritrovando a riflettere sempre più spesso su cosa desidero (non su cosa “voglio”, una parola che sento arrogante e credo ormai abbia fatto il suo tempo).

Cosa desidero (o desidererei) per me, il babbo, le persone che mi sono care, gli amici, i colleghi… tutti immersi in questa vicenda che ci sta cambiando (chi più velocemente, chi più lentamente).
Immersi in un ambiente che ci sta modificando nel profondo.

Rifletto, penso a cosa desidererei, a “dove” vorrei vivere (il “dove” inteso come realtà, non necessariamente come geografia).

E nel mentre, complice anche i ritmi rallentati e dilatati (quasi talvolta sospesi), pubblico post, scatto fotografie con lo smartphone, lavoro, pulisco la casa e tento (maldestramente) di cucinare qualcosa… (mi sono autoproclamata “cintura nera di cibi pronti”…) .

In tutto questo scorro le timeline leggendo le mie e altrui parole.
Guardando le immagini mie e altrui.
E penso anche alla loro impietosità (delle timeline) e alla loro “volatilità”: tutto questo si perderà nel (nostro) passato, restando archiviato in qualche server geograficamente collocato oltre il Circolo Polare Artico.
E noi dimenticheremo le emozioni che abbiamo vissuto e le cose che abbiamo visto in questi giorni molto particolari…

Così poco fa mi sono detta: “Scusa, ma perché non archivi le foto che stai scattando in questo periodo in un album dedicato su Flickr…?”

Mi sono messa di buzzo buono, ho messo ordine, ho scremato un po’ (la condivisione serrata genera un po’ di caos nell’archivio) e ho raccolto le foto di questo periodo nell’album dedicato:

Diario dei giorni Coronavirus

Salvate anche voi da qualche parte le (vostre) parole, letture, foto… a futura memoria.
Per ricordarci dove eravamo oggi, quando tutto questo sarà (si spera) un lontano ricordo.

[La foto qui sotto l’ho scattata una sera portando giù l’immondizia… una “botta di vita”, commentata con un po’ di ironia]

Di manutenzione e funzionalità

 

Da un po’ di tempo a questa parte sono pervasa da una sorta di “furia iconoclasta al contrario” (generata dalle recenti esperienze e di cui scriverò in un post successivo), che si palesa in varie forme, comprese quelle inaspettatamente banali e domestiche: mettere a posto (sistemare) alcune piccole cose che “stavano là” da tempo… In attesa (loro ed io, soprattutto) che si risolvessero da sole o per intercessione divina…

Qualche giorno fa, dopo avere iniziato a riordinare armadi di documentazione e oggetti (buttando via “tonnellate di carta”), ho improvvisamente prestato attenzione al gancetto per gli strofinacci da cucina.
Quello a sinistra nella foto, con la mela tagliata.
Caduto mesi fa, per cedimento da vetustà dell’adesivo, ha languito per settimane in una ciotolina (pur avendo rincollato con pazienza certosina alcuni pezzi che si erano staccati nella caduta).
Osservando l’oggetto mi sono detta: “Barbara, ti aspetti che ‘sto coso si riattacchi da solo?!”

E così è scattato il primo blitz al Brico Center a caccia di una colla (un mastice?) adatto a riattaccarlo.
Con la scusa anche di approvvigionarmi di batterie ricaricabili per il cordless (anch’esso “languente” da mesi “perché tanto a me la linea fissa serve solo per internet!”, mi raccontavo) e una batteria per la bilancia della cucina (esaurita anch’essa…).

Nel mentre – sulla strada – deviavo verso la discarica (“stazione ecologica”) per svuotare il bagagliaio dell’auto ingombro di roba che sembrava il deposito di un robivecchi, e provvedevo al successivo approvvigionamento di lampadine alogene per “fare magazzino” prima che vengano definitivamente ritirate dal mercato (visto che nel frattempo si era fulminata anche la lampadina del soggiorno).

Ma non è finita qui.

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Quello nella foto qui sopra è un “soffione di design” che ho quasi distrutto cercando di aprirlo per togliere il calcare.
Ma che essendo cementato dal calcare stesso, ho deformato e fatto sì che l’acqua trafilasse da ogni fessura e pertugio, senza riuscire nel mio intento.
Infastidita dalla faccenda, dopo giorni di (colpevole mia) procrastinazione, ieri ho fatto un secondo blitz allo stesso Brico Center aggirandomi tra gli scaffali di idraulica, cercando (e trovando) un degno sostituto.
Per la modica cifra di circa 36 euro (se penso a quanto ho speso per quello di design mi viene il mal di pancia).
Funzionale e funzionante.
Con buona pace dei pezzi di design che – purtroppo, a loro parziale discolpa – con l’acqua calcarea che ci ritroviamo, hanno vita breve.

Morale della storia?

Primo: mettere ordine nelle proprie cose, mette ordine anche nella propria testa. Ve lo assicuro. Provate per credere (per citare un vecchio slogan pubblicitario) e poi ditemi.

Secondo: sempre più convinta della bontà del “metodo Ikea” e del “mondo Brico”, fatti entrambi di pezzi facili e funzionali. (Potrei raccontare la storia di due amici con due cucine: il primo con la cucina Ikea, che ha anche smontato e rimontato per ristrutturare casa, e non ha avuto mai problemi di sorta; il secondo possessore di una cucina di design che ha avuto sempre qualche piccolo o grande problema di ante malfunzionanti, cerniere difettose, ecc. ecc.)

Sono sempre perplessa davanti alle lodi al design visto come il “produttore” di pezzi esteticamente meravigliosi, ma spesso assai poco funzionali.

Come citava Louis Sullivan (su Wikipedia in inglese e in italiano la sua biografia):

La forma segue la funzione.

Un oggetto che funziona, uno spazio facilmente fruibile, una funzione che viene assolta con semplicità ed immediatezza, sono obiettivi ben più importanti della bellezza ricercata ad ogni costo (a scapito della ergonomia).

Tanto più oggi in un mondo ad alta complessità (ma questo è un altro discorso).

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Ridurre

Riordino_BagaglioAMano_BarbaraOliveri

Sarà che un contatto di Facebook ha scritto che ha fatto un viaggio in Giappone di circa tre settimane con solo il bagaglio a mano.
Sarà che attraverso lo stesso contatto ho letto il libro “Solo bagaglio a mano” (interessante) e una amica mi ha regalato il libro di Marie Kondo “Il magico potere del riordino” (di prossima lettura).

Fatto sta che stamattina pensavo al valigiotto nero che ho preparato per la trasferta di questo weekend (partenza oggi pomeriggio, rientro domenica pomeriggio).

BagaglioAMano_BarbaraOlivieri

Valigiotto che sarà bagaglio a mano e che spero non mi facciano imbarcare nella stiva dell’aereo che prenderò.
(Non dovrebbero… Ho fatto tutte le verifiche possibili ed esistenti: dimensioni, peso, imballaggio dei liquidi…)

E stavo pensando a quante masserizie ho e quante me ne porto via ogni volta che mi muovo.

Questa estate me ne sono accorta in modo particolare: ho utilizzato il 70% degli abiti che mi sono portata via.
(E va già meglio rispetto a qualche anno fa, quando utilizzavo il 40% di quello che mettevo in valigia. Ai tempi non c’era consapevolezza dell’ingombro, c’era attenzione all’esibire.)

Bagagliaio_Viaggiare_BarbaraOlivieri
Il bagagliaio della nostra auto (non si vede bene ma è coinvolto anche il sedile posteriore a sinistra). Quante persone? Tre…

Quindi posso dire che sulla “questione abiti” sto migliorando.
Mentre sulla “questione accessori” no.
E per accessori intendo libri, cosmetici, oggetti vari. (Con l’aggiunta negli ultimi tempi degli oggetti elettronici, che dovrebbero sostituire oggetti ma che attualmente – per me – sono ancora un di più.)

PostazioneLavoroMobile_BarbaraOlivieri
Quest’estate ho lavorato un po’ su alcune cose e mi sono attrezzata con una piccola postazione mobile che sogno sempre diventi LA postazione di lavoro per antonomasia.

Ed è da tempo che penso a come eliminare definitivamente il PC per restare con iPhone e iPad (la strada è ancora lunga per me, essendo in fase di implementazione di YouTube e video che – per le mie competenze in materia – necessitano di editazioni da PC.)

Libri_CartaceoDigitale_BarbaraOlivieri
Questione di ingombri e pesi…

E poi c’è l’annosa questione dei libri.
Una personalissima spina nel fianco, assai combattuta (su cui rifletto da tempo): è da tempo che sono divisa tra libri cartacei e formati digitali.
E quest’anno l’ho sentita ancora di più: mi sono portata via 5 libri cartacei ed il Kindle.
Dei 5 libri ne ho letto 1…
Il resto è arrivato da fonti diverse.

Libri_BarbaraOlivieri
I libri che mi sono portata via e che volevo leggere…

LettureEstive_BarbaraOlivieri
… I libri che ho effettivamente letto: solo 1 dei 5 che mi sono portata via. Il resto è arrivato strada facendo .

(E proprio ieri ho acquistato la versione eBook di “Yeruldelgger” dopo che sono entrata in difficoltà con la copia cartacea per una questione di maneggevolezza e trasportabilità… pur non essendo un gigante come “L’ombra della montagna”.)

Che poi con tutte le masserizie piccole e grandi che mi porto dietro, finisce che dimentico qualcosa e – per esempio – recupero al volo lo spazzolino da denti dimenticato, infilandolo in borsa…

Borsa_BarbaraOlivieri
Raccogliendo cose seminate in giro

Così, tra il disfare le valigie sabato scorso e fare il valigiotto stamattina, mi sono resa conto – ancora di più – delle montagne di stratificazioni (come ere geologiche) che stocco, e talvolta ficco in tutti i pertugi, ammucchiando.

Ed è da queste considerazioni che mi sono fatta sabato scorso, disfando le valigie, che mi sono data un obiettivo ad orizzonte lungo: da adesso e per un anno, ogni domenica dedicherò un’ora a smaltire e riordinare.
Facendo spazio.
Puntando all’essenzialità.
Facendo pulizia.
Che magari finisce per essere non solo fisica ma anche mentale.

Chiudo con un link ad un articolo sulla estremizzazione della essenzialità applicata da un ragazzo giapponese: Less is Less – Japan’s minimalism

[Immagine di copertina tratta dal web]

Amo la quiete…

quiete

Amo la quiete.
Amo l’understantement.
Amo l’educazione.
Amo il “per favore” ed il “grazie” (senza che ne sia fatto un abuso che lo snatura).
Amo leggere ed amo camminare.
Amo le cose fatte bene.
Amo le cose belle, che non vuol dire costose.
Amo la rarità.
Amo ascoltare.
Amo la lentezza.
E tutto ciò non vuol dire essere pigri (magari anche, perché no?!).
Sono convinta che si può fare (bene) senza urlare, senza isterismi, senza soverchiare e senza sgomitare.
Sto invecchiando?
Può essere.
Ma non me ne curo.
Cerco solo angoli tranquilli.
Educati.
Tutto qui.

[Immagine tratta da tempi.it]

Su una serratura – un metafora di vita…?

serratura

Ieri sera sono rientrata a casa a tarda ora e, per l’ennesima volta, ho trovato la serratura del portoncino d’ingresso rotta: chiave che gira a vuoto ed ingresso da cancelletto laterale (per fortuna… perché in caso contrario avrei dovuto citofonare a qualche anima pia, per farmi aprire…).

E stamattina – bevendo il caffè – mi facevo qualche riflessione (che ormai ha superato lo stato di infastidimento per l’inedia risolutiva, per approdare ad uno stato di profonda perplessità) su ‘sta vicenda che va avanti ormai da quasi un mese e mezzo.
E – senza avere trascorso una nottata burrascosa causa bagnacauda serale (ossia non ho mangiato pesante e non ho sognato i draghi) – mi facevo un paio di ragionamenti le cui risposte possono (nel microscopico esempio di una serratura e di un condominio) essere emblematiche di atteggiamenti mentali (e dinamiche varie) ben più vasti.

Primo ragionamento…
Come dicevo poco sopra, sono assai perplessa davanti alla assenza decisionale davanti a questo episodio.
E’ possibile che per decidere di cambiare una serratura sia necessaria qualche procedura stravagante a me sconosciuta (tipo una mega-riunione plenaria di ispirazione fantozziana)?
E dire che ho ricevuto anche io (in copia conoscenza, pur non essendo rappresentante di alcunché) una mail con un paio di preventivi sulla sostituzione della serratura con due tipologie differenti.
Ma tutto tace…
E nel frattempo si rompe, si ripara, si rompe e si ripara…

E come sempre mi accade in questi casi, faccio pensieri vari&eventuali.
O meglio: estraggo microscopici episodi e ci ricamo su il mondo, estraendone ulteriori metafore bislacche a manetta…

Infatti ho fatto 2+2+2+… e ho pensato che spesso alcune persone (non tutte, per fortuna) assumono delle cariche (delle più disparate) per soddisfare il proprio Ego (“Eh sì… sai… sono rappresentante di… presidente di… membro di… nella commissione di…”). Senza essere consapevoli del fatto che tutti i ruoli (ma proprio tutti-tutti) comportano delle responsabilità piccole o grandi che siano.
E così accade, ad un certo punto, che davanti a decisioni da prendere ci sia un arretramento rapido. Meglio ancora un mascheramento dai connotati camaleontici.

Secondo ragionamento…
Perché continuare a riparare una serratura che non ce la fa più?
Perché ostinarsi in una sorta di accanimento terapeutico su un oggetto che sta cedendo per usura?
Non sovviene il pensiero che – così facendo – si arrivi a spendere di più rispetto ad una sostituzione?

E anche qui parte l’estrazione di una metafora bislacca…
Perché insistere nella riparazione di una “cosa” usurata, quando sarebbe più benefico per tutti gli attori sostituirla definitivamente? E così poter andare oltre?

Non lo so.
Non capisco.
Alcune cose non le capisco proprio…

E mi sfugge qualcosa.
In realtà mi sfuggono tantissime cose…

Ringrazio in anticipo chi saprà illuminarmi su quanto sopra…
Perché io non ci arrivo proprio.

PS: la foto del post non è la foto della serratura oggetto della storiella…

“Gemmazione”…?

gemmazione

Ti è mai capitato di tornare a casa tardi, andare a dormire all’1.00 di notte e svegliarti alle 5.30 con una sensazione addosso di fretta?

E di non riuscire più a prendere sonno e di arrenderti e alzarti alle 7.00?

Stamattina per me è stata così.
(E la cosa che mi consola è che – essendo sabato – magari oggi pomeriggio ci scappa un pisolo con un po’ di recupero.)

Ma quando succede una cosa così?

Quando hai una preoccupazione.
Quando hai un problema da risolvere e non ti dai pace fino a che non lo hai risolto.
Quando qualcosa “bolle in pentola nel retrocranio” e – forse – spinge per emergere e spinge per farti fare…

Non so se in chi legge c’è qualcuno che si trova in una situazione di questo tipo: le soddisfazioni lavorative sono in caduta libera in avvitamento verso il basso (ed i colleghi attorno a te li vedi stanchi, se non come te, più di te); vorresti fare altro ma non trovi il tempo se non rosicchiando angoli di riflessione durante i tragitti da e per l’ufficio e rubando ore di sonno; vorresti fare altro ma non riesci a focalizzarti su come gestire la situazione da un punto di vista finanziario…

Insomma un turbine di cose che si agitano nella testa e premono per configurarsi in una qualche struttura logica a te sconosciuta.

E questa struttura logica combatte contro uno dei tuoi più grossi demoni: la paura.
Quella paura di non farcela professionalmente ed economicamente.

Ma ti rendi conto anche che la paura ha una piccola falla che potrebbe essere la tua salvezza, la tua spinta definitiva verso un salto (non privo di rischi) che deve però escludere una programmazione ed una visione oltre l’anno (se non raccontando una storia che può “stimolarti a”).

La falla che potrebbe essere la tua salvezza si chiama “fuga”.
Fuga da situazioni di riconoscimento professionale sconfortanti.
Fuga da luoghi virtuali nei quali la tua professionalità non conta nulla: conta solo un mostro che assume diverse forme e nomi (burocrazia, profitto,… chiamalo come ti pare, perché tanto ha diverse facce…).

E allora pensi.
Ti rigiri nel letto in ansia.

Hai fretta.
Hai paura di perdere questa strana pressione di spinta all’azione, che però necessita di un finale colpo di reni che ti faccia tirare giù con una precisa spallata (neanche tanto forte) l’ultimo diaframma che ti separa dallo spazio che sta dall’altra parte e che si chiama “tentativo” (se mai provi, mai sai…).

“Tentativo” che però si deve confrontare con un altro spettro: quello del “e se poi non ce la fai?”
Quello spettro che rappresenta l’ultimo legaccio strategico che ti potrebbe tenere inchiodato qui.
Nello status-quo di qualcosa che sai benissimo che non ti rappresenta più e che – se non affrontato – ti condanna a vivere qualcosa di non tuo.

Ed in questo turbine di pensieri mattutini, ripensi a frasi dette da persone che stimi, spunti che ti sono stati offerti, caratteristiche che sono state individuate da altri (ognuno ne ha vista una, ma se ci pensi un comune denominatore c’è, anche se la tua logica e la tua razionalità stentano a capire… e questo rappresenta un ulteriore problema da affrontare).

Ripensi ai mesi di questo anno che si sta avviando alla fine e che ti ha spremuto come un limone. Ma che ti ha insegnato tanto.

Rifletti su storie di persone che conosci, che hanno avuto il coraggio di buttarsi (con tutta l’ansia del pianeta a fargli da fardello) e che adesso stanno arrivando. Ce la stanno facendo, tutti: nessuno è tornato sui propri passi.

Pensi che forse ce la puoi fare anche tu.
Solo che non hai mai avuto il coraggio di tentare.

Pensi che devi solo prenderti il tempo (senza scuse) per pianificare bene la cosa (così metti in pace la tua coscienza, che ti dà del folle sconsigliandoti vivamente di fare cose insensate “perché non è il momento adatto, e poi hai già una certa età”…).

E hai bisogno di tempo e di spazio, per sgombrare e per fare posto a cose nuove.

È possibile che da una serata trascorsa a fare quattro chiacchiere con una amica davanti ad una pizza ti emergano nottetempo queste riflessioni?
Pare di sì.

(Serata dove, tra le altre cose, raccontandole entusiasta del tuo telefono Android, i signori del tavolo a fianco ti chiedono timidamente informazioni sul telefono e tu – parlandogliene – glielo vendi [!!!]… eggià… la vendita, il tuo peggiore demone…)

Forse è stata la ciliegina sulla torta (o una delle ciliegine sulla torta) di un lungo processo decisionale, molto più complesso del peggiore consiglio di amministrazione mai visto sino ad oggi…

Se la decisione è presa, devi solo pianificare sul serio.

E smettere di rigirarti su te stesso, trovando scusanti varie ed eventuali che fanno scorrere inesorabilmente il tempo, che non si riavvolge più…

Immagine tratta da http://www.giornalettismo.it]

Essere figlia, avere un padre (2)

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Oggi ho trascorso una bella giornata in compagnia del babbo.

Complice la festività del 25 aprile, ne ho approfittato per accompagnarlo per alcune commissioni.
Ed è stata l’occasione per condividere riflessioni, e scambiarsi punti di vista, su futuro, lavoro e vita a 360′.

È stata anche l’occasione per tranquillizzarlo su sue preoccupazioni relative al mio “nuovo” stile di vita: corsi, “nomadismo”, nuove conoscenze ed esperienze.
Sapevo che mio padre era preoccupato, ma non esprimeva i suoi timori a causa di un carattere non propenso ad esternare sentimenti ed emozioni (che vive).
E lo avevo saputo in un modo non proprio sereno: una telefonata dura con mia madre, degenerata in pochi minuti a causa di equivoci verbali, stanchezza mia e nervosismo a fiumi.

Forse non sono così scontate (almeno per me, visto che ogni tanto me lo dimentico) le lecite preoccupazioni di un genitore (in crescita all’avanzare dell’età), soprattutto se senti e leggi molto di cose negative (da giornali, TV e altri mezzi di comunicazione “convenzionali” e mono-direzionali), e se sei figlia unica.

Era da tempo che non parlavamo senza entrare in rotta di collisione causa scontro generazionale. Ricordo ancora discussioni che degeneravano in litigi mal celati, dove ognuno restava arroccato sulle sue posizioni, piantandosi il muso reciprocamente.
Un evento accaduto nel 2008, cambiò radicalmente il mio punto di vista ed il mio approccio, rendendomi molto più attenta e sensibile all’ascolto di un uomo (mio padre) che non avevo mai realmente visto e compreso.

A me, come figlia, spetta il non sempre facile compito di comprendere e di non innervosirmi davanti a vicende che non vengono capite.

A me, come figlia, spetta far comprendere prodigandomi in spiegazioni (anche dettagliate) per trasferire le informazioni nella maniera più chiara possibile, spazzando via le preoccupazioni (lecite) di un genitore.

Il senso del Natale

fiore

Natale: “Il termine deriva dal latino natalis, che significa “relativo alla nascita”. [Wikipedia]

Fra una settimana esatta è Natale.

E, come ormai mi accade da diversi anni a questa parte, avverto un costante senso di disagio e fastidio.

Fastidio per addobbi eccessivi (quest’anno vedo un po’ più di sobrietà). Fastidio per le vetrine iper-lucenti e lussuose. Disagio per il buonismo colloso e caramelloso.

Queste sensazioni hanno iniziato ad insinuarsi nel periodo natalizio del dicembre 2002. Mi ricordo ancora molto bene il preciso episodio. Ero impegnata (coi miei genitori) a mettere su la mia casetta dove sarei andata a vivere da sola. Ero in un negozio di arredamento in zona Piazza Piemonte a Milano e stavamo aspettando mio padre che stava arrivando da fuori Milano.

Arrivò in ritardo perché – raccontò – l’autostrada Mi-Laghi era bloccata dai lavoratori della Alfa Romeo, che stavano manifestando per la imminente chiusura dello stabilimento: quella gente stava perdendo il lavoro. Quella gente avrebbe passato un gran brutto Natale.

Mi ricordo molto bene il senso di tristezza che provai. E – non so cosa successe di preciso – da allora la mia visione del Natale iniziò a cambiare.

In seguito ci furono diversi episodi che andarono a rinforzare questa sensazione: un signore che – davanti all’opulenza degli addobbi natalizi in vendita alla Rinascente – raccontò a me (e mia madre) che lui non riusciva a sentire il Natale perchè l’anno prima (proprio a Natale) aveva perso sua moglie; lo stridore della ricchezza delle luminarie nel centro di Milano, con i senzatetto che dormono in strada, protetti solo da ripari di fortuna costituiti da cartoni e malconci sacchi a pelo rimediati chissà dove.

Mi ricordo anche quando, un paio di anni fa, guardando il reparto giocattoli della Rinascente, che faceva bella mostra di sè al piano terra dell’ala più recente di via S. Redegonda, il pensiero mi corse ai bimbi che non hanno nulla (e senza andare geograficamente troppo lontano).

Questo disagio – cresciuto sempre più – mi ha generato e mi genera un senso di malinconia che avvolge come una coperta troppo pesante, che pesa sul cuore.

Io detesto questo tipo di natale. Detesto questo voler assolutamente essere felici, a qualsiasi costo.

Per me il Natale non è questo. Non è cenoni pantagruelici. Non è regali inutili. Non è luminarie accecanti. Non è buonismo spinto all’eccesso. Non è superficialità zuccherosa.

Per me il Natale è aiutare il prossimo come meglio si può, sempre (tutti i giorni dell’anno). E’ regalare qualcosa di utile. E’ sobrietà e contenuti. E’ essere buoni dentro, sempre, senza negare i momenti “no”. E’ profondità di sentimenti reali.

Il Natale non si vive un solo giorno. Il Natale dovrebbe essere vissuto tutti i giorni.

So che può sembrare una frase scontata, ma forse è arrivato il momento di rifletterci seriamente, anzichè sbronzarci di inutilità.

Sicuramente ogni tanto fa bene distrarsi: serve per fuggire un momento dalle sempre più grandi difficoltà quotidiane. Ma, secondo me, va recuperato il senso delle cose. Il vero significato delle cose.

Non so, il Natale come lo viviamo noi a me non piace più.

Immagine tratta dal sito http://www.genitronsviluppo. com

Micro e Macro

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M.C. Escher – L’ombelico di Svesda

Qualche giorno fa mi è capitato di commettere una svista piuttosto importante: “mi è passato davanti un elefante” (come uso dire quando un dato, un fatto, una informazione è talmente grande da non essere vista dalla sottoscritta).

Ero concentrata su dettagli, sul controllo delle informazioni acquisite, su tutti quei particolari che – come tante tessere di un puzzle – compongono l’insieme di un progetto.

Riflettendo su questa svista (abilmente recuperata e ricomposta), ho pensato a quante volte mi sono concentrata sui dettagli, perdendo di vista il quadro d’insieme.

Quante volte mi sono concentrata su micro-idiozie, spendendo tempo ed energie in ragionamenti fini a se stessi ed inutili? Troppe.

Facendo così, quanti “elefanti mi sono passati sotto il naso”? Probabilmente tanti.

Tante volte ho detto, scherzando: “Se non mi mettete un cartello esplicativo davanti al naso con le scritte a caratteri cubitali, certe cose non le vedo!”

Per raccontarmela, e per giustificare la perdita di vista del “macro” a favore del “micro”, evidenzio con orgoglio la mia ossessione per la perfezione.

E questo comportamento, con il tempo, è diventata una abitudine che – sulla lunga distanza – ha creato qualche contrattempo chiamato “occasioni perse”.

Essere precisi ed attenti è un bene, ed una caratteristica apprezzabile, però per determinati compiti.

Ma la focalizzazione sui dettagli forse non è forse sempre adatta per la vita in senso lato; per quel lungo fiume che scorre ora placido, ora turbolento (a seconda dei casi).

Forse cercare di mantenere una visione d’insieme, mantenendo aperti i sensi e restando allerta e disponibile alle opportunità che possono presentarsi, è la migliore strategia.

Mi permette di non perdere di vista un obiettivo (guardando lontano) e di vedere contemporaneamente le diverse strade per raggiungerlo (strategia aperta e flessibile).

Al contrario, una visione focalizzata sul dettaglio, mi concentra su micro-passi e sul monitoraggio ossessivo di processi e “sul come deve essere”, in una sorta di iper-controllo e rigidità, facendomi perdere di vista tutto quello che intorno accade e che mi può essere d’aiuto.

Mi piace ricordare una metafora letta in un libro, che recita più o meno così: quando stai navigando su un fiume per raggiungere una meta, devi restare concentrato sulla destinazione, evitando di focalizzarti solo sugli ostacoli ed i dettagli che incontri nelle immediate vicinanze. (Mi piace pensare alla focalizzazione dello sguardo sul traguardo, utilizzando la visione periferica per tenere d’occhio eventuali ostacoli e variabili.)

Se opto per il primo metodo ho buone probabilità di raggiungere la meta.

Se opto per il secondo metodo, mi perdo in micro-problemi e micro-strategie, rischiando di non arrivare mai a destinazione (perdendo di vista la visione d’insieme utile per proseguire nel mio cammino: sia che si tratti di un obiettivo professionale, la consegna di un progetto, o altro, sia che si tratti di un obiettivo di vita).

Vuoto o spazio disponibile?

A breve si sposa una mia carissima amica che è stata una presenza costante nella mia vita degli ultimi dieci/dodici anni: abbiamo condiviso momenti difficili e momenti felici, abbiamo condiviso viaggi, esperienze e riflessioni.

Questo cambiamento bellissimo di vita a cui va incontro è – per me – una ulteriore occasione di riflessione su una serie di altri cambiamenti che stanno interessando la realtà entro la quale mi muovo: amiche che decidono di lasciare una brillante carriera per dedicarsi alla famiglia, matrimoni in crisi, conoscenti di lavoro che abbandonano una carriera ottima per andare in Africa ed adottare una bimba, società considerate solidissime e lanciatissime che stanno avendo rivoluzioni profonde, … .

Questa evoluzione della realtà da me osservata, unita a riflessioni di vita personali, contribuiscono ad alimentare una sensazione di destabilizzazione della quotidianità consolidata nel corso degli ultimi anni (zona di comfort), generando stati disagevoli di vuoto e disorientamento.

Invece, contrariamente a quanto si crede e si sperimenta, i “vuoti” che vengono a crearsi nella nostra vita non sono mancanze, bensì sono opportunità di nuove avventure e nuovi interessi.

Sono preziosi spazi disponibili che possono e devono essere riempiti con nuove attività e nuovi progetti (come quando facciamo spazio nelle nostre case privandoci di oggetti ed indumenti – a cui eravamo affezionati – che hanno fatto il loro tempo, o semplicemente non usiamo più).

I momenti di disorientamento sono attimi che richiedono la nostra massima attenzione, e tutto il nostro ascolto, perchè – diradata la nebbia dello smarrimento – sono occasione di emersione di nuove idee e nuovi corsi di vita che rispondo alla domanda: “E adesso cosa faccio?”

E tutto ciò non deve far temere la perdita di ciò che è stato sino ad oggi, perché – nel percorso di crescita – le esperienze costruttive del passato vanno ad arricchire le sfaccettature della vita come la superficie di una pietra preziosa (dalla composizione perfetta e priva di impurità) finemente tagliata ed intagliata, in grado di catturare e riflettere sempre più magnificamente la luce.