Deprogrammare: di design thinking e oltre

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Era da diversi giorni che volevo scrivere delle considerazioni personali sul corso di Design Thinking con Mafe De Baggis, Filippo Pretolani (aka Gallizio Lab) e Mauro Pellegrini (titolare del blog Forme Vitali).
Una sorta di riflessione a posteriori, cercando di fare un punto della situazione tra me e me su quanto mi ero portata a casa dalla giornata.

E confesso di avere fatto fatica all’inizio.
Non riuscendo a capirne il motivo.

Aspettative particolari? No.
Non avevo nessuna aspettativa.

Avevo deciso di frequentare il corso per un puro interesse personale.
Non avevo scopi professionali.
(Negli ultimi tempi questa mia spinta a frequentare giornate, ascoltare persone e sperimentare cose, è sempre più a scopo personale.)

Però stavolta, le prime ore post-corso mi avevano lasciato in uno stato di perplessità.
Qualcosa mi sfuggiva.
E non sapevo se si trattava di qualcosa a livello di contenuto trasmesso, o riguardava qualcosa di quanto da me percepito.
Ho avuto anche uno scambio di messaggi privati con una persona che aveva frequentato la precedente edizione, e qualcosa continuava a sfuggirmi.
(Quando qualcosa mi sfugge, inizio ad oscillare tra ansia e nervosismo, con la scarsa convinzione che si insinua strisciante.)

Uno dei tabelloni del corso
Uno dei tabelloni del corso

Poi ho capito.
Non a livello oggettivo (lungi da me il sentenziare qualcosa di assoluto), bensì a livello soggettivo.

Ho compreso che il concetto di “Design Thinking” è (era?) legato nella mia testa ad una interpretazione codificata del termine.

Sì, perché considero da tempo il Design Thinking come un sinonimo di Visual Thinking: la rappresentazione grafica di un processo creativo o di un pensiero.
Cadendo nell’errore che cerco sempre di evitare: modi e metodi per fare le cose.
Che fanno sempre più fatica ad adattarsi e a funzionare nel caos nel quale ci muoviamo costantemente.

Invece quello che mi sembra di avere compreso (e sul quale sto riflettendo in questi giorni) è che il Design Thinking è bene non venga identificato necessariamente in una o più tecniche precise ed univoche, bensì è necessario sia de-letteralizzato (citando un termine usato da Mauro Pellegrini durante la giornata), collocandolo su un livello diverso (non superiore, non inferiore, bensì diverso) che lo svincoli dal concetto noto di “disegno” e “facilitazione grafica” (tecnica utilissima per visualizzare pensieri, strategie, azioni…).

Credo debba essere considerato un modo di pensare.
Variabile da persona a persona.
E che quindi ogni persona conduce ed esprime in modo diverso.

Alcuni appunti sparsi della giornata
Alcuni appunti sparsi della giornata

Confesso di averci messo giorni per riuscire ad afferrare il concetto, che intuivo esserci ma non riuscivo a tradurre in parole.
Un concetto sfuggente.
Come quando ti trovi davanti a qualcosa che non hai mai visto prima e che – proprio per questo – non sai come chiamarlo.
E ti genera confusione, smarrimento e perplessità (“non capisco”).

E – come un cane che si morde la coda – nel momento in cui riesci ad afferrare l’idea, dandole un nome (etichettandola), corri il rischio di imbrigliarla daccapo in un metodo rigido e codificato.
Ricadendo nel (personale) errore iniziale.

Non è semplice, almeno per me.

Si tende a dare un nome alle cose per dar loro riconoscibilità.
E’ normale. E’ umano.
In questo caso invece credo si debba cercare di tenere in sospeso la nominalizzazione, lasciando che resti una idea declinabile di volta in volta.
Libera di adattarsi alla situazione e al momento che si vive.

Prendere appunti su carta Barbara Olivieri
Da una mia Moleskine (ragionamenti a ciclo continuo)

“The Leader Who Had No Title”

20121103-012236.jpgNon avevo mai sentito parlare di Robin Sharma, fino a quando non sono andata al seminario di William Ury sul “No Positivo” lo scorso 12 ottobre a Vicenza.

Lì, in una pausa del seminario, è stato presentato il prossimo evento del Club Mondiale della Formazione: una giornata sulla leadership proprio con lui.
Ed in quella occasione è stato proiettato un video dello stesso trainer, che si presentava e salutava i partecipanti, rimandandoli al prossimo evento del 24 maggio 2013, sempre a Vicenza.

Confesso che, essendo “settata” sui modi eleganti e misurati di William Ury, ascoltare (e vedere) il video di Sharma mi mise l’ansia. Il suo modo di parlare era troppo impositivo ed energetico.
Rimasi perplessa.
Spinta però dalla curiosità, e dall’annuncio dal palco di Mirco Gasparotto e Nello Acampora, mi ripromisi di leggere il libro “The Leader Who Had No Title” (uno dei suoi testi più noti).
Libro che – visto che c’ero – ho acquistato in inglese, in versione e-book (“Così mi esercito un po’ con la lingua e mi abituo ai formati digitali”, mi sono detta).
Nel frattempo ho dato una occhiata al suo canale You Tube, guardando qualche suo video.
Con la perplessità che cresceva sempre più.
“Troppo adrenalinico, troppo autocelebrativo!”, mi ripetevo tra me e me.
È stato quindi con grande scetticismo che ho iniziato a leggere il libro, ricevendo anche un feedback entusiasta da una amica che – invece – apprezza molto l’autore e ha letto quasi tutto quello che lui ha scritto.

L’inizio è stato abbastanza tiepido.
Leggevo cose a me abbastanza note.
E mi ritrovavo a ripetermi che, sì, sono cose interessanti, sono approcci alla vita abbastanza innovativi, sono regole valide, ma… Ma sono cose che si sentono dire da più parti, da tempo, nel mondo della formazione.
Insomma, “nulla di nuovo, nulla di stravolgente”, mi dicevo (proseguendo nella lettura).

Ed invece, ad un certo punto, o sono stata io che ho cambiato atteggiamento, o è stato il libro che ha avuto un impercettibile ma inesorabile cambio di marcia, fatto sta che sono entrata in “risonanza” coi contenuti che via-via incontravo.

Fino ad arrivare, alle ultime battute, ad un imprevedibile sblocco emotivo.
Non mi succedeva dai tempi di “Bianca come il latte, rossa come il sangue” di ritrovarmi con le lacrime agli occhi.
Se poi considero che, negli ultimi tempi, i libri di “crescita personale” mi erano venuti a nausea…

Probabilmente questo semplice testo deve essere andato (quatto-quatto) a toccare delle corde profonde.

Non è un libro complesso ed inavvicinabile.
È un libro gradevole, che si lascia leggere in modo scorrevole.
In forma di storia trasmette dei concetti che (se applicati) possono effettivamente operare dei cambiamenti.
Nulla di miracoloso.
Bensì una serie di sistemi di approccio e di modi di vita, che vanno applicati con costanza, ogni giorno. Proprio perché nessuna ti regala nulla. E nulla piove dal cielo.
Infatti è utile tenere bene a mente che, per conquistare qualcosa, si deve fare sempre un po’ di fatica, assumendosi le proprie responsabilità delle proprie azioni.

[Immagine di copertina tratta da www.learn2things.com]

Piantala di essere te stesso! – il seminario

Piantala di essere te stesso

Sono di ritorno da un weekend di “formazione personale” che si è svolto a Nimis (in provincia di Udine).

Il seminario si è basato sulla struttura di un libro intitolato “Piantala di essere te stesso!”.
È stato tenuto dallo stesso autore: Gianfranco Damico (coach e scrittore) ed organizzato da Claudio Marchiondelli.

Del libro (letto quasi un anno fa) ne ho già parlato in un altro articolo.
Oggi condivido l’esperienza del seminario.

È stato un ripasso dei contenuti del libro, un ampliamento degli argomenti ed un potenziamento della comprensione dell’importanza del linguaggio e delle dinamiche mentali.
Per me è stato motivo di ripresa di alcuni concetti, di intuizioni profonde e di incrocio di dati e conoscenze che – in questi anni – sono avanzate in ordine sparso e (apparentemente) scollegate tra loro.

Collegare tra loro la PNL (Programmazione Neuro Linguistica) alla Linguistica, al Coaching, alla Fisica Quantistica e alle Neuroscienze costituisce un allargamento dei propri confini di conoscenza.
Se poi si innestano anche i concetti lasciatici in eredità dalle filosofie orientali millenarie e dai filosofi che dall’antica Grecia giungono fino a noi, davanti a te si distende un universo del sapere (in continua espansione) capace di rovesciare punti di vista della realtà e capace di modificare profondamente opinioni che ci hanno condizionato sino ad oggi.

Tante sono le cose che mi hanno colpito. Una per me molto importante, è il sistema delle posizioni percettive (non smetterò mai di imparare da questo sistema): in una situazione di conflitto interlocutorio, l’avere la capacità di spostarsi dalla posizione percettiva soggettiva, a quella dell’interlocutore, alla “terza posizione” (osservando dall’esterno), è sempre fonte di comprensione di cosa e come possono essere letti eventi che sono per noi fonte di frustrazione.

Sì certo, questi weekend costano fatica e impegno.
Significa mettersi in discussione e fare scoperte a volte sgradevoli, ma che sono presagio di cambiamenti migliorativi (prendendo coscienza dei propri limiti).

Tornando a casa mi sono ritrovata a sentire un po’ di malinconia per questo bel weekend passato insieme a vecchie e nuove conoscenze. È come se – venendo via – avessi perso qualcosa.

Ma cambiando il punto di vista (la prospettiva) si può leggere invece una creazione di nuovi legami, un rinforzo di legami esistenti ed un ampliamento dei propri orizzonti intellettivi senza pari.

Continuando un viaggio che non avrà mai fine, perché sempre latore di nuove conoscenze…

Umiltà vs. Autostima

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Quanti di noi (della mia età, quindi attorno ai 40 anni) hanno ricevuto una educazione orientata all’umiltà, alla fatica, allo studio, alla non-ostentazione e alla serietà?
E quanti di noi (sempre della mia età) hanno ricevuto una educazione orientata al riconoscimento dei meriti, e dei traguardi raggiunti?

Io appartengo alla prima categoria.
Mio padre mi ha trasmesso la serietà nella applicazione allo studio, al metodo e al lavoro. Facendomi comprendere che per conquistare le “cose” bisogna fare fatica ed impegnarsi (arrivato dalla Puglia negli anni 60, con la valigia di cartone, ha fatto tutta la gavetta possibile ed immaginabile, ingoiando anche tanti cucchiai di “roba amara”).
Mia madre (di origini venete, con papà carabiniere di cui conservo un bellissimo ricordo) mi ha educato facendomi anch’essa comprendere l’importanza dello studio, dell’impegno, della serietà valorizzando e assecondando ciò che realmente volevo fare ed eventualmente correggendo un po’ la rotta.

Tutto bene. Tutto perfetto. Tutto sequenziale e logico.

Peccato che oggi – nel mondo di oggi – io stia accusando alcune difficoltà di gestione della realtà odierna: una realtà ben nota a tutti. Dove la meritocrazia sembra (e sottolineo “sembra”) scomparsa. Dove la serietà (non seriosità) sembra una caratteristica tipica degli stupidi e dei noiosi. Dove per emergere devi far vedere (e strombazzare ai quattro venti) che tu sei il migliore, altrimenti non vieni notato. E vieni sorpassato da chi sa vendersi meglio.
Potrei andare avanti ad elencare, ma sono fattori ben noti a tutti…

Io non sono stata educata a coltivare la mia autostima. Sono stata educata a coltivare la cultura, il sapere e la professionalità, nella (presunta) certezza che questo fosse più che sufficiente per emerge e progredire, nel rispetto degli altri, e con umiltà.
Ed iniziare a coltivare oggi la propria autostima (a 44 anni suonati) non è una cosa semplice; soprattutto se sei timido e riservato. E sei cresciuto percorrendo e perseguendo un determinato stile di vita.

Qualche giorno fa un amico (Eugenio), ha commentato il mio precedente post di questo blog, facendomi un discorso sulla autostima. Mi ha fatto molto piacere leggere le sue riflessioni e mi ha instillato un po’ di fiducia nei miei mezzi e nelle mie capacità. Contemporaneamente però devo continuare a convivere con una impostazione educativa e mentale di un certo tipo, consolidata in anni e anni di vita.

Che fare, quindi?
Non ho la soluzione in tasca: vado avanti per tentativi-ed-errori, con difficoltà, continuando a studiare, informarmi, approfondendo argomenti e facendo parlare il mio lavoro; cercando strumenti adatti a me per comunicare con il mondo (in questo mi sono venuti in aiuto i social network, che rappresentano un canale di diffusione dei propri pensieri ed idee, ed un interessante strumento aggregatore di menti affini).
Continuo…
Continuo a cercare ciò che può essere consono, combattendo la stanchezza, la rassegnazione ed i momenti di sconforto (quando manderesti tutto e tutti al diavolo).
Nutrendo la speranza e la convinzione che alla fine si riesce a trovare il modo di comunicare e di valorizzarsi più consono a sé stessi.

A lezione di Personal Branding e Talento

“Con l’obiettivo di costruire una solida immagine di se.
Con l’obiettivo di non arrestarsi ad un metro dal traguardo.
Con l’obiettivo di abbandonare porti sicuri per conoscere nuove realtà.
Con l’obiettivo di muoversi ed essere nomadi per andare ad imparare da chi ne sa più di me.
Il tutto coi giusti tempi e ritmi, ma senza essere troppo lenti, e fidandosi dell’istinto.
Andiamo incontro al 2012…” [appunti dalla Timeline di Facebook – 21 dicembre 2011]

La riflessione che ho riportato qui sopra, scritta alla fine del 2011, rappresenta la traccia che spero di perseguire in questo 2012 (annusando la rete e restando ricettiva alle proposte che – confido – di incrociare lungo il corso dell’anno), con l’obiettivo di mantenere aperto un percorso di formazione permanente, che esuli da corsi di specializzazione meramente tecnici.

La partenza è decisamente ottima: ho ascoltato Massimo Lumiera in una Master Lecture di Casa Imbastita Campus (e venerdì prossimo parteciperò alla presentazione della nuova sede del Piemonte) e sabato scorso sono andata a Villafranca di Verona, ad ascoltare Sebastiano Zanolli sul Personal Branding (nella cornice del bellissimo Museo Nicolis).

Avevo già avuto modo di ascoltare Sebastiano per mezza giornata durante un corso residenziale a Livorno, restando con la necessità di voler sapere di più (troppo poco tempo con troppa carne al fuoco). E ho colto l’occasione di questa giornata di formazione per tornare ad ascoltarlo, per imparare qualcosa di più che uscisse dai confini del digitale (di cui avevo ascoltato da Luigi Centenaro in un Coaching Lab).

E’ stata una giornata ricca di spunti e riflessioni.

Museo Nicolis - Immagine tratta dal sito www.gardalake.com
Immagine tratta dal sito www.gardalake.com

Sebastiano ha condiviso idee su come procedere nella costruzione del proprio Brand, suggerendo trucchi del mestiere, domande strategiche da porsi ed indicando quali possono essere gli errori più comuni nei quali si rischia di scivolare.

La presenza di Simone Ardoino di Creare Passaparola, è stata occasione per un rapido excursus sui social network più comuni (fonte e porta di accesso ad infinite possibilità, avendo cura di ciò che si condivide…).

Insieme ad un gruppo variegato di persone (provenienti dagli ambiti professionali più disparati: dal web, al tecnico, all’assicurativo, al design, alla moda,…), si è ragionato, si sono condivise esperienze lavorative e abbiamo acquisito tutti qualche strumento in più, da mettere nella nostra cassetta degli attrezzi e da utilizzare per costruire qualcosa di nuovo o di diverso.

Ed oggi, riflettendo sull’esperienza vissuta, ho pensato che un fondamento importante da tenere presente, la base di partenza, è comunque essere sé stessi (con le proprie caratteristiche che ci distinguono dagli altri, le nostre unicità, i nostri valori), essere congruenti (pensare ciò che si fa e fare ciò che si pensa), ascoltarsi ed apprezzarsi per quello che si è (nelle innumerevoli sfaccettature create dalla nostra esperienza).

Perchè sì, va bene, imparare tecniche di costruzione e affinamento del proprio Brand (inteso come persona fisica). Va bene, costruire a tavolino la “gioiosa macchina da guerra”. E va bene, imparare le tecniche di estrazione del proprio talento.

Ma quello che ci distingue dagli altri è la nostra unicità: tutto un bagaglio di esperienze professionali e non, che – stratificandosi – ci hanno formato e ci hanno reso unici. Secondo me questo costituisce le fondamenta per scovare i nostri talenti e costruire il proprio autentico Personal Branding (non frutto di idee e spunti “altri”).

Perché se non c’è questo lavoro di partenza (e si costruisce un brand personale a tavolino, senza fare tesoro del proprio bagaglio culturale), è come se si iniziasse a costruire una casa dal tetto (oltre che risultare poco credibili), con risultati insoddisfacenti.

Immagine tratta da Viadeo Blog

La “Crescita Personale”, un arma a doppio taglio.

Immagine tratta dal blog Efficamente

Frequento corsi di “crescita personale” dal 2007.

Approdata per ragioni personali (dalla parola stessa), come è successo (e succede) a tante persone quando iniziano a frequentare questi corsi, è nata la passione per la Programmazione Neuro Linguistica, il Coaching, la Negoziazione e la Leadership.

E la naturale conseguenza è stata quella di iscrivermi alla Scuola per Coach per diventare un Coach.

Ora, a distanza di qualche anno e continuando a frequentare i corsi, sorgono dubbi e riflessioni.

Riflessioni dettate dalle esperienze lavorative, dalle riflessioni private e dagli scambi di opinioni che nel frattempo ho avuto con amici.

La cosa che più mi inquieta è che, confrontandomi con persone che stanno seguendo percorsi di crescita personale (di vari generi e scuole: dai più concreti ed operativi, ai più spirituali), ho percepito una sorta di dipendenza.

La “materia” è sicuramente affascinante ed occasione di grande arricchimento (leggendo alcuni – non tutti – libri sull’argomento, si aprono moltissime porte che ti fanno esplorare nuovi campi, leggere nuovi libri, sviluppare nuovi interessi), ma su alcuni soggetti “sensibili” rischia di aprire dei “loop” nei quali si entra e si inizia a percorrere in circolo un sentiero autoreferenziale.

Si vede la realtà sempre sotto la stessa lente, si valutano le persone (e gli amici) solo seguendo determinati procedure o schemi, si danno consigli non richiesti, si leggono solo ed esclusivamente libri attinenti l’argomento, escludendo a priori altri libri di altri generi (narrativa, saggistica, avventura) e discussioni su argomenti “leggeri”.

Nel “loop” l’Ego si ingigantisce sempre più e ci si auto-considera “guru” di qualcosa, sentenziando e perdendo gradualmente il contatto con la realtà fatta anche di gestione concreta dei problemi.

In questo processo il passo successivo, secondo me, è la presa di decisioni molto rischiose:

  • visto che l’azienda per cui lavoro non rispecchia i miei valori, do’ le dimissioni (“salto senza rete”);
  • visto che non mi piace più il lavoro che faccio, lo lascio (senza avere preparato una alternativa);
  • voglio fare il Coach (senza avere valutato realmente le proprie capacità: un conto è che ti piace qualcosa, un conto è quello che sai fare, quello per cui hai talento);
  • ecc..

A volte penso che la “Crescita Personale” sia un’arma a doppio taglio: un insieme di strumenti in grado di apportare qualità nella vita di un individuo, ed un insieme di strumenti che – se non adeguatamente compresi e gestiti – possono generare dinamiche comportamentali dannose.

Il Coaching, la PNL e le altre discipline affini devono – sempre secondo me – aiutarti a ragionare con maggiore lucidità, ad uscire dai “loop” negativi nei quali ci si impiglia in alcuni momenti, a farti gestire gli stati d’animo in maniera migliore, a farti prendere decisioni migliori e funzionali, a farti vedere le cose da più punti di vista.

Invece, in alcuni casi, rappresentano un’ancora di salvezza, un rifugio dalla realtà, che può farti perdere la rotta e farti credere cose non reali e non correttamente ponderate.

Come tutti gli strumenti sofisticati può fare molto bene e può fare molto male, dipende dall’uso che se ne fa.

Secondo me l’abilità sta nel testare gli strumenti che si acquisiscono su se stessi, utilizzandoli per tracciare la giusta rotta, mantenendo un confronto costruttivo con la realtà fatta di conoscenze acquisite (cultura acquisita) e confronti con amici, mentori, referenti, che possono anche avere idee diverse dalle tue (e guardarti con scetticismo) ma possono anche funzionare egregiamente come “contro-bilanciatori” in grado di farti scegliere le giuste strategie, considerando sempre che la decisione finale è sempre e solo tua.

Ciò che ho scritto in questo post scaturisce da riflessioni che sto intensificando in questi ultimi tempi, a conclusione del percorso della Scuola per Coach. Ho attraversato (e sto attraversando) fasi di grande motivazione nel volere fare il Coach, e altrettanti grandi momenti di riflessione:

  • Ha senso cambiare rotta con una brusca virata, abbandonando a 43 anni quanto fatto sino ad oggi per andare a fare una cosa completamente diversa?
  • Mi piacerebbe realmente fare il Coach?
  • Ho le capacità necessarie?
  • Come posso utilizzare quanto imparato ad oggi come un valore aggiunto per riconfigurare la mia attuale professionalità?
  • Come posso incardinare queste nuove conoscenze con le conoscenze acquisite in quasi 15 anni di lavoro?
  • Come posso incardinare 15 anni di esperienze tecniche pregresse in una nuova figura professionale di Coach?

Queste domande potrebbero essere una traccia di un esame di coscienza da farsi durante questi percorsi di crescita, ascoltandosi molto attentamente mentre si risponde, individuando eventuali falsi segnali che possono farci prendere decisioni sbagliate.

“Piantala di essere te stesso!”

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 Seguo la PNL ed il Coaching dal 2007. Ho fatto (e sto facendo) tanti corsi. Ho letto tanti libri; alcuni li ho piantati a metà perchè noiosi e/o incomprensibili, o semplicemente perchè non era il momento giusto per leggerli.

Ho spaziato dai testi di PNL e Coaching, andando ad esplorare altre aree di “crescita personale” un po’ “particolari”, sconfinando nella Legge di Attrazione (portata alla conoscenza del grande pubblico con il libro “The Secret”), nella Fisica Quantistica, nel Transurfing (una variazione sul tema della Fisica Quantistica)… Avvicinandomi alla Intelligenza Emotiva di Daniel Goleman (non ancora esplorata approfonditamente).

Mi sono incuriosita nel leggere teorie difficilmente accettabili, al limite della fantascienza (meno ne parlavo con i miei amici e meglio era, per non passare per matta), ma con una loro logica intrinseca.

Tante discipline ed argomenti che non riuscivo a mettere assieme in un continuum organico. Mi dicevo: “O segui questa teoria, o segui un’altra teoria!”, non riuscendo a vedere il filo logico che le legava.

Poi un giorno, alla Feltrinelli di Corso Buenos Aires di Milano, mentre cercavo dei libri senza una meta precisa, sono stata catturata dalla presentazione di un libro dal titolo “Piantala di essere te stesso!”, di Gianfranco Damico (ed. Urra). L’ho visto esposto, l’ho guardato e incuriosita dal titolo (apparentemente in contrapposizione con quanto affermato da tanti guru della crescita personale che affermano l’importanza dell’essere se stessi) l’ho acquistato.

Iniziato a leggere subito, in treno tornando a casa, sono stata catturata dalla freschezza del linguaggio e dall’assunto di partenza: un modo molto diverso di vedere il concetto dell’essere se stessi.

Un interessante viaggio tra la PNL, la Fisica Quantistica e la Filosofia, in grado di legare queste “teorie” tra loro, capaci – tutte assieme – di cambiare il modo di vedere la propria realtà, e di diventare costruttori del proprio futuro (bella la metafora dell’assistente dell’Architetto e dell’Idraulico).

Mi è piaciuto anche l’utilizzo del linguaggio: ironico, evocativo e “italiano”. Infatti uno dei grandi pregi di questo libro è proprio il lavoro svolto, di tradurre/trasferire in un linguaggio comprensibile alla nostra cultura, concetti che altrimenti potrebbero risultare un po’ difficili (alcuni provenienti dal mondo anglosassone); inserendoli nella nostra quotidianità, incrociandoli con l’ambiente nel quale viviamo e la lingua che parliamo (ho la personale convinzione che la lingua italiana sia estremamente complessa e sfaccettata, ricca di tantissimi significati difficilmente ritrovabili in altre lingue europee).

Bellissima le considerazioni sulla favola di Pinocchio: mi hanno fatto riflettere anche sul dialogo serrato che c’è con mio padre (che considero il mio coach-stabilizzatore), che porta spesso a scontri generazionali sulla profonda diversità di vedute che abbiamo.

Un libro da leggere e da tenere a portata di mano, per riprendere qualche passo ogni tanto, e da utilizzare come base di partenza per sviluppare un viaggio di approfondimento culturale e conoscitivo, grazie alla cospicua bibliografia inserita in coda al testo.

Ma soprattutto un punto di partenza per un viaggio dentro se stessi e per se stessi, ascoltando noi stessi e la nostra grande capacità di catturare la Filosofia delle cose (spesso sottovalutata e sepolta sotto le solite sovrastrutture mentali).

[Nell’immagine di copertina Gianfranco Damico e Andrea Bettini in “Da lunedì inizio” – http://www.andreabettini.me/da-lunedi-inizio-gianfranco-damico/]

Civiltà del fare… Civiltà del pensare…

Qualche tempo fa, facendo qualche riflessione a ruota libera su quello che sta succedendo nel mondo del lavoro e nella vita quotidiana, mio padre ha fatto una constatazione interessante: “La mia epoca era una civiltà del fare, adesso è il momento della civiltà del pensare“.

Questa affermazione mi ha dato lo spunto per fare qualche riflessione personale.

Effettivamente l’epoca dei nostri genitori è stata una epoca che, per condizioni socio-politiche e storiche, ha realizzato concretamente molto.

Oggi, abbiamo raggiunto un tale stato di benessere – in senso lato – che stiamo “pensando”, forse anche troppo.

Troppe riflessioni, troppe dissertazioni sui “massimi sistemi”, troppi ragionamenti su come potrebbe essere fatta qualsiasi cosa.

Ho frequentato molto il web in questi ultimi mesi, leggendo molti blog, partecipando ad alcuni forum e leggendo di tanti maestri spirituali. La sensazione che ho è quella di sentire tante voci che parlano per il puro gusto di parlare (attività assai piacevole, peraltro) ma che stanno perdendo il contatto con la realtà.

Di conseguenza la sensazione che ho (per una mia formazione mentale) è quella di “inconcludenza”.

Per come ragiono, per la quotidianità che vivo e per il lavoro che faccio, secondo me la “chiave di volta” è nel ritorno alla civiltà del fare.

Ho sperimentato e percorso per molti mesi ambiti spirituali/filosofici che mi hanno arricchito (contribuendo in maniera sostanziale ad un miglioramento dello stato di benessere), ma la realtà quotidiana è fatta d’altro: è fatta di concretezza, di realizzazione di oggetti, di procacciamento di beni di consumo.

Navigando in rete vedo troppi consulenti dalle dizioni più variegate e pochi “artigiani” (identifico con la parola “artigiani” coloro che fanno qualcosa di concreto, che producono qualcosa di concreto, che costruiscono qualcosa di concreto).

Ho la sensazione che andando avanti così la tendenza sia quella di ritagliarsi ruoli di “consulenti di immateriale” (tanti manager, tanti gestori, tanti esperti di crescita personale e maestri spirituali), volendo così assurgere a livelli alti di concetto e rifiutando ruoli operativi effettivamente necessari alla quotidianità, scollandosi dalla realtà (come se fosse una fuga e un rifiuto di assunzione di responsabilità).

Forse è arrivato il momento di tornare coi piedi per terra, spogliandosi di ruoli manageriali (anche assunti in tempi prematuri): mi fanno sorridere Project Manager giovanissimi, imbottiti di concetti astratti imparati in master costosissimi, che gestiscono progetti secondo schemi precostituiti, senza considerare le varibili che situazioni reali e concrete comportano e – di conseguenza – trovandosi incapaci davanti alle reali difficoltà.

E ho visto persone “perdersi” alla ricerca di chimere, smarrendosi in filosofeggiamenti e non concludendo nulla, gettando alle ortiche la propria vita.

Nel corso di varie esperienze lavorative ho imparato moltissimo da muratori, carpentieri, idraulici, elettricisti… e non solo a livello tecnico, ma anche a livello umano (il cantiere è una grossa scuola di vita): la sapienza e la saggezza che scaturiscono dalle esperienze di vita sono di inestimabile valore.

E per lasciare un segno nell’universo non è necessario essere un maestro spirituale; si lascia un segno nell’universo anche e soprattutto facendo bene il proprio lavoro e vivendo seguendo i propri valori.