
Era da diversi giorni che volevo scrivere delle considerazioni personali sul corso di Design Thinking con Mafe De Baggis, Filippo Pretolani (aka Gallizio Lab) e Mauro Pellegrini (titolare del blog Forme Vitali).
Una sorta di riflessione a posteriori, cercando di fare un punto della situazione tra me e me su quanto mi ero portata a casa dalla giornata.
E confesso di avere fatto fatica all’inizio.
Non riuscendo a capirne il motivo.
Aspettative particolari? No.
Non avevo nessuna aspettativa.
Avevo deciso di frequentare il corso per un puro interesse personale.
Non avevo scopi professionali.
(Negli ultimi tempi questa mia spinta a frequentare giornate, ascoltare persone e sperimentare cose, è sempre più a scopo personale.)
Però stavolta, le prime ore post-corso mi avevano lasciato in uno stato di perplessità.
Qualcosa mi sfuggiva.
E non sapevo se si trattava di qualcosa a livello di contenuto trasmesso, o riguardava qualcosa di quanto da me percepito.
Ho avuto anche uno scambio di messaggi privati con una persona che aveva frequentato la precedente edizione, e qualcosa continuava a sfuggirmi.
(Quando qualcosa mi sfugge, inizio ad oscillare tra ansia e nervosismo, con la scarsa convinzione che si insinua strisciante.)

Poi ho capito.
Non a livello oggettivo (lungi da me il sentenziare qualcosa di assoluto), bensì a livello soggettivo.
Ho compreso che il concetto di “Design Thinking” è (era?) legato nella mia testa ad una interpretazione codificata del termine.
Sì, perché considero da tempo il Design Thinking come un sinonimo di Visual Thinking: la rappresentazione grafica di un processo creativo o di un pensiero.
Cadendo nell’errore che cerco sempre di evitare: modi e metodi per fare le cose.
Che fanno sempre più fatica ad adattarsi e a funzionare nel caos nel quale ci muoviamo costantemente.
Invece quello che mi sembra di avere compreso (e sul quale sto riflettendo in questi giorni) è che il Design Thinking è bene non venga identificato necessariamente in una o più tecniche precise ed univoche, bensì è necessario sia de-letteralizzato (citando un termine usato da Mauro Pellegrini durante la giornata), collocandolo su un livello diverso (non superiore, non inferiore, bensì diverso) che lo svincoli dal concetto noto di “disegno” e “facilitazione grafica” (tecnica utilissima per visualizzare pensieri, strategie, azioni…).
Credo debba essere considerato un modo di pensare.
Variabile da persona a persona.
E che quindi ogni persona conduce ed esprime in modo diverso.

Confesso di averci messo giorni per riuscire ad afferrare il concetto, che intuivo esserci ma non riuscivo a tradurre in parole.
Un concetto sfuggente.
Come quando ti trovi davanti a qualcosa che non hai mai visto prima e che – proprio per questo – non sai come chiamarlo.
E ti genera confusione, smarrimento e perplessità (“non capisco”).
E – come un cane che si morde la coda – nel momento in cui riesci ad afferrare l’idea, dandole un nome (etichettandola), corri il rischio di imbrigliarla daccapo in un metodo rigido e codificato.
Ricadendo nel (personale) errore iniziale.
Non è semplice, almeno per me.
Si tende a dare un nome alle cose per dar loro riconoscibilità.
E’ normale. E’ umano.
In questo caso invece credo si debba cercare di tenere in sospeso la nominalizzazione, lasciando che resti una idea declinabile di volta in volta.
Libera di adattarsi alla situazione e al momento che si vive.
