
The most effective business leaders don’t pretend to have all the answers; the world is just too complicated for that. They understand that their job is to get the best ideas from the right people, whomever and wherever those people may be.
La frase qui sopra è tratta dall’articolo pubblicato sulla Harvard Business Review: If Humility Is So Important Why Are Leaders So Arrogant?
Articolo che tratta dell’ancora esistente stile di leadership aggressivo e arrogante.

Il messaggio fondamentale che passa dalle parole di Bill Taylor (che ho colto) è della importanza del riconoscere del “non sapere”.
Un atteggiamento di umiltà intellettuale che non è sinonimo di debolezza e di mancanza di capacità di leadership.
Tutt’altro.
È nell’immaginario collettivo che la parola “umiltà” ha assunto – nel tempo – una accezione negativa, da perdente (inteso come colui/colei privo di risorse e quindi privo di potere).
Ma il suo significato è ben più profondo e alto.
Infatti una delle tante definizioni di “umiltà” che si trovano in rete è quella riportata qui sotto.
Virtù per la quale l’uomo riconosce i propri limiti, rifuggendo da ogni forma d’orgoglio, di superbia, di emulazione o sopraffazione.
Una definizione che cela tra le righe una descrizione di Leadership (proprio con “L” maiuscola) di grande spessore.
Accompagnata da una parola importante: virtù.

Quanto letto nell’articolo mi ha richiamato alla memoria un altro post letto di recente: Storie di leader che sbroccano.
Titolo un po’ particolare, ma che tratta di un argomento non così scontato.
Infatti Luca D’Ammando (autore del post) riflette sulla possibile fine dell’era dei CEO dall’Ego molto forte, alcuni dei quali al limite del sociopatico (pare infatti che un’alta percentuale di CEO abbia caratteristiche comportamentali orientate in tal senso).
(Tra i casi eccellenti viene menzionato Elon Musk, autore di recenti esternazioni “insolite” su Tesla e la sua quotazione in Borsa che hanno portato successivamente ad un rapido dietrofront con relativa multa da parte delle autorità [ma non solo, perché nel frattempo si è reso protagonista di altre stravaganze]).

E tutto ciò mi ha fatto riflettere su due libri letti di recente: la biografia di Elon Musk scritta da Ashlee Vance (edita in Italia da Hoepli) e “Hit Refresh” scritto da Satya Nadella, CEO di Microsoft (edito in Italia da ROI Edizioni).
Due libri che raccontano due storie (due modalità di pensiero), tratteggiando il carattere dei due protagonisti. Carattere che si esplica attraverso le loro gesta e che individua due stili direttivi molto diversi.
Il primo profondamente egoico (nella sua genialità) e autoreferenziale (al limite del dispotico).
Il secondo più condiviso, aperto e di ascolto.

Procedendo nella osservazione/riflessione, mi è venuto spontaneo fare una ulteriore considerazione legata alla nazionalità (intesa come Paese di origine) e alla loro storia personale, che penso abbiano inciso ed incidano sullo stile di conduzione e dialogo con l’altro.
Sudafricano e con una storia personale e familiare complessa (il primo), indiano e con trascorsi di vita molto diversi (il secondo), entrambe comunque accomunati da drammi familiari, suggeriscono la formazione e sviluppo di due caratterialità profondamente diverse.
Che hanno portato la costruzione di due professionalità e carriere diverse.
E la personale convinzione che nutro è che quanto noi acquisiamo e viviamo nelle prime fasi formative della nostra vita (derivanti dalla famiglia e dall’ambiente sociale e culturale nel quale cresciamo), lasci tracce che daranno una impronta al nostro stile di leadership.
Con questo però non voglio dire che si tratta di un processo irreversibile ed impermeabile a possibili cambiamenti.
Tutt’altro.
Si può cambiare lungo la strada.
Se si vuole.
Va presa coscienza di quello che si è e della strada che si è percorsa.
Di quello che si è vissuto e si è acquisito.
Della propria storia personale.
Utilizzando il bagaglio di esperienza come punto di partenza per possibili cambiamenti.
[Fonti immagini:
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