Donne, management e speaker

Scarpe Lauboutin [citazione per
Scarpe Lauboutin© [citazione per “House of Cards” ed il personaggio di Claire Underwood]
Scorrendo gli eventi che si susseguono e che vengono annunciati per i prossimi mesi, mi sto accorgendo di una cosa (già notata da altri da tempo, ma su cui non avevo mai prestato particolare attenzione): trovare speaker e conferenzieri donna è una rarità. (Sì, lo so, probabilmente ho fatto la scoperta dell’acqua calda…)

Vedendo gli speaker della prossima convention degli Alumni Polimi (tutti uomini),
vedendo gli speaker dell’imminente Forum delle Eccellenze (dove ce n’è una sola: Renée Maurbogne, coautrice del libro “Strategia Oceano Blu”),
vedendo i relatori del prossimo World Business Forum di Milano che su 15 relatori vede solo 3 donne (nella scorsa edizione non ce n’è stata neanche una e – se non ricordo male – nel 2013 c’è stata solo Susan Cain),
vedendo i trainer e formatori di corsi che frequento (quasi tutti uomini),
ricordando una considerazione di Olivia Schofield (keynote speaker e membro del Toastmasters) che già l’anno scorso evidenziava la scarsa presenza femminile tra i “contestant” della convention del Toastmasters International dell’anno scorso di Kuala Lumpur (motivando le donne a partecipare di più),
mi sono chiesta: “Possibile che siano così poche le donne adatte a calcare il palco come speaker o trainer?”

No, non credo.

Chi mi conosce sa che professionalmente non faccio nessuna distinzione tra uomini e donne.
Professionalmente ho sempre considerato tutti gli attori in gioco come “persone” e “individui”.
E come tale ho sempre valutato e considerato le capacità di ognuno, indipendentemente dal sesso dell’interlocutore.
(E non risparmio strigliate al genere femminile quando fa leva su alcune caratteristiche peculiari per ottenere vantaggi.)

Ho sempre guardato con una certa perplessità amiche e conoscenti che si dedicano esclusivamente alla interlocuzione con il mondo femminile, facendo training, informazione, ecc. ecc., specificamente dedicato.
Ma devo dire che adesso (forse a furia di sentirne parlare), mi sto accorgendo anche io che c’è qualcosa di incomprensibile.

E non mi convince la lettura di imputare esclusivamente al mondo maschile questa esclusione.
Penso che molto dipenda anche da noi (femminucce), che non facciamo quello che dovremmo (e vorremmo) fare, raccontandocela tra di noi in club e clan chiusi in recinti (con le conferenze sul ruolo della donna che vedono – paradosso – relatori uomini sul palco, è successo, giuro…).
(Personalmente mi hanno sempre lasciato molto perplessa le iniziative – conferenze, tavole rotonde, ecc. ecc. – dedicate ad un pubblico femminile con l’intento di ragionare attorno al “problema”. Mi hanno sempre dato l’idea della “riserva indiana” autoreferenziata)

Tutto ciò mi è venuto in mente leggendo ieri un articolo sul tema su Business Insider: 12 ways women unknowingly sabotage their success.
(Senza dimenticare anche un articolo, comparso sull’Huffington Post, qualche tempo fa che la dice lunga – secondo me – su come alcune donne percepiscono alcune figure femminili; percezione che crea un cortocircuito mentale interno ad un certo gruppo del genere femminile stesso, sul quale si potrebbero spendere molte parole: Ho 40 anni e neanche un figlio. E sono una donna felice)

Mi rendo conto che quanto scritto qui possa essere un po’ scomodo e passibile di polemiche a non finire.
Ma la mia vuole essere solo una riflessione per la quale ogni contributo è ben accetto.
E che spero stimoli una riflessione in ognuna di noi (leggete l’articolo di Business Insider: anche se è in inglese, è facilmente comprensibile e offre interessanti spunti di approfondimento).

Crescere

nodoCrescere costa fatica.
Fatica nel superare dei nodi parecchio intricati.
Ci sono appena passata e non è stato facile.

Non è stata la prima volta e non sarà neanche l’ultima: la vita personale e quella professionale (ormai strettamente interlacciate tra loro) sono costellate di questi nodi.

Però – come aveva anticipato una amica – una volta che sei dall’altra parte, che hai superato questi nodi (sciogliendoli con più o meno fatica), stai meglio e tutto ricomincia a scorrere in modo più fluido.
Molte cose piano-piano si riposizionano secondo una nuova configurazione di equilibrio.

Sì certo, quando sei dentro la fase di transizione, tutto è difficile.
Sei dentro una grossa turbolenza con i pensieri che schizzano da una parte all’altra come delle palline in un flipper impazzito.
Le emozioni si fanno sentire in modo sgradevole, togliendoti lucidità mentale.

E costa…
Costa sudore e lacrime. Alcune anche amare.

Però…

Però devi tenere duro.
Devi stringere i denti.
Devi farti coraggio e fare anche il lavoro sporco: guardare in faccia i tuoi demoni, le tue paure, immergerti nella “palta” dei brutti pensieri e starci, fronteggiandoli.

E poi magari devi anche scegliere.
Certo.

Però…
Però devi sempre-sempre-sempre ricordarti (con l’ultimo barlume di lucidità mentale che mantieni nel mezzo del caos e delle pressioni) che queste fasi di mutazione hanno una fine. Un termine.
E che quando sarai di là, sarai migliore e – comunque sia – avrai imparato delle cose nuove.

Sarà diverso.
Sicuramente più funzionale.
E – per come la vedo io – il “più funzionale” porta sempre qualcosa di buono.
Anche se di primo acchito così non appare.

Quindi avanti così…
Sciogliendo nodi e districando matasse…

[Immagini tratte dal Google Image]

La Disincastratrice di Oggetti

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Ieri sera scherzavo on-line con degli amici a seguito di un episodio che era accaduto durante la giornata e che aveva suscitato la mia ilarità (visto che era già successo a me diverse volte): c’è una signora che viene una volta alla settimana a darmi una mano a tenere in ordine la casa e ieri, lavando i piatti, ha messo un bicchiere dentro una tazza e questo si è incastrato.
Dopo ripetuti tentativi andati a vuoto, ha rinunciato – mortificata – a disincastrare i due oggetti ad evitare di sfasciare il tutto.
Mia madre ha versato un po’ di acqua ed olio nella tazza, sperando le superfici diventassero scivolose. Ma non c’è stato niente da fare.
E ieri sera – rientrata a casa – non ho potuto fare altro che constatare che i due oggetti erano ben incastrati fra loro.

Mi è già accaduto qualche volta con i bicchieri e la situazione l’avevo risolta picchiando un paio di volte, in modo secco e deciso, sul bordo del lavello per sbloccarli e liberarli.
Ma stavolta no. Sentivo che non avrebbe funzionato: la tazza è più fragile del robusto vetro del bicchiere Ikea, e avevo la certezza matematica che se avessi usato lo stesso metodo avrei sicuramente spaccato la tazza (natalizia di Winnie the Pooh… assolutamente da salvare!).

Così dopo avere provato manualmente, ho pensato di usare un martello e di operare con 2-3 piccoli colpi secchi lungo la loro linea di contatto, affidandomi all’istinto.
E così ho fatto, disincastrando – con un colpo di fortuna – i due oggetti, senza danneggiarli.

E, commentando l’episodio on-line con gli amici, ho fatto la battuta scrivendo: “Ho un futuro: la Disincastratrice di Oggetti!”, precisando che avevo già svolto questo ruolo in altri contesti (in ufficio) disincastrando fogli aggrovigliati e lacerati nella fotocopiatrice, utilizzando delle pinze (dove le dita non arrivavano senza rischiare tagli ed ustioni). Ed una mia amica ha commentato (tra il serio ed il faceto): “C’è sempre un oggetto da disincrastrare!”

Facendo questa operazione, e pensando alla frase dell’amica (a metà tra una considerazione “detta così”, ed una sottile metafora) mi sono resa conto anche di quello che qualche ora prima avevo detto ad un’altra persona: “In genere mi perdo in un bicchiere d’acqua, affogo in una pozzanghera. Mentre quando invece sono dentro una burrasca, resto – paradossalmente – calma e cerco le soluzioni…”

Ora, disincastrare un bicchiere da una tazza non è un macro-problema di enormi dimensioni. Male che vada spacchi tutto, con buona pace della tazza di Winnie The Pooh, però…
Però, cosa ho fatto? Mi sono messa davanti agli oggetti (il problema), ho pensato ai materiali di cui erano fatti (struttura del problema), ho preso il martello (strumento per risolvere il problema) e con poche azioni ottimizzate ho risolto la questione.

Possibile che dal disincastrare una tazza ed un bicchiere si possa trarre un piccolo insegnamento su come risolvere i problemi?
Possibile che da uno stupido ed insignificante problemino casalingo, si possano estrarre macro-regole per la risoluzione di macro-problemi?
Può essere…
Perché “alla fine della fiera”, tutto si riduce a tre semplici passaggi: problema –> analisi della struttura del problema (e sua semplificazione) –> soluzione con gli strumenti adatti usati in modo adeguato (una pinza per i fogli incastrati, un martello per il binomio tazza-bicchiere).
Con buona pace di tutte le costosissime teorie super-sofisticate.

Sto delirando?
Può essere…

D’altronde stavo solo disincastrando un bicchiere da una tazza (di Winnie The Pooh…)…

Qualche riflessione su sé stessi…

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Ultimamente ho seguito un corso di formazione istruttivo ed energetico, come è nello stile del trainer che lo ha tenuto, in una location molto particolare, fortemente simbolica e intellettivamente/emozionalmente stimolante (il Dunant Hotel)
Un corso dal titolo curioso ed emblematico: Jo.Y (Join You). Un corso durante il quale mi ero ripromessa di fermare le bocce, per fare un po’ il punto della situazione (un bilancio tutt’ora in corso e che credo avrà un’onda lunga).

Tra le innumerevoli e validissime informazioni e riflessioni scaturite dalla mente iperattiva del formatore, una cosa mi ha colpito in particolare: le riflessioni sul ruolo della donna.
Riflessioni che mi hanno colpito per l’intensità che ci ho letto dietro; forse scaturite da una osservazione di una realtà culturale e/o forse perché le ho “catturate” e fatte mie…

Pensieri che effettivamente si combinano con quanto mi capita di sperimentare, quando mi confronto con vecchi amici che vivono una realtà molto diversa dalla mia (per scelte differenti) e sicuramente più diffusa della mia.

Ascoltandolo, mi sono tornate in mente alcune recenti riflessioni fatte da amiche (mogli e mamme) che mi hanno fatto pensare ad uno stile di vita quasi cristallizzato in un mondo senza tempo, fermo dentro una ritualità che vede ruoli rigidi (e che mi fanno sentire sempre più “alieno” e con un abisso sempre più profondo di separazione dalla stragrande maggioranza della gente).

E mi sono resa conto della fortuna che ho di avere dei genitori che fin da piccola mi hanno permesso di fare ciò che volevo, assecondandomi e guidandomi (esempio: da piccola giocavo con le macchinine e sognavo di fare l’astronauta, e non mi hanno mai forzato a giocare con le bambole o a “fare la maestra”).

Crescendo ho dovuto pagare prezzi alti, e solo ora (non da molto tempo) tutto inizia ad avere un senso in una sorta di piccola rivalsa. Sono stata per parecchio tempo controcorrente rispetto al grosso fiume pigro che scorreva e tutto raccoglieva e portava con se. Guardata con “sospetto” o con perplessità, visto che non seguivo il percorso lineare e prestabilito.

Non mi sono sposata e non ho figli.
Non so stirare (diciamo che lo faccio male… e quindi pago una gentilissima signora che lo fa egregiamente per me), non so cucinare (se non in maniera spartana e questo ha mantenuto – paradossalmente – sempre ottimi livelli del sangue…) e ho pure imparato a dire di no (spinta anche dai miei genitori, che si arrabbiavano nel vedermi sempre troppo disponibile…).

Sono scelte (più o meno grandi) che, se fatte in modo consapevole ed assumendotene tutte le responsabilità, ti permettono di goderti il viaggio (condito anche di inconvenienti e di costi a volte rilevanti) e di costruirlo pian-piano, pezzo dopo pezzo, anche per tentativi ed errori, ma in modo autonomo.
(Sicuramente sono avvantaggiata anche da una variabile ambientale non da poco: il vivere in una città come Milano, dove (quasi tutto) è permesso.)

Devo essere grata al trainer che, attraverso le sue parole, mi ha consentito di fare queste riflessioni che mi stanno permettendo di fare il punto della situazione e mi stanno stanno facendo comprendere un po’ di cose di me stessa, in un ulteriore (faticosa) progressione.

Immagine tratta da http://www.blog.chatta.it

Leadership e Management

Oggi ho assistito ad una riunione ad alti livelli, a chiusura di un progetto importante.

Ho ascoltato quello che il Direttore Generale e la sua squadra dicevano, e ho avvertito un senso di inadeguatezza misto a sconforto.

Sarà stata la stanchezza da “volata finale”, saranno state le poche ore di sonno della notte precedente, saranno i dubbi e le riflessioni che continuo a farmi da un mese a questa parte, … fatto sta che – ascoltando – mi sono detta: “Io non ci riuscirò mai! Io non riuscirò mai ad essere come loro!”.

Ossia: “Non crescerò mai professionalmente, non ho le qualità e le capacità per arrivare a ricoprire ruoli via-via sempre più importanti…” e via così, in un crescendo di riflessioni non proprio funzionali.

Non è la prima volta e non sarà – temo – neanche l’ultima.

Andando a casa ho iniziato a riflettere…

Un mese fa, precisamente il 29 settembre, partivo per Livorno per quattro giorni di training. Quattro giorni che mi hanno rovesciato come un calzino.

La prima giornata è stata quella che mi ha evidenziato un concetto importante, che oggi è riemerso sulla strada verso casa.

Essere leader ma comportarsi da manager.

Essere creativi ma operare secondo schemi fortemente codificati.

Praticamente un processo di limitazione delle proprie capacità e della propria natura.

Essere manager mi è un concetto abbastanza chiaro: gestire processi, pianificare, controllare, “schedulare”… Costruire e muoversi secondo griglie ben prestabilite.

Essere leader…per me è un concetto più difficile da definire e – soprattutto – da afferrare.

La domanda che alcuni di quelli che si occupano di Leadership si pongono è: leader si nasce o si diventa? Forse leader si nasce: non si può imparare ad ispirare persone, non si può imparare ad essere creativi, non si può imparare a navigare nel caos, veleggiando agevolmente… Forse puoi implementare queste capacità, ma qualcosa deve già esserci nel DNA.

Il manager non è un tuttologo, ma si muove bene nella programmazione.

Il leader cosa sa fare? Può un leader essere indefinito nelle sue capacità pratiche, esercitando comunque un ascendente su chi gli sta vicino, motivando, ispirando e trascinando persone?

Un creativo può essere indefinito nelle sue capacità, può avere una professionalità “ibrida” (termine che fa venire l’orticaria ad alcune persone che conosco)? E può comunque influenzare la realtà che lo circonda semplicemente essendo se stesso?

Sono concetti che faccio molta fatica a comprendere e focalizzare. Forse perché cerco di razionalizzare e “logicizzare” qualcosa che – per sua natura – non può essere razionalizzato e sottoposto a valutazione logica.

Forse tanti anni nel mondo della ingegneria hanno plasmato il mio modo di ragionare in una precisa direzione.

Forse è per questo che dopo una giornata come quella di oggi, torno a casa con ricordi di un mese fa e un vago senso di impotenza nel non riuscire ad afferrare a fondo dei concetti.

Forse perché cerco di comprendere qualcosa con degli strumenti inadatti.

Come se volessi cercare di risolvere un problema con lo stesso metodo con il quale è stato creato (parafrasando Einstein).

Per comprendere un concetto così lontano dal management, come è la leadership, devo pensare in modo creativo, devo cambiare modo di pensare.

O forse devo semplicemente fidarmi del mio istinto e del mio intuito. Ossia ciò che è più lontano possibile dalla logica e dalla razionalità.

Sono pensieri che si rincorrono ed emergono a ruota libera, in ordine assolutamente sparso… e che non mi lasceranno tanto facilmente…

Pensieri e riflessioni che scaturiscono osservando ciò che mi circonda, ciò che vivo e sperimento, frequentando ambienti fortemente organizzati e vivendo in una società sempre più fluida, che richiede sempre maggiore competenza ma anche sempre maggiore flessibilità.

E competenza e flessibilità sono altri due concetti per me diametralmente opposti, che non riesco a legare tra loro con un filo rosso…

Essere figlia, avere un padre

 

padre-e-figlio

Il titolo di questo post parafrasa a reinterpreta un articolo di Sebastiano Zanolli, scritto il 2 gennaio 2008 e che ho scoperto per caso solo ieri sera, mentre navigavo in internet “annusando la rete”. A quei tempi non c’ero ancora sul web, non conoscevo la figura di Sebastiano Zanolli, i suoi libri ed il suo blog. Ma forse ieri era il momento giusto perchè incrociassi questo post di 3 anni e mezzo fa…

Dire che quell’articolo mi ha commosso è quasi riduttivo, nel senso che la parola “commozione” non descrive esattamente ciò che ho provato leggendo quelle righe.

Ho provato un senso di maliconia sordo e avvolgente (paradossalmente con un effetto quasi da “calda coperta”).

Ho provato tenerezza per un giovane padre che si fa profonde riflessioni, si pone immensi dubbi, spostandosi dalla figura di figlio alla figura di padre, rivivendo ricordi e ponendosi grandi domande sul futuro.

Ho provato comprensione verso gli uomini (che in alcuni post ribattezzo affettuosamente “maschietti”), che a volte noi donne bistrattiamo inutilmente, non comprendendo (non volendo comprendere?) la loro natura e la loro sensibilità (a volte coperta da sovrastrutture educative e sociali). Negli ultimi tempi ho acuito la sensibilità verso il genere maschile e vedo intorno a me uomini un po’ bambini, un po’ smarriti, a volte affaticati, che fingono a volte una sicurezza che stentano a portare sulle spalle.

Sto parlando di un genere di uomini, non di tutti gli uomini. Sono conscia del fatto che esistono uomini che fanno del male, ma esistono anche uomini che fanno del bene e danno il massimo.

E ho pensato a mio padre.

Ho ricordato la profonda ristrutturazione della figura di mio padre avuta in occasione dell’intervento di by-pass che subì nell’aprile del 2008.

Andò tutto bene, oserei dire magnificamente: la sua filosofia di prevenzione ha fatto si che si intervenisse prima dell’aggravarsi di un piccolo sintomo che – col tempo – avrebbe portato all’infarto. Oggi ha 71 anni, è sempre in perenne movimento e faccio fatica a stargli dietro.

E ricordo anche le ore immediatamente prima ed immediatamente dopo l’intervento.

Ricordo il discorso che mio padre mi fece il giorno prima: quasi un discorso di bilancio e di commiato, che mi gettò nel panico (costretta a sopprimerlo, per non preoccupare proprio mio padre che stava per subire l’intervento).

Ricordo quando l’ho salutato al termine dell’orario di visita, pervasa da un senso di smarrimento (ben nascosto) e preoccupazione al limite del terrore: un uomo minuto, in pigiama, che salutava. (Il mattino dopo andò mia madre a salutarlo prima dell’ingresso in sala operatoria; le dissi che io non ce la facevo, che rischiavo di scoppiare a piangere davanti a lui e che questo non doveva succedere, non volevo preoccuparlo… Ero reduce 48 ore prima da una lunga serata – conclusasi alle 1.30-2.00 di notte – al Pronto Soccorso dello stesso ospedale, per una crisi ipertensiva di mia madre con abbondante epistassi che non voleva fermarsi).

Ricordo l’attesa fuori dal blocco operatorio (credo che se mi avessero misurato la pressione allora, mi avrebbero ricoverato seduta stante) e le parole (tecniche e comunque positive) del chirurgo (e la mia scansione spasmodica – i primissimi secondi – del locale colloqui, alla ricerca di tracce che indicassero che qualcosa era andato storto).

Ricordo la successiva notte insonne, col cellulare sul comodino, perchè “le successive 24 ore sono quelle critiche” (non ricordo un episodio dove io abbia tirato al chirurgo un numero di accidenti maggiore per la sua affermazione tecnica, ma detonante).

Ricordo la mia immobilità davanti alla porta della Terapia Intensiva (quasi paralizzata), incapace di suonare il citofono; e l’accoglienza della caposala che – probabilmente vedendomi un po’ smarrita – m’ha vestito e m’ha catapultato dentro il reparto dove – finalmente – mi sono rasserenata nel vedere il babbo in buone condizioni (pesantemente intontito).

Ricordo la mia reazione iper-protettiva (a difesa di mio padre) con gli infermieri del reparto, protestando per il comportamento insulso ed irrispettoso dei parenti del compagno di stanza: dopo un giorno hanno spostato l’uomo che era con lui.

Sono tanti ricordi e flash di una settimana durante la quale mi sono confrontata seriamente per la prima volta con un “qualcosa” non previsto, e che ha costituito una riconfigurazione profonda dell’idea di mio padre che avevo nella testa.

Vedere quest’uomo, con il quale avevo avuto sempre un rapporto un po’ conflittuale, con un carattere poco propenso ad esprimere sentimenti (o espressi in modo a volte un po’ da urto della sensibilità altrui), che affrontava preoccupato un evento intenso (taciturno, non condividendo sentimenti e preoccupazioni), mi ha fatto vedere anche un uomo fragile.

Un uomo che ha lavorato duramente tutta la vita per garantire la sussistenza alla famiglia ed un futuro a me (unica figlia).

Un uomo che, anche se è stato avaro di affettuosità, ha dato cuore, anima e tutto se stesso alla famiglia e alla figlia, sacrificando se stesso (un giorno, poco tempo fa, mi ha detto: “Sono contento di quello che ho fatto perchè quando andrò via, lascio a mia figlia delle sicurezze ed un futuro.”).

C’è voluto un evento forte per farmi capire alcune cose. Per farmi vedere le cose in modo diverso. Per farmi comprendere.

Forse ci vuole anche la “maturità di testa”.

Certi ragionamenti non puoi farli quando sei piccolo, non puoi farli quando sei adolescente: sono età con diverse priorità.

Certi ragionamenti puoi farli quando maturi, quando inizi a pensare in modo diverso.

E ben vengano le riflessioni e le domande di un giovane padre. Sono domande giuste, al momento giusto. E’ giusto che sia così.

Grazie a Sebastiano Zanolli per il suo post che – capitato al momento giusto – ha rimesso a posto alcune cose.

Immagine tratta dal sito Bergamo.info.