
Doverosa premessa: non sono sposata e non ho figli. Quindi non vivo le difficoltà quotidiane delle mamme. Ho amiche in carriera che si destreggiano tra mariti e figli, con fatica. Ascolto i loro racconti, incapace di fornire consigli adeguati ed imparando per interposta persona (le mie amiche) tecniche di gestione della famiglia degne (se non superiori) delle tecniche di management più avanzate.
Tutto questo per prendere alla larga una riflessione che potrebbe disturbare qualcuno, ma che non vuole offendere nessuno.
Sto parlando di femminilità e professionalità. Sto parlando del binomio donna-lavoro, in modo forse un po’ disorganico ed in forma di libera associazione di idee e riflessioni.
Riflessioni che emergono quando leggo post di protesta femminile, articoli che focalizzano solo su ciò che non va nel mondo del lavoro in merito all’universo femminile, alcuni dei quali mi fanno (purtroppo) innervosire.
Mi è capitato anche di essere aggredita verbalmente, in un commento su Facebook, da una donna (insegnante e mamma, mi sembra di ricordare), in merito ad una riflessione di un comune amico. La mancanza di sensibilità della quale sono stata accusata in merito al ruolo di insegnante e mamma (avevo raccontato di una insegnante di Storia dell’Arte ai tempi del Liceo, che non ho mai visto in 4 anni perché sempre in maternità… avrà fatto 3 figli in sequenza…) non voleva essere un atto di accusa ad ampio raggio, bensì voleva ricordare un episodio della mia adolescenza (e l’argomento di discussione era relativo al comportamento non proprio corretto di alcune persone, sul luogo di lavoro, che danno adito a polemiche ad ampio spettro e alla generazione di luoghi comuni e comportamenti altrettanto scorretti).
Detto ciò, quando leggo lamenti e stracciamenti di vesti in merito al ruolo della donna nel mondo del lavoro (con pericolose generalizzazioni) mi faccio qualche riflessione, partendo da una mia convinzione piuttosto scomoda: più parli di una cosa, più forza le dai.
Ergo: più si ragiona intorno al ruolo della donna, evidenziando i lati negativi, maggiore rilevanza e focalizzazione vengono orientati verso ciò che non va. Dimenticando tutto ciò che invece va.
E penso al lavoro che svolgo quotidianamente.
Faccio un mestiere dove vi è una forte componente maschile: mi destreggio (a volte a fatica) tra geometri ed ingegneri, frequento cantieri (dove le donne si contano sulle dita di una mano) e altri ambienti affini ed – ogni tanto – mi occupo di sicurezza cantieri. Mi sono trovata in riunioni di 30 persone dove 28 erano uomini.
E quando un architetto donna (che si occupa di disegno dei tessuti) ha detto una volta (tanti anni fa): “Io non capisco perché una non possa andare in cantiere con la gonna!”, ho avuto una illuminazione e ho capito molte cose che per me si riassumono in una semplice frase: ogni ruolo esige determinati compiti, determinate divise e determinati ruoli.
Se non ti va bene, puoi andare a fare altro. Semplice. E scomodo.
Quando vado in cantiere indosso abiti di un certo tipo, scarpe antifortunistiche, eventuale elmetto (se necessario).
Se parlo con un capocantiere che ha alle spalle 40 anni di lavoro, ascolto ciò che ha da dire con umiltà e con l’atteggiamento mentale che una persona del genere ha molto da insegnarmi (ricordo ancora quando un carpentiere, davanti ai miei disegni delle armature pieni di ingenuità, mi ha dato consigli preziosi).
Se vado ad una riunione di manager, Amministratori Delegati e Direttori Generali, indosso abiti consoni.
Se vado ad una riunione di coordinamento di progetto, mi comporto in modo ancora diverso.
Mi dispiace, ma – ribadisco – certi ruoli richiedono certi codici comportamentali. E questo è valido sia per le donne, sia per gli uomini.
Io ho sempre rispettato le regole e non ho avuto mai difficoltà.
Se non ho nulla da dire, sto zitta, ascolto ed imparo.
Se sono davanti a gente che ne sa più di me, ascolto ed imparo.
Se ho qualcosa da dire, cerco di presentarmi il più preparata possibile, usando un linguaggio il più consono possibile. Non perchè donna, ma perchè la controparte si aspetta alcune cose da me, ed io – in quanto professionista – non voglio deludere le aspettative.
E non pretendo nulla “a gratis” (non l’ho mai pensato).
Forse la mia è stata solo fortuna (ma ricordo ancora molto bene la fatica di fare alcuni esami all’Università, che mi sono costati notti insonni e stati di esaurimento nervoso), ma non ho mai trovato sulla mia strada professionale persone (uomini) che mi hanno preso in giro. Certo, ho trovato gente che mi ha fatto gli sgambetti (donne), che ha tentato di gettarmi fango addosso (uomini e donne), ma nulla al di fuori dell’ordinaria battaglia quotidiana negli ambienti di lavoro.
Non ho mai fatto pesare la mia femminilità ed il fatto di essere donna per ottenere qualcosa.
Mi pongo sempre come un individuo che deve fare un lavoro (quando c’è stato da fare il rilievo di fognature non mi sono tirata indietro, quando c’è stato da visitare un impianto di compostaggio non mi sono tirata indietro).
Sicuramente faccio parte di un universo un po’ strambo, ma forse da questo mio universo strambo può essere prelevato qualcosa di utile a riconfigurare il rapporto donna-lavoro.
Bellissima spiegazione del ricalco secondo me! Brava Barbara!
Ciao Riccardo! Grazie!