Complessità e incertezza

Il periodo che stiamo vivendo (e non mi riferisco solo alla pandemia in corso, ma anche alle altre vicende che agitano il mondo negli ultimi tempi), mi hanno fatto immergere nelle realtà parallele del comportamento umano.
Talvolta sfiorando la morbosità e comunque vivendo un certo disagio (mi è capitato di leggere su Internazionale un reportage scritto da Wu Ming 1 [un collettivo di scrittori] sul mondo di QAnon, che mostra una realtà che si fa fatica ad accettare come esistente: Il mondo di QAnon: come entrarci, perché uscirne. Prima parte).

E proseguendo in questa assai particolare esplorazione “dell’animale uomo” (come lo chiama mio padre), l’altro giorno ho letto un altro interessante articolo (sempre su Internazionale): L’intreccio tra complotti e populismo in Italia

Al suo interno vi è un passaggio secondo me interessante.
Lo ri-coniugo qui sotto, come introduzione alla lettura dell’articolo.
Partendo da un episodio abbastanza surreale, perché coinvolge un giornalista sempre abbastanza assennato, l’autore dell’articolo (Alessandro Calvi di Voxeurop) scrive:

“[…] anche per i più “insospettabili”, scivolare dall’analisi della realtà verso teorie di natura complottistica le quali, in genere, semplificano la complessità del reale, rassicurando chi le ascolta o costruendone l’identità.”

Semplificazione di una realtà sempre più complessa, che talvolta stentiamo a comprendere.
Una sorta di due velocità (la nostra, di creature analogiche con un numero “limitato” di sinapsi, e quella là fuori che viaggia ad una velocità molto più elevata) che genera un divario profondo.

E questa incomprensibilità può portare a due comportamenti, secondo me:

  • una continua, costante (e faticosa) corsa al cercare di comprendere (e di anticipare),
  • un rifiuto generato dal non comprendere che genera a sua volta paura e porta al rifugiarsi all’interno di una fortezza.

Una fortezza le cui mura sono costituite da certezze acquisite nel tempo che fu ma che – in confronto alla realtà là fuori – hanno (nel bene e nel male) fatto il loro tempo.
Certezze che rifiutano a priori qualsiasi cosa sia diversa dal proprio schema consolidato.

E questo atto di proteggersi dalla “paura del là fuori” mi fa pensare anche al fare gruppo/branco: l’aggregarsi con chi la pensa come noi rinforzando i nostri bias, in un corto circuito vizioso.

Foto di Ishan @seefromthesky su Unsplash

A questo punto il post che avevo inizialmente pensato di scrivere avrebbe preso una direzione di appello all’informarsi, alla verifica delle fonti, ecc. ecc.

Ma stamattina in “Morning” (il podcast de Il Post) ho ascoltato di un post scritto su Facebook da Daniele Ranieri (giornalista de Il Foglio) che sono andata a leggere e che – ahimè – mi sono ritrovata a condividere nel ragionamento.
E che sintetizzo in questa frase qui sotto (che è una personale sintesi).

E’ uno spreco di tempo ed energie il voler convincere persone a fare cose che non vogliono fare: più insistiamo più confermiamo i loro bias; più ne parliamo e li coinvolgiamo, più li facciamo sentire persone speciali e quindi importanti, rinforzando la loro identità.

Ed è quello che – con grandi scrupoli e a modo mio – sto facendo da qualche giorno a questa parte anche sui miei piccoli profili social (soprattutto Facebook, dove lo scontro è molto acceso): sto rimuovendo (e talvolta bloccando) persone i cui post mi compaiono in timeline e narrano di complottismi, sostenendo teorie negazioniste.

Questo non mi fa di certo stare bene, eticamente parlando (mi faccio una montagna di scrupoli).
Un’amica commentava il suo timore (da me condiviso) di chiuderci a nostra volta in una bolla contrapposta all’altra.
Ma in questi tempi così complessi mi vedo costretta a fare “di necessità virtù”.

Coltivando il dubbio (che ha modalità espressive ben diverse dal negazionismo e dal complottismo).
Cercando di aprirsi un varco nella foresta di parole, per cercare di intravedere possibili strade valide da percorrere.

[La foto di intestazione e dì Waldemar Brandt su Unsplash]

Che cosa potevamo aspettarci (di diverso)?

7 luglio 2021, un aggiornamento

Dopo avere pubblicato il post che potete leggere qui sotto, che partiva dalla vicenda di Malika Chalhy per fare alcune considerazioni sulla cultura intesa come modo di vivere e vedere le cose (indipendemente da qualsiasi giudizio di sorta), scoppia il caso Imen Jane e Francesca Mapelli.

Ci ho pensato un po’ su (se scrivere un post dedicato o meno), e alla fine ho scelto di aggiornare questo articolo con alcune considerazioni aggiuntive che – per “dovere cronologico” – ho aggiunto in coda.
Perché le due vicende così apparentemente lontane, hanno in realtà molti punti in comune. Pur partendo da due posizioni diverse.

5 luglio, partendo dalla vicenda di Malika Chalhy

Non ho seguito la vicenda, ne ho letto solo qualche giorno fa dopo averne ascoltato un breve cenno nel podcast Morning de Il Post (e successivamente ho letto dei commenti di alcuni contatti di Facebook).

Mi riferisco alla vicenda di Malika Chalhy.

Ascoltando di questa storia mi facevo alcune considerazioni (condite di ampie generalizzazioni, lo riconosco, e di una abbondante dose del bias del “senno di poi”) che stanno sotto una domanda:

“Che cosa potevamo aspettarci (di diverso)?”

Che cosa potevamo aspettarci da una persona che – per denunciare la sua situazione – ha pubblicato sui social i messaggi dei suoi famigliari?

(Tra parentesi gli screenshot di varie tipologie di messaggi – con i mittenti più o meno mascherati – sono diventati il nuovo modo di denunciare alcune dinamiche, esponendo [in taluni casi] alla pubblica gogna i protagonisti di turno. Attenzione, non sto scusando i famigliari della ragazza che hanno scritte cose inenarrabili: sto solo evidenziando delle modalità di comunicazione che sono diventate di pubblico uso anche da parte di persone insospettabili [ricordate gli screenshot di una conversazione privata tra Calenda e Mastella, pubblicati su Facebook dal primo?].)

Che cosa potevamo aspettarci da una persona che – quindi – considera i social come il medium per eccellenza (sicuramente veicolo di diffusione più efficace della stampa classica) attraverso il quale portare a conoscenza una situazione drammatica ma – come un Giano bifronte – capace di darti una notorietà improvvisa che provoca ubriacature difficili da gestire, se non hai gli strumenti adatti?

“Nel futuro, tutti saranno famosi nel mondo per 15 minuti”

E – di conseguenza – che cosa potevamo aspettarci da una persona che probabilmente è cresciuta dentro un certo tipo di cultura (dal lat. cultura, der. di colĕre «coltivare», part. pass. cultus [Treccani]) che considera normale acquistare beni di lusso con i soldi (indipendentemente dalla loro provenienza)?
Perché semplicemente non si pone il problema e – d’altronde – ritiene naturale fare di quei soldi ciò che vuole, semplicemente perché ormai sono suoi (visto che gli sono stati donati).
(Se ci pensate questo pensiero non fa un piega. Possiamo ragionarci e dibattere quanto vogliamo, ma è governato da una logica di ferro. E – se ci pensate – richiama la busta coi soldi data dagli zii e dai nonni, accompagnata dalla frase: “Comprati quello che vuoi”.)

Che cosa potevamo aspettarci di diverso da una persona che vive in uno specifico “layer” (in un livello) che vede questo sistema come unico modo possibile di vita (la cultura di cui accennavo sopra)?

Uso il termine layer (mutuandolo da funzioni di alcuni software) perché mi sembra particolarmente adatto, ma possiamo benissimo sostituire questa parola con “recinto”: da tempo ormai immemore si parla dei social come di “recinti” governati da algoritmi che tracciano le nostre attività mostrandoci di conseguenza – e gradualmente – solo ciò che è più affine ai nostri gusti e alle nostre abitudini.
Limitando sempre più le nostre capacità di pensiero critico e rinforzando i nostri bias di conferma.

Quindi (sempre con il senno di poi) non mi meraviglia particolarmente il modo di agire della ragazza.
Rientra in uno schema di comportamento molto preciso.

E proprio ieri leggevo sul numero di Internazionale, in edicola questa settimana, un articolo di Oliver Burkeman molto lungo, molto complesso, ma estremamente interessante: “Siamo davvero liberi di scegliere?”
Parla del libero arbitrio e del dibattito filosofico che ruota attorno ad esso: tra sua “negazione” e “compatibilità tra libertà di scelta e negazione della stessa”.

Come possiamo essere liberi di scegliere se non siamo in effetti liberi di scegliere?
(Oliver Burkeman su Internazionale)

E questa citazione mi riporta al “cosa potevamo aspettarci (di diverso)?”

Malika Chalhy (ma non solo lei, tutti noi a vario titolo e su diversi layer) orbita attorno ad un certo tipo di cultura.
E purtroppo ha fatto esattamente quello che sapeva (e sa) fare.
Sulla base di quanto ha imparato ed acquisito all’interno del suo ambiente.
(Con strumenti e competenze che potrebbero crearle enormi problemi a breve-medio-lungo termine.)

D’altro canto comprendo benissimo il “disappunto” (per usare un eufemismo) di chi ha partecipato alla raccolta fondi.

Una raccolta fondi nata sicuramente con tutte le buone intenzioni del mondo, ma nata sotto una forte spinta emotiva: “è stata buttata in mezzo ad una strada e non ha nulla di cui vivere, aiutiamola”.
Una leva che fa perno sulla generosità, l’aiutare il prossimo, il dare manforte…

Con il bias del senno di poi, forse era meglio offrirle un lavoro per darle strumenti con cui costruirsi una vita.

Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita.
[Proverbio cinese]

E – pensando alle “reazioni di pancia” che sono assai più rapide delle decisioni a tavolino – spero che questo episodio non abbia una ricaduta a pioggia sul meccanismo della raccolta fondi in senso lato, generando diffidenza.
Ma che sia un monito per imparare a gestire le emozioni forti a favore di decisioni magari più lente, ma più razionali.

7 luglio, arrivando alla vicenda di Imen Jane e Francesca Mapelli

Come ho anticipato nelle righe di introduzione di questo post, che anticipano a loro volta l’aggiunta della nuova “sezione” dedicata al caso scoppiato nelle ultime 72/48 ore, dopo avere riflettuto sul caso di Malika Chalhy, scoppia il caso Imen Jane e Francesca Mapelli.

Un caso che – nel pieno rispetto dei flame digitali – si allarga anch’esso a grandissima velocità ai contatti delle dirette interessate, associazioni e aziende che le hanno viste presenti come ospiti, e realtà che le vedono come collaboratrici a vario titolo.

Non entro nello specifico della vicenda, ma lascio qui alcuni articoli per avere un quadro della situazione per chi non sa cosa è accaduto:

Le due vicende sembrano appartenere a mondi diversi.
Invece, non credo sia così.

Ci sono degli importanti punti in comune: la “cultura” (quel “coltivare” da cui deriva il termine) che genera una visione della realtà che ci fa muovere su layer (o “recinti” o anche “bolle”) nelle quali alcuni comportamenti o non sono contemplati o sono semplicemente “naturali” (nel bene e nel male).
Tal quale la vicenda di Malika Chalhy.

Cosa potevamo aspettarci (di diverso)?

In questo caso forse potevamo aspettarci sì qualcosa di diverso.
Qui la situazione assume un aspetto disorientante, perché da persone che lavorano presso testate giornalistiche e/o si interessano di argomenti specifici non ti aspetti un comportamento simile.
E invece è accaduto.

A prova – forse – della natura dei social: quel Giano bifronte che amplifica esponenzialmente la visibilità, iniettando un senso di onnipotenza in chi non ha gli strumenti culturali adatti per saperla gestire.
Che fa adottare – di conseguenza – specifiche dinamiche comportamentali.

[Tutte le immagini del post sono tratte da rawpixel.com]

In galleggiamento o in transito?

Qualche giorno fa, condividevo una riflessione su Facebook in merito ad una sorta di “stanchezza sottile” che mi sta mettendo da diverso tempo nella condizione di desiderare ardentemente di stare seduta sul divano a non fare nulla e a fissare il vuoto…

Chiedo…Ma anche voi siete stati colti dalla sindrome “non ho più voglia di fare niente”?
Perché è qualche giorno che avrei solo voglia di stare seduta sul divano a fissare il vuoto senza fare assolutamente nulla…
Ditemi che anche qualcuno di voi si trova nella stessa situazione, perché se no mi preoccupo…
(E non ci sono vitamine che tengano, specifico)

Tante sono state le risposte ed in tanti ci siamo contati.
E se questo da un lato mi ha confortato (sono in buona compagnia), dall’altro mi ha fatto pensare all’onda lunga di ciò che abbiamo vissuto (questa “grande anomalia”).

Nel contempo poi il timore di scivolare nell’inedia mi fa restare vigile e mi fa stare in costante movimento (se non fisico, perlomeno mentale), guardando con sospetto ogniqualvolta la necessità di stare sul divano si ripresenti…
Necessità che poi il corpo rende impellente, andando a disturbare il sonno e quindi obbligandomi a fermarmi (sul sonno sto leggendo articoli e libri e ci tornerò).

Su questa sensazione avevo letto degli articoli (trovati casualmente) che mi ero ripromessa di recuperare e che – alla fine – sono riuscita a ritrovare.
Si tratta di due contributi che riflettono sul tema dello stato di inedia e – in un mio “collegamento lateralmente” – su cosa la pandemia sta portando come “nuova normalità” (termine abusato, lo so, ma non così scontato):

Sì perché riflettendo (e facendo riferimento ai due articoli) mi è sorto un “sospetto”.

Non vorrei che anziché uno stato di galleggiamento, non si trattasse invece di uno stato di transito da un punto A ad un punto B che l’esperienza che stiamo vivendo non ha fatto altro che accelerare (e/o far emergere).

Scrivo questo perché, non so voi, ma sento comunque sottostante una necessità di rallentamento e riperimetrazione delle attività.

Un esempio stupido?
Questa mattina ho fatto (finalmente!, dopo avere rimandato per mesi) la tessera delle biblioteca del piccolo comune in cui vivo (che fa parte della rete delle biblioteche della area geografico/metropolitana in cui si colloca) per evitare di andare ogni volta a Milano a ritirare o consegnare i libri presi in prestito. Cosa che prima facevo con grande piacere, reputando lo “stare nel paesello” una cosa riprovevole (estremizzo).

E ancora: mi rendo conto che ormai acquisto abiti e accessori quasi solo ed esclusivamente online su determinati siti (una sorta di pulizia ed ottimizzazione delle attività); quando – una volta – andare a fare shopping lo consideravo un must.

Senza contare invece le volte che – al termine di giornate apparentemente inconcludenti – sento la necessità di fare l’elenco di quello che ho fatto per capire cosa ho effettivamente fatto (per scrollarmi di dosso la sensazione di inconcludenza). Perdonate la frase piena di ridondanze…

Insomma sì… forse è una fase di transito dal punto A al punto B.

E come tutte le fasi di transito ci si stanca (dello stato attuale), ci si muove in modo anche un po’ caotico (vagando alla ricerca di qualcosa, tentando, montando e smontando cose) e ci si libera (talvolta faticosamente) delle cose che non ci servono più e/o che non hanno più senso (combattendo con la a me tanto cara sindrome F.O.M.O. [Fear Of Missing Out], che spesso cito e di cui ho scritto altre volte qui).

Detto ciò, confesso di continuare a temere è “l’illanguidimento” anche se – come dissi anni fa ad una amica – il togliere ci dà la sensazione di vuoto (che noi temiamo) ma nel contempo fa anche spazio, creando la possibilità di ingresso di cose nuove.

[Foto di copertina Chris Lawton su Unsplash]

Responsabilità sociale e responsabilità individuale

Venerdì ho avuto la fortuna di fare la prima dose del vaccino Pfizer (ho perso per un soffio il monodose Janssen [Johnson&Johnson] per esaurimento scorte).
Confesso che nutrivo qualche timore verso l’AstraZeneca, ma avrei fatto qualsiasi vaccino mi fosse stato proposto, ve lo posso garantire.

Pfizer-BioNTech, forse uno dei vaccini più all’avanguardia, mai concepito sino ad oggi.
(Qui un articolo di gennaio del Il Post: Come funziona il vaccino di Pfizer-BioNTech)

Che impiega una tecnologia (mRNA = RNA messaggero) allo studio da 20 anni (non da ieri) e impiegata – se non erro – per la cura dell’AIDS e ora (grazie a questa applicazione su larga scala) possibile, concreta e futura frontiera per la cura contro il cancro e – addirittura – per la Sclerosi Multipla (qui un articolo sugli studi in corso: La tecnologia mRna per contrastare la sclerosi multipla).

Come funziona?

“[…] La strategia consiste nel fornire alle cellule le informazioni necessarie – sotto forma di mRNA – a costruire la proteina “spike” del virus. Proteina che, una volta assemblata ed espulsa dalla cellula, viene riconosciuta dal sistema immunitario dando vita alla produzione di anticorpi capaci di riconoscere il virus.”
(Da un articolo della Fondazione Umberto Veronesi: Pfizer-BioNTech e Moderna: inizia l’era dei vaccini a mRNA)

Image by rawpixel.com

Davanti ad una tecnologia così avanzata, e dopo un anno durante il quale abbiamo vissuto qualcosa che mai avremmo immaginato di vivere (lo avevamo visto solo nei film di fantascienza), quello che io faccio veramente fatica a capire è il pensiero dei “diffidenti”, alcuni dei quali (in un estremo atto di egoismo e di irresponsabilità verso l’altro [e talvolta di arroganza], forse dettati dalla paura alla base dei processi di negazione e negazionismo) aspettano che siano gli altri a vaccinarsi per non vaccinare loro stessi.
(Lascio da parte le teorie complottiste sulla modifica del DNA e sul 5G per le quali andrebbe fatta una analisi in termini psicologici e cognitivi, con una escursione nell’area dell’asimmetria dell’informazione e dei bias cognitivi.)

Ma tornando alla personale esperienza, andare a fare la prima dose è stato per me un momento di profonda gioia e gratitudine.

Avere una fortuna simile non è da tutti.
(Basti pensare ai Paesi del Terzo/Quarto Mondo o anche semplicemente a quelle fasce sociali più deboli, più geograficamente prossime a noi, che non hanno accesso neanche alle cure base.)

Sono convinta che vaccinarsi per proteggere se stessi e – soprattutto – chi ti sta intorno sia un atto di responsabilità individuale e sociale. A supporto di una visione di condivisione e di inclusione.

Chiudo lasciando qui qualche ulteriore fonte di approfondimento:

[Photo by Spencer Davis on Unsplash]

Punto nave

1 Gennaio 2021
Primo giorno dell’anno.
Dopo un anno molto diverso, come ben sappiamo.

Di solito la ritualità quasi propiziatoria prevede bilanci, liste dei desideri, buoni propositi, obiettivi…

Una ritualità che ho sempre fatto un po’ fatica a seguire, che ho assecondato per una sorta di “dovere sociale” e rispetto delle “regole”.
Ma quest’anno la condizione è diversa.
Molto diversa.

Una condizione figlia di eventi che ci hanno rovesciato come dei calzini.
E fatto salvo alcune macrovoci da esplorare, da approfondire e da proseguire, ho fatto delle riflessioni che condivido qui (anche per mia futura memoria).

Passi cauti e il più possibile precisi.

Questo mi sento di scrivere.

Stando – nel contempo – con un occhio alla strada ed uno all’orizzonte, con un orecchio teso a cogliere i segnali deboli e l’altro teso all’ascolto attivo.
In una sorta di “strabismo ottico e uditivo funzionale”.

Facile? No, non lo è.
Ma è necessario (secondo me).

Unendo il sano pragmatismo (che mi è tanto caro).
Imparando a negoziare con le proprie emozioni (che non è neanche tanto salutare tenere “stoppate”; filtrate sì ma stoppate sarebbe preferibile di no, altrimenti finisci come le tubazioni in pressione).

Personalmente il 2021 non lo vedo come l’anno risolutivo. No.
Lo vedo come un anno di grande transizione.
Se il 2020 ha sbriciolato e spazzato via, accelerando alcuni processi, il 2021 è un traghettamento verso altro.
Quindi, pragmatismo e strabismo (ottico e uditivo).
Muovendosi a passi cauti e il più possibile precisi.

Il video qui sopra – “Uno sguardo al 2020” – l’ho creato ieri mattina in alternativa al rituale “Best Nine”. Ho avuto difficoltà a selezionare nove foto rappresentative dei momenti importanti dell’anno. Così ho optato per un video, selezionando alcune foto che ho scattato in momenti cardine del 2020, montandole in rigoroso ordine temporale. Nel costruirlo, mi sono resa conto di quante cose sono accadute avendo la netta sensazione che questi 364 giorni siano stati vissuti a velocità doppia.

E proprio ripercorrendo il 2020, un paio di giorni fa ho ritrovato un elenco di cui mi ero completamente dimenticata.
Lo avevo scritto durante il primo lockdown.
Un elenco delle cose che stavo facendo perché – ad un certo punto – mi ero resa conto che ero finita a piè pari dentro una “centrifuga in fuga” e non avevo più il polso di quello che stavo facendo.

L’ho riletto e ho constatato che – nel frattempo – alcune cose le ho chiuse, altre sospese, altre ancora abbandonate.
In una sorta di autorganizzazione più o meno consapevole.

È una operazione che rifarò nelle prossime ore.
Un punto della situazione a chiusura, gettando metaforicamente l’ancora e facendo il “punto nave”.

Se vi va, anziché scrivere solo gli obiettivi del 2021, provate a ripercorrere il 2020 cercando di ricordare cosa avete fatto.
Può essere un buon esercizio per ricucire, fare mente locale e capire come proseguire, cogliendo tracce che magari non si ha avuto la lucidità di vedere nel mentre si navigava in questo anno che ci stiamo lasciando alle spalle.

Photo by Erol Ahmed on Unsplash

Un altro “rito” a cavallo dell’anno è quello di scegliere cosa lasciare nel vecchio anno e cosa portare nel nuovo (in termini di abitudini, atteggiamenti, pensieri…).
Ho riflettuto anche su questo (stimolata da post condivisi sui social media da vari amici, che invitavano a farlo) e – inaspettatamente, ma forse neanche così tanto – ho scelto di portare tutto con me, nel nuovo anno.
Tutto quello che ho vissuto e sperimentato.
Tutto quello che ho imparato.
Per due ragioni:

  1. La prima – perché mi rendo conto che l’eccezionalità di questo anno che ci siamo da pochissime ore lasciati alle spalle, e ci ha messo davanti ad una serie di “variabili” da gestire, è stato veicolo di una quantità di informazioni e uno strumento di acquisizione di competenze tecniche ed emotive non da poco.
  2. La seconda – perché (purtroppo, ahimè) si impara di più dalle esperienze negative che da quelle positive. Penso sia proprio una questione legata alle difficoltà emotive e logistiche: uno stress test che ti può piegare ma può anche temprarti e farti passare dall’altra parte diverso, magari anche più adulto (come mi è accaduto due anni fa), più efficiente e anche più positivamente egoista.

E queste considerazioni possono emergere proprio grazie al punto nave di cui ho riflettuto nelle righe precedenti e che da’ anche il titolo a questo articolo.
Ecco perché invito a guardare indietro e a fare l’elenco delle cose fatte, sentite e vissute.

Buon Anno e Buon Punto Nave.

[La foto in evidenza è di cottonbro da Pexels]

Responsabilità, linguaggio e capacità di visione

Se non ci fosse di che seriamente preoccuparsi, questo periodo sarebbe il perfetto test in campo di una simulazione distopica degna dei migliori libri futuristici e cyber-punk.
L’esempio perfetto di un (altrettano) perfetto esperimento sociale (come scriveva Annamaria Testa in un suo articolo di qualche mese fa su Internazionale: Coinvolti in un gigantesco esperimento sociale).

Cerco di spiegare nel modo più semplice che mi riesce, perché stamattina (leggendo un paio di post su Facebook) si è attivata una sequenza di pensieri che – come un lampo – ha illuminato a giorno una situazione difficile da comprendere in ogni suo aspetto, ma comunque molto chiara.
(Lo so, suona come un paradosso…)

Parto dall’inizio.

Ieri riflettevo con una amica sulle restrizioni sotto Natale.
Ed il discorso si è – comprensibilmente – allargato.

Si è allargato al tipo di cultura ormai molto ben radicata (frutto di anni di comunicazione, TV, modelli sociali, educazione… ecc. ecc. di un certo tipo), che ha alimentato molto bene (consapevolmente o meno, non lo so) la deresponsabilizzazione del singolo e dei gruppi.
[“Non è mai colpa mia, è colpa di… [qualcun altro]” è la tecnica più collaudata utilizzata in molti ambiti per “flangiarsi il fondoschiena” (per usare una metafora ingegneristica che usiamo sul lavoro).]

In serata ho continuato a riflettere e – leggendo altri contributi sui social, dedicati agli assembramenti di domenica durante il “liberi tutti” – si è accesa una lampadina con su la scritta “cashback”.
Quella iniziativa (fatta – confido, ma con personale scarsa convinzione – con buoni propositi per supportare l’economia del territorio) che “premia” (per semplificare) gli acquisti nei negozi fisici e non online.

Photo by rupixen.com on Unsplash

La domanda sorge spontanea: la maggioranza delle persone – in una situazione simile (“liberi tutti” + “cashback” + Natale) – cosa fa? Esce per andare a fare acquisti. (“Se posso uscire e posso fare questa cosa, allora esco e lo faccio” è un pensiero logico che non fa un plissé, giusto?)

E qui apro una ulteriore parentesi: Paolo Benanti ha scritto sul suo profilo Facebook un post molto interessante del perché IO (la App con la quale si può attivare il meccanismo del cashback) ha avuto più download di IMMUNI:

Un meccanismo che ha a che fare con la ricompensa (immediato il rimando al concetto della “Gamification”).

Ma non è finita qui.

Perché stamattina un contatto su Facebook ha condiviso una riflessione interessante di Christophe Clavé (francese, autore di libri non tradotti in italiano, operante nel mondo aziendale e manageriale) che esordisce così:

“L’effetto Flynn – che prende il nome dallo scienziato che ha studiato questo fenomeno – afferma che il Quoziente d’Intelligenza (QI) medio della popolazione mondiale è in continuo aumento. Questo almeno dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni ’90. Da allora il QI è invece in diminuzione. È l’inversione dell’Effetto Flynn. […]” – Qui il testo integrale

Clavé ragiona sull’impoverimento del linguaggio (proprio qualche giorno fa avevo riflettuto in tal senso su una mia esperienza di quasi 20 anni fa con la lettura ad alta voce e alla quale dedicherò un articolo) e sulla conseguente incapacità di “guardare avanti e indietro” rispetto al presente per formulare pensieri complessi che ci aiutino a comprendere ed affrontare situazioni (altrettanto) complesse.

Ho ripensato alla riflessione di ieri che mi aveva fatto ricordare un Talk di diversi anni fa (2011) di Eli Pariser dedicato alle “Filters Bubble”.

Le Filter Bubbles, un sofisticato sistema di supporto ai Bias di conferma, che evidenziava come gli algoritmi di ricerca “ti mostrano ciò che tu vuoi vedere, sulla base di quello che tu cerchi, chiudendoti in un recinto di convinzioni che ti autocostruisci” (estrema sintesi dell’idea del Talk).
[Nel 2011 eravamo agli albori dei social media.]

Eli Pariser invitata (già nel 2011) a differenziare le ricerche per restare mentalmente aperti, curiosi e ricettivi.
E oggi più che mai (davanti alla complessità crescente) lo sforzo è necessario seppur impegnativo.

Orbene, ascoltando le conversazioni online, e osservando i comportamenti online e offline, è abbastanza evidente che il mix di impoverimento di linguaggio, che porta ad un impoverimento della curiosità (a favore di una maggiore propensione ad essere guidati [ricordiamoci che il cervello è pigro e tende a risparmiare energia] e a deresponsabilizzarsi, di conseguenza, soddisfacendo i bisogni del “qui e ora”, senza preoccuparsi di cosa sarà domani), porta a scelte e comportamenti di un certo tipo.
Con le conseguenze che questa pandemia sta evidenziando in tutta la sua cristallina chiarezza.

Se non ci fosse di che seriamente preoccuparsi, ci sarebbe da accomodarsi e osservare con pura meraviglia e stupore l’evolversi della situazione e le dinamiche che la muovono.

Foto di copertina di Timon Studler su Unsplash

L’abito non fa il monaco. O sì?

“L’abito non fa il monaco”, recita un antico adagio.

L’interpretazione che ho sempre dato a questo detto popolare è: non fidarti solo dell’apparenza, non valutare una persona solo dal come si veste, perché potresti essere tratta in inganno.
(Anche un altro proverbio sottolinea il concetto: “L’apparenza inganna”.)
Ma un paio di giorni fa ho – inconsapevolmente – modificato il significato.

Ma andiamo con ordine.

Tempo di saldi e lo scorso weekend sono tornata dopo un po’ tempo a curiosare da Muji (marca giapponese che apprezzo molto, insieme a Uniqlo), cadendo preda (volentieri, ad essere sincera) della “sirena dello shopping” facendo man-bassa di camicioni di lino e scarpe.
(Tornando in settimana a “finire il lavoro”, acquistando stole e altro…)

E un paio di mattine fa – nel mentre mi accingevo a indossare una mise Muji-only (quella della foto di apertura del post) – mi sono sentita particolarmente soddisfatta del risultato.
Una stranezza per me, abituata ad indossare solo pantaloni e a rifiutare tutto ciò che ha la parvenza di una gonna (lunga o corta che sia).

Ho pensato inaspettatamente se questo cambiamento nel modo di vestirmi fosse stato possibile per me (per “la mia testa”) 3/4 anni fa (ai tempi sono successe delle cose che hanno spostato pesantemente il mio punto di vista su alcuni aspetti della vita).
Mi sono fermata un momento a pensare e ad osservar(mi) per cercare di indagare se questa “rivoluzione” sia un puro capriccio o nasconda qualcosa di diverso e più “sotterraneo”.

E ho tratto delle mie (prime) “conclusioni”.

Nell’ultimo anno ho praticamente rifatto totalmente il mio guardaroba (sempre con un occhio rivolto al portafogli…): un cambiamento che sentivo la necessità di fare in una sorta di (credo inconsapevole) “atto di rimozione” – da un lato – della perdita subita (oggi, a distanza di due anni, sorrido al pensiero della mia reazione nei primi tempi al leggere che l’elaborazione del lutto può durare anche due anni: “Due anni??!!”, avevo esclamato sicura di metterci meno tempo…), ma anche – dall’altro lato – per saldare ancora di più il ricordo del viaggio in Giappone di tre anni fa (l’ultimo fatto con mia madre, tra l’altro), continuando ad alimentare il legame con questo Luogo in modo diverso (e a distanza, in attesa di tornarci un giorno…).

Nel contempo il riorganizzare la mia immagine, abbracciando i due brand nipponici, mi sono resa conto essere stato un curioso ed inconsapevole atto di affermazione di una nuova identità.

So che può suonare strano.
Anche perché chi mi conosce sa che non ho mai subito alcuna pressione da parte di nessuno (a maggior ragione dei miei genitori) su come dovevo vestire e cosa dovevo fare.

Ma quello di cui ho preso atto negli ultimi tempi è un legame (un laccio robusto) con il “senso del dovere” declinato in molti modi tra cui il non voler deludere persone con le quali ho (per l’appunto) dei legami.
Un obbligo che mi sono costruita nel tempo – da sola – nel mentre ero impegnata a fare altro.

Ora, complice gli accadimenti di due anni fa, il varcare la soglia dei 50 anni (anche questo fattore mi rendo conto essere importante perché innesca un cambio di mentalità che può percorrere due strade: l’inseguire la giovinezza o l’accettarsi per quello che si è, letteralmente fregandosene [nei limiti della decenza, ovviamente]) e anche quello che abbiamo vissuto in questi ultimi mesi (che ha portato personalmente ad una asciugatura delle esigenze e ad un avvicinamento all’essenzialità), hanno riposizionato molte cose.
Comportando il rivedere se stessi in modo diverso, anche attraverso ciò che si indossa (che è uno degli “artifici” con cui ci presentiamo agli altri e che contribuisce a formare l’idea che gli altri si fanno di noi).

E questo mi ha fatto tornare in mente un libro di crescita personale scritto da un italiano (di cui non ricordo più il nome) letto molti anni fa.

L’autore (life coach) adottava coi suoi clienti un metodo che ai tempi giudicai assai “stravagante”: durante il percorso, ai suoi coachee faceva rifare il guardaroba come atto fisico di rinnovamento.
Ripeto: ai tempi pensai che fosse una idiozia (non lo nascondo).
Oggi – ricordando quelle pagine – credo non sia una cosa completamente priva di senso.

Ad ogni modo, tornando al Giappone e alla sua estetica (che amo), sempre in questi giorni mi è tornata in mente un’altra immagine.

Qualche anno fa incontravo spesso in treno una donna giapponese di età indefinibile.
La guardavo sempre affascinata: essenziale (quasi spartana nel modo di abbigliarsi) era di una eleganza straordinaria (secondo me).
Capelli grigi raccolti in uno chignon, indossava gonne lunghe, golfini, cappotti, calzini di lana e scarpe tacco basso, tutto declinato in tinte neutre. In una composizione in equilibrio che dava l’idea di discrezione, morbidezza, comodità, ed eleganza.

Non so che fine abbia fatto.
Però, mi è tornata alla mente in questi giorni.
Una figura che avevo momentaneamente dimenticato ma che -evidentemente – non avevo totalmente rimosso.
Un “appunto mentale” che ha sempre costituito un punto fermo nei miei canoni estetici di riferimento, nel mentre sperimentavo altre modalità di presentarmi al mondo.

Effetti collaterali [2]

Questo post “arriva un po’ lungo”.

Sono considerazioni fatte intorno a metà giugno, nel mentre mi approssimavo a Villa Litta ad Affori, che ospita la Biblioteca di quartiere (facente parte del Sistema Bibliotecario Milano), per ritirare due libri: “Percezioni” di Beau Lotto e “Tutto il ferro della Torre Eiffel” di Michele Mari (che hanno inaugurato un mio piccolo progetto che ho denominato #1tweet1libro e #microrecensioni, che condivido sui profili Instagram [in una Stories dedicata] e Twitter).

Ma lo scopo di questo articolo non è una dissertazione sui due libri (di cui peraltro consiglio la lettura).
E’ invece il cercare di raccontare della sensazione che ho provato entrando al parco della Villa.
Un parco che non conosco bene, confesso!, e che ho ad oggi esplorato solo in minima parte.

Ebbene, varcando la soglia quel sabato di giugno è stata meraviglia.
Meraviglia e stupore.

Stupore della bellezza e del verde che erano ovunque.
Come se li vedessi per la prima volta.
Una sensazione strana.

Forse complice il maltempo dei giorni precedenti ed il sole che aveva fatto esplodere la natura, rendendola ancora più rigogliosa, aveva reso più vividi i colori?
Forse.

O forse è stato l’effetto manifesto di uno degli ulteriori effetti collaterali?
Forse l’esperienza del lockdown ha acuito i sensi?
Forse il periodo di silenzio e immobilità è stato un momento per recuperare alcune cose di cui mi ero dimenticata?

Chi lo sa?

Di sicuro però, l’occhio ha (re)imparato a vedere le cose in maniera diversa.
Nuova.

Così come l’orecchio che – complice le notti dal silenzio assordante di quei giorni, intervallato dai rumori delle ambulanze – ha (re)imparato ad ascoltare tutti quei rumori che prima davo per scontati (il fruscio delle foglie mosse dal vento, per esempio…).
E la pelle, che ha (re)imparato a percepire la vivida sensazione del vento sul viso, assaporato durante una passeggiata nel verde qualche settimana fa…

Sì, penso che sia un ulteriore effetto collaterale della esperienza vissuta.
Una “deprivazione motoria” necessaria che ha aumentato la percezione dei sensi, in una sorta di allenamento isometrico.
Preparandoli inconsapevolmente al momento in cui si sarebbero ritrovati (i sensi) nell’ambiente esterno, in una rinnovata condizione di lettura e percezione.

[La gallery delle foto di quel giorno è a questo link: Villa Litta]

Coronavirus e informazione

[Aggiornato con nuove fonti – 26 febbraio 2020]

Le foto qui sotto sono state scattate ieri sera da il babbo e me nelle due Esselunga di Cusano Milanino e Settimo Milanese. Due comuni che – per chi non è di Milano – si trovano ai lati opposti della città.

In questi ultimi giorni (e nello specifico nelle ultime 72 ore) ho letto di tutto e di più su profili social (soprattutto Facebook).
Opinioni che rasentavano il delirante in taluni casi.

E stamattina – scorrendo le informazioni su testate giornalistiche e agenzia di stampa (Ansa, Il Post, Corriere della Sera con escursioni [ieri] su Le Formiche [con un bel pezzo scritto da Andrea Fontana sulla “Infodemia”] e Oggi Scienza) – ho letto un editoriale di Luigi Ripamonti sul Corriere: Una prova di maturità.
Mi ha colpito un passaggio nello specifico.

I generi acquistati in eccesso non soltanto saranno poi indisponibili per chi, più debole, non avrà avuto la possibilità di partecipare alla corsa, ma ricadranno in diversa misura sulla filiera economica e contribuiranno ad amplificare l’ondata di irrazionalità.

E questa menzione del “più debole” mi ha fatto tornare in mente una immagine di domenica (sempre in Esselunga, in piena fase di assalto alle provviste).
Io e pochi altri con pochi generi alimentari, in coda alle casse self-service dei cestini.
Una signora anziana con nipote adolescente.
Entrambi un po’ intimiditi e spaesati (domenica pomeriggio sembrava fosse scoppiato un conflitto, non scherzo).
Coda (la nostra) un po’ disordinata; compressi e sopraffatti da carrelli stracolmi.
Ci siamo regolamentati stile studio medico: “Chi è l’ultimo?”
Nel movimento della coda ci siamo trovati un po’ disordinati e quando si è liberata una cassa, la signora anziana mi ha fatto cenno di andare avanti che toccava a me, quando in realtà toccava a lei.
L’impressione che avevo era che il caos e la folla la intimidissero non poco.
(Io osservavo stranita.)

Ecco, i “deboli” sono anche queste persone (così anche come coloro che soffrono di intolleranze alimentari o altre problematiche/patologie più o meno gravi, come mi ha fatto giustamente notare un contatto su Facebook, che sono costrette a tenere un determinato regime alimentare e che potrebbero non trovare gli alimenti adatti a loro perché precedentemente – compulsivamente – saccheggiati).

Photo by Markus Spiske on Unsplash

Persone sopraffatte da questa “mandria” (e uso il termine con discernimento, intendendo proprio il “comportamento epidemico” adottato in determinate situazioni) di individui fuori controllo nella cui testa scatta una dinamica primordiale governata dal cervello rettile (con la nota reazione “Fight or fly“) e assimilabile anche alla “Not In My BackYard” [NIMBY – il link rimanda alla versione inglese di Wikipedia, perché più neutrale rispetto alla versione italiana] che tante volte ci fa comportare in modo assolutamente illogico, distruttivo e inconsulto.
[Mi ha fatto pensare alla sindrome NIMBY anche questo trafiletto su La Stampa, che invita a riflettere su come muta la nostra percezione dei problemi in funzione della loro prossimità: Il coronavirus terrorizza, il clima no: come nasce la percezione del rischio]

“Mandria” facile preda di fake news e articoli strutturati secondo il sistema del click bait.

E come ho anticipato poco sopra Andrea Fontana, esperto di comunicazione, ha scritto un pezzo molto interessante (di cui condivido la riflessione) dedicato alla Infodemia:
Quando l’infodemia è più pericolosa di una epidemia
[Nel mentre scrivo questo articolo, il sito è irraggiungibile. Spero che il link venga ripristinato al più presto.]
Ne cito un passaggio breve, invitandovi a leggere l’intero articolo:

[…] l’epidemia cognitiva sta mettendo in evidenza i limiti dell’informazione nelle emergenze quando non è chiara, tempestiva ed univoca.

Il suo è un invito ad una comunicazione ponderata, equilibrata ed allineata.
Forse anche più lenta, ma non per questo meno capace di catturare chi (e sono la stragrande maggioranza purtroppo) legge solo le prime righe e non approfondisce.

Photo by Scott Webb on Unsplash

Nel contempo il non esagerare (il “non farsi prendere dal panico”) non vuol dire prendere la direzione contraria (spesso noi essere umani passiamo da un estremo all’altro, passando dal panico iper-conservativo all’incoscienza che supera ogni livello di irresponsabilità ad oggi conosciuto).
Non vuol dire essere incuranti degli effetti del Coronavirus, né essere incuranti degli effetti che una promiscuità può avere – con un effetto domino – su i “deboli” citati da Luigi Ripamonti nel suo editoriale.
Bensì significa prendersi il tempo per informarsi, da più fonti possibili.
Attendibili.
Il che – che ci piaccia o meno – comporta uno sforzo ulteriore di verifica della veridicità di quanto viene scritto.

In tema di informazione, chiudo questo post con il link ad alcuni articoli:

Un articolo molto interessante che spiega le dinamiche del contagio:
Coronavirus, la matematica del contagio che ci aiuta a ragionare in mezzo al caos

Il sito del Ministero della Salute dedicato al Coronavirus, che divulga i dati in tempo reale:
Nuovo Coronavirus

La sezione del Corriere della Sera dedicata espressamente al tema:
Coronavirus, la parola alla scienza

L’intervista all’Infettivologo Massimo Andreoni:
Coronavirus, Massimo Andreoni: «Più casi in Italia? Perché li cerchiamo. All’estero meno»

Su Oggi Scienza:
Quel che bisogna sapere adesso che il coronavirus è in Italia

Foto di copertina di Joël de Vriend su Unsplash

Avere cura degli altri

Non so se capita anche a voi di riflettere sulla vostra quotidianità e su cosa lega le azioni ed i progetti che svolgete.
Se vi capita di fermarvi a pensare per cercare di capire.

Photo by Anastasiya Lobanovskaya from Pexels

Ebbene personalmente di fili rossi, nel corso di questi anni, ne ho tessuti e disfati molti.
Sempre alla ricerca di un perché faccio quello che faccio.
Per dare un senso allo svolgere delle azioni e del tempo.

Sì, perché pur essendo attratta da diversi argomenti (talvolta molto distanti tra loro), cerco di capire cosa lega il tutto per cercare di comprendere che scelte operare (o perché opero alcune scelte anziché altre).

E una domanda che ultimamente mi pongo spesso, costantemente e quotidianamente, quando devo scegliere cosa fare, è: “Perché voglio fare questo? Per diletto, perché mi serve per crescere personalmente/professionalmente, per altro…?“.
Domande talvolta scomode davanti al mio desiderio di voler essere ovunque e ascoltare tutto, ma utili per gestire il tempo al meglio (talvolta disperso attraversando periodi di grande caos).

Ebbene, una delle mie più forti motivazioni che rende (e mi ha reso) possibile reggere ritmi talvolta molto intensi è il “progettare per gli altri“.
Fare/progettare cose che tornino utili agli altri.
Soprattutto per quelle persone che necessitano di un maggiore supporto.
Una motivazione di cui ho già scritto un po’ dappertutto e in più riprese.

Foto di Dominic Alberts da Pixabay

Ultimamente però, riflettendo sull’esito di una simulazione di una possibile presentazione che raccontasse la mia storia, chi sono, perché percorro certe strade anziché altre, ripensando alla passione del “progettare per gli altri”, ho cercato un collegamento con altre esperienze fatte, che sto facendo e che farò.
Cercando di capire se esiste un macro-collegamento che dia un senso alla grande varietà di azioni che talvolta svolgo.
(“Gira? Ha senso nella mia testa ciò che dico?“, mi sono detta.)

Ebbene, riflettendo a distanza di giorni, ho ripensato agli eventi dell’ultimo anno e mezzo.
E ho iniziato ad elencarli: la vicenda di mia mamma (e tutta l’esperienza della Terapia Intensiva), le letture ad alta voce che faccio settimanalmente in una residenza per anziani, le attività di mentoring e speaker coach che svolgo per associazioni di cui faccio parte, alcune chiacchierate non scontate che faccio con amiche,…
Tutte esperienze che ho dovuto accettare (nel primo caso), o che ho scelto o cercato (negli altri casi), e che hanno operato un cambio di prospettiva rispetto al semplice atto del “progettare” (fortemente legato alle esperienze di progettazione di strutture sanitarie).
Che lo hanno ampliato e fatto evolvere al concetto dell’avere cura.

Foto di copertina di Matthias Zomer from Pexels

Avere cura.
Ecco il nuovo senso.
Un atto dall’ampio significato che mette al centro l’altro.
Che ha l’obiettivo di prendersi cura, sia in senso umano/personale (per certi aspetti) sia in senso professionale (per altri).
Che va a recuperare i tanti anni di scuola per coaching, le esperienze degli ultimi tempi, ma anche quelle più antiche.
Avendo sempre ben presente la persona, la sua centralità e la sua importanza.

Foto di copertina Pixabay da Pexels