Che cosa potevamo aspettarci (di diverso)?

7 luglio 2021, un aggiornamento

Dopo avere pubblicato il post che potete leggere qui sotto, che partiva dalla vicenda di Malika Chalhy per fare alcune considerazioni sulla cultura intesa come modo di vivere e vedere le cose (indipendemente da qualsiasi giudizio di sorta), scoppia il caso Imen Jane e Francesca Mapelli.

Ci ho pensato un po’ su (se scrivere un post dedicato o meno), e alla fine ho scelto di aggiornare questo articolo con alcune considerazioni aggiuntive che – per “dovere cronologico” – ho aggiunto in coda.
Perché le due vicende così apparentemente lontane, hanno in realtà molti punti in comune. Pur partendo da due posizioni diverse.

5 luglio, partendo dalla vicenda di Malika Chalhy

Non ho seguito la vicenda, ne ho letto solo qualche giorno fa dopo averne ascoltato un breve cenno nel podcast Morning de Il Post (e successivamente ho letto dei commenti di alcuni contatti di Facebook).

Mi riferisco alla vicenda di Malika Chalhy.

Ascoltando di questa storia mi facevo alcune considerazioni (condite di ampie generalizzazioni, lo riconosco, e di una abbondante dose del bias del “senno di poi”) che stanno sotto una domanda:

“Che cosa potevamo aspettarci (di diverso)?”

Che cosa potevamo aspettarci da una persona che – per denunciare la sua situazione – ha pubblicato sui social i messaggi dei suoi famigliari?

(Tra parentesi gli screenshot di varie tipologie di messaggi – con i mittenti più o meno mascherati – sono diventati il nuovo modo di denunciare alcune dinamiche, esponendo [in taluni casi] alla pubblica gogna i protagonisti di turno. Attenzione, non sto scusando i famigliari della ragazza che hanno scritte cose inenarrabili: sto solo evidenziando delle modalità di comunicazione che sono diventate di pubblico uso anche da parte di persone insospettabili [ricordate gli screenshot di una conversazione privata tra Calenda e Mastella, pubblicati su Facebook dal primo?].)

Che cosa potevamo aspettarci da una persona che – quindi – considera i social come il medium per eccellenza (sicuramente veicolo di diffusione più efficace della stampa classica) attraverso il quale portare a conoscenza una situazione drammatica ma – come un Giano bifronte – capace di darti una notorietà improvvisa che provoca ubriacature difficili da gestire, se non hai gli strumenti adatti?

“Nel futuro, tutti saranno famosi nel mondo per 15 minuti”

E – di conseguenza – che cosa potevamo aspettarci da una persona che probabilmente è cresciuta dentro un certo tipo di cultura (dal lat. cultura, der. di colĕre «coltivare», part. pass. cultus [Treccani]) che considera normale acquistare beni di lusso con i soldi (indipendentemente dalla loro provenienza)?
Perché semplicemente non si pone il problema e – d’altronde – ritiene naturale fare di quei soldi ciò che vuole, semplicemente perché ormai sono suoi (visto che gli sono stati donati).
(Se ci pensate questo pensiero non fa un piega. Possiamo ragionarci e dibattere quanto vogliamo, ma è governato da una logica di ferro. E – se ci pensate – richiama la busta coi soldi data dagli zii e dai nonni, accompagnata dalla frase: “Comprati quello che vuoi”.)

Che cosa potevamo aspettarci di diverso da una persona che vive in uno specifico “layer” (in un livello) che vede questo sistema come unico modo possibile di vita (la cultura di cui accennavo sopra)?

Uso il termine layer (mutuandolo da funzioni di alcuni software) perché mi sembra particolarmente adatto, ma possiamo benissimo sostituire questa parola con “recinto”: da tempo ormai immemore si parla dei social come di “recinti” governati da algoritmi che tracciano le nostre attività mostrandoci di conseguenza – e gradualmente – solo ciò che è più affine ai nostri gusti e alle nostre abitudini.
Limitando sempre più le nostre capacità di pensiero critico e rinforzando i nostri bias di conferma.

Quindi (sempre con il senno di poi) non mi meraviglia particolarmente il modo di agire della ragazza.
Rientra in uno schema di comportamento molto preciso.

E proprio ieri leggevo sul numero di Internazionale, in edicola questa settimana, un articolo di Oliver Burkeman molto lungo, molto complesso, ma estremamente interessante: “Siamo davvero liberi di scegliere?”
Parla del libero arbitrio e del dibattito filosofico che ruota attorno ad esso: tra sua “negazione” e “compatibilità tra libertà di scelta e negazione della stessa”.

Come possiamo essere liberi di scegliere se non siamo in effetti liberi di scegliere?
(Oliver Burkeman su Internazionale)

E questa citazione mi riporta al “cosa potevamo aspettarci (di diverso)?”

Malika Chalhy (ma non solo lei, tutti noi a vario titolo e su diversi layer) orbita attorno ad un certo tipo di cultura.
E purtroppo ha fatto esattamente quello che sapeva (e sa) fare.
Sulla base di quanto ha imparato ed acquisito all’interno del suo ambiente.
(Con strumenti e competenze che potrebbero crearle enormi problemi a breve-medio-lungo termine.)

D’altro canto comprendo benissimo il “disappunto” (per usare un eufemismo) di chi ha partecipato alla raccolta fondi.

Una raccolta fondi nata sicuramente con tutte le buone intenzioni del mondo, ma nata sotto una forte spinta emotiva: “è stata buttata in mezzo ad una strada e non ha nulla di cui vivere, aiutiamola”.
Una leva che fa perno sulla generosità, l’aiutare il prossimo, il dare manforte…

Con il bias del senno di poi, forse era meglio offrirle un lavoro per darle strumenti con cui costruirsi una vita.

Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita.
[Proverbio cinese]

E – pensando alle “reazioni di pancia” che sono assai più rapide delle decisioni a tavolino – spero che questo episodio non abbia una ricaduta a pioggia sul meccanismo della raccolta fondi in senso lato, generando diffidenza.
Ma che sia un monito per imparare a gestire le emozioni forti a favore di decisioni magari più lente, ma più razionali.

7 luglio, arrivando alla vicenda di Imen Jane e Francesca Mapelli

Come ho anticipato nelle righe di introduzione di questo post, che anticipano a loro volta l’aggiunta della nuova “sezione” dedicata al caso scoppiato nelle ultime 72/48 ore, dopo avere riflettuto sul caso di Malika Chalhy, scoppia il caso Imen Jane e Francesca Mapelli.

Un caso che – nel pieno rispetto dei flame digitali – si allarga anch’esso a grandissima velocità ai contatti delle dirette interessate, associazioni e aziende che le hanno viste presenti come ospiti, e realtà che le vedono come collaboratrici a vario titolo.

Non entro nello specifico della vicenda, ma lascio qui alcuni articoli per avere un quadro della situazione per chi non sa cosa è accaduto:

Le due vicende sembrano appartenere a mondi diversi.
Invece, non credo sia così.

Ci sono degli importanti punti in comune: la “cultura” (quel “coltivare” da cui deriva il termine) che genera una visione della realtà che ci fa muovere su layer (o “recinti” o anche “bolle”) nelle quali alcuni comportamenti o non sono contemplati o sono semplicemente “naturali” (nel bene e nel male).
Tal quale la vicenda di Malika Chalhy.

Cosa potevamo aspettarci (di diverso)?

In questo caso forse potevamo aspettarci sì qualcosa di diverso.
Qui la situazione assume un aspetto disorientante, perché da persone che lavorano presso testate giornalistiche e/o si interessano di argomenti specifici non ti aspetti un comportamento simile.
E invece è accaduto.

A prova – forse – della natura dei social: quel Giano bifronte che amplifica esponenzialmente la visibilità, iniettando un senso di onnipotenza in chi non ha gli strumenti culturali adatti per saperla gestire.
Che fa adottare – di conseguenza – specifiche dinamiche comportamentali.

[Tutte le immagini del post sono tratte da rawpixel.com]

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