“Il Punto Critico” di Malcolm Gladwell

Gladwell

“[…] Il candidato più affascinante a questo ruolo è la “teoria delle finestre rotte”, frutto dell’ingegno dei criminologi James Q. Wilson e George Kelling. I due sostenevano che la criminalità è l’inevitabile risultato del disordine: se una finestra è rotta e non viene riparata, chi vi passa davanti concluderà che nessuno se ne preoccupa e che nessuno ha la responsabilità di provvedere. Ben presto ne verranno rotte molte altre e la sensazione di anarchia si diffonderà da quell’edificio alla via su cui si affaccia, dando il segnale che tutto è possibile. […]” [Citazione intorno alla regola del contesto, uno delle variabili di diffusione del fenomeno con dinamiche da epidemia, N.d.r.]

Mentre leggevo le prime pagine del libro “Il Punto Critico” (osannato da molti miei contatti), ero un po’ perplessa: non stavo leggendo nulla di nuovo. Non c’era l’effetto “Wow!”.

Poi ho pensato di fare la cosa più semplice del mondo: guardare la prima data di pubblicazione.
Correva l’anno 2000: l’inizio di un nuovo secolo e di un nuovo millennio.
E lì ho cambiato la mia modalità di lettura (che già aveva parzialmente – se non totalmente – affossato un altro testo osannato da tanti, “Strategia Oceano Blu”, sul quale mantengo le riserve e le perplessità).

Ho capito che per comprendere la sua validità era necessario modificare il punto di vista tipico di una persona che lo legge nel 2013 (ben 13 anni dopo, durante i quali è accaduto di tutto, ed il tutto ha subito una accelerazione esponenziale): bisognava porsi in un’altra ottica, facendo un viaggio indietro nel tempo.
Se lo si legge in questi termini e si cerca di ricordare quali erano le tendenze culturali e di ricerca del periodo, allora se ne può apprezzare la novità di approccio e la sua trasversalità di vedute.
(Prossimamente mi diletterò (non so come…) a fare una ricerca sugli studi sociologici, psicologici, ecc. pubblicati nello stesso periodo, per avere una conferma (o meno) della visione d’avanguardia che questo testo fornisce.)

C’è praticamente tutto quello che si vede oggi: le figure dei connettori, degli esperti di mercato, dei venditori; la regola del contesto, le dinamiche della comunicazione,… Tutte le componenti che concorrono a generare fenomeni virali.

E c’è quello che è musica per le mie orecchie negli ultimi tempi: il numero di Dunbar (i famosi 150 contatti) ed il perché della sua efficacia.
La piccola rete che funziona grazie alla conoscenza reciproca delle proprie competenze, che fa del gruppo un organismo in grado di rispondere bene agli stimoli e ai compiti quotidiani. (A tale proposito è interessante l’esempio della azienda Gore (l’inventrice del Gore-Tex, per intenderci): non so se è ancora così, ma il leggere della sua filosofia operativa mi ha fatto pensare anche al perché del funzionamento (o malfunzionamento) di certi gruppi o aziende che siano.)

Se poi penso alla mia (ma credo e spero non solo mia) esigenza di una maggiore qualità rispetto alla quantità, una rivalutazione ad oggi del numero di Dunbar mi sembra più che indicata (contando su un effetto domino, di propagazione, da parte dei propri contatti sensibili).
E credo che si sia vicini ad un assestamento, conseguenza fisiologica di un picco di espansione bulimica (sto pensando soprattutto ai grossi numeri dei social network) che – forse – porta ad una contrazione ed una stabilizzazione su numeri più gestibili.

Per il resto si tratta di un libro interessante. Molto interessante se si pensa che è stato scritto un bel po’ di tempo fa.

Ho però una riserva: ho trovato un po’ pesante la parte dedicata alla analisi dei programmi per bambini “Sesame Street” e “Blue’s Clues”.
Su 302 pagine di testo, 50 sono dedicate all’esame di queste due celebri trasmissioni.
Confesso di avere fatto fatica a superare queste 50 pagine: ho avuto la percezione (non reale, perché si tratta di 1/6 del libro, quindi poca cosa) che si sia soffermato troppo a scapito dell’analisi di altri casi che – a mio avviso – risultavano più interessanti. E non trattandosi di un libro di pedagogia, la cosa mi ha lasciato assai perplessa.

Resta comunque un buon libro, tuttora attuale, scritto con un linguaggio di facile comprensione e dotato di una cospicua bibliografia di supporto (non tutta in lingua italiana).

Chiudo con una citazione sulla memoria del gruppo (una sorta di memoria condivisa), sulla memoria transattiva (ribadisco: musica per le mie orecchie…):

[…] conoscere qualcuno abbastanza a fondo da sapere quello che sa, abbastanza bene da potersi affidare al suo dominio di determinate conoscenze, che rientrano nelle sue competenze. E’ la ricreazione, a un livello di organizzazione più ampio, del genere di intimità e di fiducia che esiste all’interno di una famiglia.

Buona lettura!

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