A volte certe riflessioni e considerazioni arrivano nel modo più inaspettato.
E ieri è proprio avvenuto questo, davanti ad una cioccolata calda con panna, parlando d’altro, rientrata dal corso di Time Management tenuto da Sebastiano Zanolli.
Che i corsi di Zanolli e de La Grande Differenza siano – almeno per me – sempre fonte di spunti dei più disparati è cosa nota.
Ma questa volta, oltre ad essere tornata a casa con un bagaglio colmo di riflessioni sulla gestione del tempo (proposte in modo insolito, tant’è che nella prima ora di corso non riuscivo ad agganciare i concetti perché non riuscivo a capire dove Sebastiano “andava a parare”, forse per stanchezza mia), sulla strada del ritorno ho ruminato un po’ di cose in più.
Cose che se prima apparivano sganciate una dall’altra, all’improvviso hanno iniziato a generare una riflessione che forse (mi) sta portando ad un altro passo avanti (o ad uno scarto di lato, non lo so…).
Tutto è nato da un confronto di idee avvenuto con Sebastiano qualche giorno fa, in previsione di una sua serata su Architettura e Sociale organizzata da Buildopia (e patrocinata dall’Ordine degli Architetti di Treviso). Idee che ruotavano attorno all’Architetto come ruolo sociale.
Se qualcuno mi dovesse chiedere se e come l’Architetto può essere definito un ruolo sociale, io risponderei che l’Architetto (secondo me) è un ruolo sociale.
Se si riesce ad uscire dal solito perimetro di definizioni che vede l’Architettura come la creazione di spazi di design e la creazione di oggetti che vorrebbero fare la storia del Disegno Industriale, la figura dell’Architetto ha molto altro da dire, sotto molti aspetti.
Lo stesso iter di studi (per lo meno ai miei tempi, fine anni ’80 fino a metà degli anni ’90) si articola(va) in esami di Sociologia, Tecnica delle Costruzioni, Fisica, Progettazione declinata in varie forme (Architettonica, Ambientale, ecc.), Igiene Ambientale, Storia (dell’Arte, di Architettura, di Urbanistica…), Urbanistica, Matematica e tante altre discipline. Senza dimenticare la questione dell’Ergonomia.
(E parlando non molto tempo fa con un esperto di linguaggio del corpo, si parlò anche di prossemica.)
Un mare vastissimo di conoscenza, trasversale.
Un percorso di studi che ricordo essere stato – in alcuni momenti – un vero e proprio incubo.
E di questo parlavo ieri con un altro partecipante al corso di Time Management: un Architetto come me, ma che – a differenza di me – persegue la strada dell’Architettura, con mille dubbi e perplessità. Domandandosi dove è e dove vuole andare. Nel mezzo di un momento di profonda riflessione sulla sua professione e sul suo futuro.
Condivisibile.
Chiacchierando assieme, pensando anche al mio andamento sinusoidale, fatto di picchi e baratri, di strade tortuose, di ripensamenti vari, ma anche di un percorso assistito che mi ha portato a percepire ciò che sono capace di fare, indipendentemente dal contesto, mi è venuto spontaneo offrirgli lo spunto di pensare alle proprie competenze che – magari – possono trovare la loro collocazione (e anche la loro ottimizzazione, perché no) in un ambiente diverso da quello del classico studio di architettura.
E parlando brevemente con Zanolli in chiusura di corso, è emersa un’altra riflessione sua su un convegno al quale aveva assistito con ospiti protagonisti Ezio Manzini ed Aldo Cibic, dove uno dei concetti emersi è stato quello di “Architettura della complessità”.
E questo mi ha ricondotto alla “Architettura della Informazione”, un concetto raccontatomi da un collega e amico di Treviso: un Architetto che vede le cose in modo un po’ diverso dal solito.
Senza dimenticare il duetto esplosivo a cui assistetti qualche mese fa, organizzato da Meet the Media Guru, composto da Fabio Novembre e Carlo Ratti.
Quindi, mi sono detta, l’Architettura (il fare Architettura) è una cosa molto più vasta (e, se si vuole, evanescente) rispetto al luogo comune della progettazione dell’Arredamento, dell’Edificio, dell’Appartamento e dell’Oggetto. (Lì – secondo me – bisogna essere dei geni e avere “quel qualcosa in più” che ti permette di emergere dalla folla dei tanti colleghi. Altrimenti sei un numero, tristemente uno dei tanti.)
Quindi ci possono essere altre strade che possono essere percorse, utili a valorizzare le proprie capacità.
Penso che essere Architetti oggi può voler dire fare anche cose inaspettate (ed inconcepibili) che consentono alle competenze acquisite e ai talenti emersi negli anni di studio, di trovare la giusta via espressiva.
Non è un percorso facile, e non è immediato.
Ma penso valga la pena investirci tempo ed energia, per poter capire dove si è e dove si vuole andare.
Immagine: “Il Sogno” – Olio su tela – RUSP@ – http://www.pittart.com/
Articolo interessante e ben fatto come al solito 🙂 ….concordo però molto poco sul tema dell’ergonomia….vista …anche come barriere architettoniche…sembra che di solito si faccia a gara per crearle…mai o meglio pochissime sono le soluzioni esteticamente valide che possano coniugare scalini, scalette e….scivoli…mi spiace ma di solito non fate (come categoria) un bel lavoro. 🙂
Ciao Pier Giorgio,
grazie!
Condivido sul fatto che – spesso – le soluzioni architettoniche (e di design) creano ostacoli al loro utilizzo.
E le norme in vigore non bastano: manca la sensibilità. E questo l’ho sperimentato nel mio piccolo di recente nella progettazione di un percorso per non vedenti.
Ma penso anche alla sottoscritta – normodotata, grazie a Dio – che si trova in difficoltà a dover cambiare delle lampadine di una applique che ho in casa, molto bella, ma mal progettata e difficilmente manipolabile, se non a fatica.
L’ergonomia spesso (ma non sempre) passa in secondo piano.
Va sviluppata ed incentivata la sensibilità verso una corretta fruizione ed una agevole manutenzione quotidiana.
Ciao!