L’immagine in evidenza mostra il giardino del complesso di Viale Lombardia 17
La bellezza cura. Magari non cura il corpo, ma la mente sì. E se la mente sta bene, anche il corpo (forse) ne beneficia.
E di “bellezza terapeutica” si è parlato anche in un recente incontro di un bookclub. Ma questo post (scritto dopo una lunga pausa, con un paio di altri articoli fermi in bozza) non è dedicato ai libri.
E’ dedicato ad uno spazio tornato fruibile e ai suoi antichi splendori. (Spazio di cui – confesso – non ne conoscevo l’esistenza.)
L’ingresso
Infatti sabato pomeriggio ho visitato – con WAAM – Casa Corbellini Wassermann, tornata accessibile grazie al restauro da poco terminato (2019) ad opera dello studio Binocle e che ospita la galleria d’arte Massimo De Carlo.
La scala a chiocciola esterna proveniente da una installazione di un padiglione della V Triennale di Milano del 1933.
Progettata e costruita da Pietro Portaluppi tra il 1934 e il 1936 per le famiglie da cui prende il nome (in particolare August von Wassermann, imprenditore del mondo della farmaceutica, fu anche scopritore del metodo per la diagnosi della sifilide), semplicemente meraviglia per gli spazi, la luce ed i materiali usati.
Sopra focus sui materiali ed i loro accostamenti
Modernissima nella fruizione e distribuzione degli ambienti, così come nelle finestrature orizzontali ed ampie che catturano la luce. Opulenta per la preziosità dei materiali impiegati che però mantengono un rigore che forse – paradossalmente – ne sottolinea ancora di più la preziosità.
Il gioco di apertura e l’accostamento dei materiali
Ho scattato 40 foto per un’ora di visita. Incantata da ciò che mi circondava.
Scegliendo di far parlare alcune di esse in questo post, accompagnandole con pochissime parole.
Negli ultimi tre mesi abbiamo trascorso gran parte del nostro tempo tra le mura domestiche. Ed è molto probabile che ne trascorreremo molto altro ancora (di tempo), assorbendo gradualmente e sempre più (spontaneamente o meno) nuove modalità di vita e lavoro.
Una “nuova normalità” (con buona pace di coloro che non apprezzano questo modo di definire questa quotidianità post-lockdown nella quale ci stiamo inoltrando) che sta mettendo in difficoltà molti di noi (a vari livelli, a seconda delle condizioni di vivibilità) che ci sta testando sia da un punto di vista fisico (la mobilità diversa), sia da un punto di vista psicologico.
Abitudini, agende, orari, movimenti e ritmi… tutto nuovo (o quasi).
Parlando con dei colleghi, ho ascoltato di diverse reazioni. C’è chi ha deciso di affittare lo studio e lavorare (definitivamente) da casa. Chi sta assaporando il lavoro da casa, forte di una disciplina che fa sì che rispetti orari che non lo portino ad abbruttirsi davanti al computer, migrando dal divano al letto, e viceversa. E c’è chi – come me – dopo l’entusiasmo iniziale, fatica ad imporsi una disciplina (sulla quale sta lavorando).
Ma questo non è un post sulla organizzazione del tempo. Sono la persona meno indicata per scrivere sul tema (a meno che non condivida un elenco di cose da non fare).
Questa è una riflessione sugli spazi che abbiamo abitato così tanto negli ultimi mesi (è probabile che molti di noi abbiano trascorso molte più ore in casa in queste settimane, che negli ultimi cinque anni…).
Spazi abitati sui quali in molti hanno scritto e parlato. Evidenziando che la casa – oggi – ha assunto improvvisamente e realmente (anche) la funzione di luogo di lavoro, dopo che se ne teorizzava da tempo, restando sempre nell’ambito di pochi esempi “di nicchia”.
Vita personale e vita professionale, raccolte all’interno degli stessi metri quadri. In una situazione forzata che forse ha distorto (nel bene e nel male) la percezione del tutto.
E nei periodi più difficili ho tenuto sempre “a portata di click” la videointervista ad Astrogiulia (al secolo Giulia Bassani) Coronavirus: stare a casa è un po’ come stare nello spazio. Parola di Astrogiulia (una piccola ancora di salvezza per vedere le cose da un lato diverso e più costruttivo) Un video che – di recente e a scoppio ritardato – mi ha acceso una lampadina e mi ha fatto mettere insieme argomenti dei quali mi interesso da tempo ma mai – fino ad oggi – approfonditamente come vorrei.
Tre argomenti che riguardano gli spazi che usiamo, non da un punto di vista stilistico e di design ma da un punto di vista di fruizione dell’utente. Che tanta familiarità hanno con il tema (quasi una missione che ho e mi muove) “progettare per gli altri“.
Illuminotecnica – Teoria del Colore – Architettura Comportamentale.
L’Illuminotecnica, una scienza che mi affascina da tempo e che non riesco ad afferrare totalmente in tutte le sue sfaccettature. Ma che mi è particolarmente cara per la sua importanza sull’uomo. Infatti è una disciplina che non mi affascina per il suo saper generare effetti scenografici (comunque stupefacenti); bensì mi affascina il suo influire (nel bene e nel male) sul benessere e sulla quotidianità dell’essere umano. Un tema che ho sentito particolarmente nei giorni nei quali non uscivo di casa e che mi ha portato ad osservare con occhi nuovi l’illuminazione (artificiale e naturale) in casa.
La Teoria del Colore (è recente la mia associazione al Gruppo del Colore dopo un corso che mi ha fatto scoprire un mondo nuovo), altra disciplina che leggo in relazione al benessere e alla quotidianità dell’essere umano. Una scienza dove il colore non è solo un elemento decorativo ma anche – e soprattutto – una componente in grado di influire sullo stato psicologico dell’individuo. (Ricorderò sempre la mia riflessione – in tempi non sospetti, tanti anni fa – osservando un vecchio ufficio che aveva pareti grigie, arredo metallico e luci al neon; ricordo che pensai: “Capisco perché chi lavora qui dentro è particolarmente scontroso…!”)
Ed infine l’Architettura Comportamentale, scoperta grazie ad un corso frequentato nel 2018 a tema “Architettura e Psicologia”. Una esperienza che mi entusiasmò e mi fece esultare nel vedere finalmente delle contaminazioni “dichiaratamente chiare” tra ambiti non così lontani fra loro (contaminazioni che possono apparire scontate, ma in realtà non sono poi così banali). Una disciplina – anche qui – che mette “insieme e in chiaro” due ambiti di studio che collaborano per rendere lo spazio più “amichevole” (user friendly, se vogliamo usare un anglicismo) e fruibile nella sua quotidianità.
Illuminotecnica – Teoria del Colore – Architettura Comportamentale
Tre aspetti che credo diventare ancor più importanti nella nostra nuova quotidianità (insieme alla Ergonomia, altra scienza legata alla fruibilità fisica degli oggetti). Nei nostri ambienti domestici. Che sono stati (nelle scorse settimane) luoghi nei quali abbiamo vissuto e lavorato con maggiore intensità. E che forse abbiamo visto e vissuto – per la prima volta – da una diversa angolazione. Scoprendone anche forse aspetti che non conoscevamo.
Ieri pomeriggio ho visitato la (nuova) fiera dell’editoria a Milano, della quale molto si è parlato e si parlerà, tentando – a manifestazione conclusa – di fare bilanci sulla sua riuscita, in rapporto soprattutto al Salone del Libro di Torino (della quale rappresenta un non indolore spinoff ).
[Stamattina ho letto un post di Luca Sofri su Wittgenstein, del quale condivido i toni pacati ed equilibrati.]
E questo post non vuole essere una recensione dell’evento, bensì è un piccolo resoconto personale di quello che ho vissuto domenica pomeriggio camminando tra gli stand dei padiglioni 2 e 4, ascoltando qui e là i numerosi interventi ospitati dalle case espositive, e scoprendo realtà editoriali (e non) a me totalmente sconosciute.
Nei giorni precedenti avevo preparato un personale itinerario all’interno della manifestazione mirato ad argomenti legati più o meno direttamente alla mia professione, lasciandomi comunque strade aperte ad altri stimoli che avrei colto durante la passeggiata.
In particolare ero partita con l’idea di seguire un paio di interventi legati all’architettura: la presentazione della nuova rivisita Ardeth (edita da Rosenberg & Sellier) e la tavola rotonda sulla “architettura della casa nel noir, nei gialli e in Simenon”; trascorrendo il tempo in mezzo ai due incontri curiosando tra le case editrici presenti.
Una immagine della tavola rotonda sulla architettura nei romanzi gialli, noir e Simenon. Da sinistra a destra: gli scrittori Alessandro Perissinotto e Paolo Roversi, il moderatore ed architetto Luca Molinari, la scrittrice Alessia Gazzola e Ena Marchi (editor di Adelphi).
E se purtroppo il primo l’ho perso perché arrivata in ritardo, il secondo è stato invece un interessante stimolo ad adottare una chiave di lettura specifica ad un genere che ben ospita al suo interno la trattazione degli spazi e dell’architettura, utili a supportare la struttura ed il ritmo narrativo. (Discorso estensibile anche ad altri generi letterari.)
Interessante anche l’aggancio e la citazione al cinema di Hitchcock (in effetti nelle sue pellicole è forte la presenza dell’architettura), che mi ha fatto pensare ad un suo esatto contrario: Dogville di Lars Von Trier (dove invece è completamente assente e – forse – nella sua negazione si fa sentire ancora di più).
La finestra sul cortile (courtesy of The Shelter Network)
Dogville (courtesy of 2byzantium.wordpresscom)
Non si può non citare anche Peter Greenaway con la sua cinematografia (nella foto una immagine tratta dal film “Il ventre dell’architetto”)
Ma prima di assistere a questo intervento conclusivo (uno degli ultimi della giornata), la passeggiata tra gli stand è stata un misto di scoperte di una micro-editoria di nicchia, popolata di estimatori, e di conferme di alcune realtà conosciute.
Sono rimasta colpita dalla produzione Hazard Edizioni, che pubblica fumetti giapponesi stampati secondo lo stesso ordine di lettura dell’alfabeto del Sol Levante: si inizia a leggerli dalla (nostra) ultima pagina per finire alla (nostra) prima pagina (quindi da destra a sinistra).
Ho trovato Taschen ed Egea. Due case editrici che con la loro produzione ben intercettano aree che mi interessano, e nelle quali ho trascorso un po’ di tempo indecisa su quali testi acquistare.
Ho chiacchierato con i ragazzi di Bookabook, la realtà editoriale interessante che si poggia sul concetto di condivisione dei testi e degli strumenti di pubblicazione (“Casa editrice in crownfunding” recita la sua tagline).
Ho sconosciuto Luni Editrice che ho scoperto essere anche organizzatrice del Salone della Cultura ospitato in Superstudio Più lo scorso mese di gennaio (e che verrà replicato nel 2018), dalla quale ho acquistato due libri sul Giappone.
E – ultimo ma non meno importante – ho sostato a lungo nel bellissimo stand dedicato alla realtà delle Biblioteche Milanesi: un angolo dove era possibile esplorare le loro molteplici attività fatte non solo di prestito libri, ma anche – per esempio – di laboratori makers, di contaminazione tra musica e letture e di molto altro.
Nella foto qui sopra due scorci dell’area dedicata alle Biblioteche Milanesi.
Come già scrivevo poco sopra, quello che mi è piaciuto di più del pomeriggio trascorso in fiera è stata la scoperta delle tante piccole case editrici, di nicchia e per appassionati; ma mi hanno incuriosito anche i grossi gruppi, la cui esplorazione mi è stata utile per capire la geografia editoriale.
E poi, amando i libri e la lettura, non nascondo che è stata una impresa titanica il trattenersi dall’acquistare l’impossibile tra saggi e narrativa. (E di molti libri ho preso nota per acquisti futuri.)
Chiudo questo post con una gallery dedicata a quello che è accaduto sabato sera: la presentazione ufficiale del Patto per la Lettura del Comune di Milano, del quale sono appena entrata a far parte. Una bella iniziativa di volontariato che porterà in giro per la città e per le strutture quali ospedali, biblioteche, scuole, case di riposo, carceri… gruppi di lettori volontari.
E sabato sera l’attore Felice Casciano, la psicanalista e formatrice vocale Laura Pigozzi e lo scrittore Hans Tuzzi, hanno condiviso alcuni insegnamenti per vincere la paura del pubblico, per controllare la voce e per entrare in sintonia con le persone che ci ascoltano.
[L’immagine di copertina è la locandina ufficiale di Tempo di Libri]
Non sapevo cosa fosse il Photowalking (“A photowalk is the act of walking around with your camera and photographing your surroundings.“, da Revell Photography) fino a qualche tempo fa, quando su Facebook inciampo per caso in questo post/evento:
E’ stata una bella esperienza, molto interessante. Perché insieme a Orange Photo School (altra realtà scoperta, che ci ha accompagnato insieme a WAAM, offrendoci supporto tecnico), io ed i compagni di passeggiata, abbiamo avuto modo di imparare alcuni trucchi per fare fotografie migliori. Valutando i soggetti inquadrati, le distorsioni prospettiche, la differenza di obiettivi tra macchine fotografiche e smartphone, e altri utili consigli, prendendo consapevolezza di una questione fondamentale: il punto di vista del fotografo.
Che tu abbia una macchina fotografica, uno smartphone o altri dispositivi, sei tu (con il tuo occhio e la tua visione della realtà) a determinare il risultato, a vedere alcune cose che magari altri non vedono e a fissare il tuo punto di osservazione.
Non vado oltre con le parole e lascio spazio alle immagini che ho fissato (tratte dall’account che ho su Flickr, “Non solo un architetto”). L’album è visibile a questo link: Photowalking In Zona Tortona. [Scrivo “fissato” perché lo trovo un termine più adatto ad un dispositivo come lo smartphone, che non è una macchina fotografica a tutti gli effetti, pur offrendo performance sempre più evolute e sofisticate.]
La prima era di non accogliere mai nulla per vero che non conoscessi esser tale per evidenza: di evitare, cioè, accuratamente la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi nulla più di quello che si presentava così chiaramente e distintamente alla mia intelligenza da escludere ogni possibilità di dubbio.
La seconda era di dividere ogni problema in tante parti minori quante fosse possibile e necessario per meglio risolverlo.
La terza, di condurre con ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscere, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza dei più complessi; e supponendo un ordine anche tra quelli e di cui gli uni non precedono naturalmente gli altri.
In fine, di far dovunque enumerazioni così complete e revisioni così generali da esser sicuro di non aver omesso nulla.
René Descartes 1637
[Tratto da “Cosa nasce cosa” di Bruno Munari, Laterza Editori – libro in lettura]
Una meraviglia.
Un folle e gioioso assembramento di oggetti surreali… Più o meno…
Perché in realtà si tratta di oggetti di uso comune (tavoli, mobili, sedie, vassoi, paraventi… ma anche foulard) plasmati da forme e colori tali da trasformarli in altro, facendogli perdere la sua riconoscibilità usuale, decostruendoli e destrutturandoli…
Una mostra molto ben allestita, che è una gioia per gli occhi ed un profondo godimento per l’emisfero destro e la sua creatività insita.
Basta mettere da parte la razionalità, il minimalismo, la logicità e dare spazio al bambino che è in noi, per apprezzare questa passeggiata in mezzo ai colori, agli oggetti e alla fantasia del designer.
Da vedere!
Per rinfrancarsi, per stupirsi e per la bellezza dell’apparentemente inutile…
Alcune suggestioni catturate dalle pareti della mostra… Lascio parlare loro (e le immagini), sono più eloquenti…
Il nostro mestiere è senza limite, a tempo pieno. Non c’è orario. Giorno, anche notte. I miei sogni li traduco in realtà, qualunque cosa faccia.”
Ho fatto l’amore tutta la notte… con una lastra nera di cera e una sottile punta di acciaio. È stata una lunga notte e non so se ho vinto o perso. Certo non ho goduto…
[…] Questa è una mania quella che io combatto, quella delle etichette. Surrealista, neorealista, romantico, postmoderno. Abbiamo l’abitudine di comprare le “firme” e non più le cose belle che ci piacciono. Un artista che vuole avere successo non è più un artista. È una persona che vuole avere successo. Se si adegua alle mode arriva in ritardo perché ormai si sono adeguati tutti. […]
[…] Guarda il bambù per 10 anni, poi dimenticalo, poi dipingi il bambù.
Interiorizzare, creare, produrre.
Non faccio ritratti dal vero, li estraggo dalla memoria.
Magari faccio degli schizzi ma poi produco tutto a memoria altrimenti che ritratti sono!
Sarebbero una copia […]
Sì dice che i miei oggetti siano realizzati con dei metodi segreti… rido sotto i baffi… il mio solo segreto è il rigore con cui conduco il mio lavoro… Sono come un direttore d’orchestra che si serve di primi violini e di professori ma che li dirige tutti per ottenere la sinfonia.
Ho così vestito di vestigia, ceramiche, mobili e cose e ho così riposto in ogni opera un messaggio, un piccolo racconto certe volte ironico, senza parole evidentemente, ma udibile da chi crede nella poesia.
Mi reputo l’inventore del vassoio perché ad un certo momento della nostra civiltà non si sapeva più come porgere un bicchiere, un messaggio, una poesia. Sono nato in una famiglia di pessimo buon gusto e faccio del pessimo buon gusto la chiave di liberazione della fantasia.
Nota alla foto di apertura del post: “Makers” è il libro che ho acquistato assieme al catalogo della mostra nella libreria della Triennale e non è parte integrante delle pubblicazioni della mostra.
Spesso, frettolosi come siamo, non ci accorgiamo di angoli disseminati ed inframmezzati, per questa città (Milano) che percorriamo come delle schegge, inseguendo noi stessi ed i nostri impegni.
Senz’altro alcune architetture possono non piacere, però credo vadano lette rispetto al periodo nelle quali sono state costruite. Periodo che ha visto artisti che hanno inventato nuove correnti di pensiero e che ha visto architetti sperimentare nuovi materiali e nuovi moduli abitativi.
Insomma, sospendere il giudizio per comprendere, imparare ed acquisire qualcosa di utile.
E qualche scatto effettuato qui e là con un iPhone.