Ci sono delle parole, delle parole-chiave, che sortiscono effetti positivi, evocando belle sensazioni.
E ci sono altre parole-chiave che provocano l’effetto opposto.
Questo post (come tutti i post di questo blog) esprime una opinione personale che non vuole essere offensiva nei confronti di nessuno.
Si tratta semplicemente della condivisione di impressioni e sensazioni generate da determinati modus-operandi linguistici e visivi, che non condivido (più).
Quanto viene espresso potrà sembrare un po’ duro ed aggressivo, ma è generato da stanchezza nell’ascoltare sempre le stesse cose, in una caduta libera di fantasia e creatività.
Posso sperare che – nel piccolo – quanto scritto qui costituisca un spunto di riflessione per qualcuno.
Andiamo ad iniziare.
Ieri sera mi sono messa a fare ricerca (quasi per associazione di idee) sul web e sono incappata in un paio di figure che avevano un comune denominatore in una parola chiave che mi fa letteralmente venire l’orticaria al solo sentirla pronunciare: “vincente”.
Questa, insieme all’altra parola-chiave tanto in voga “obiettivi” (nell’accezione ansiogena), sono vocaboli che mi rendono veramente insofferente nei confronti di chi le pronuncia.
Ben inteso, non sono una che non si pone degli obiettivi.
Sul lavoro è uno stabilire obiettivi una-via-l’altro, procedendo per precisi step intermedi all’interno di lavori di progettazione piuttosto estesi, consegnando commesse…
Tutto è governato da obiettivi intermedi e/o finali.
Ma quello che non sopporto più è il martellamento di dover assoggettare tutto o quasi a precisi obiettivi, pianificando ossessivamente e compulsivamente tutto.
Con l’incubo (la minaccia) che se non lo fai sei un povero tapino, disgraziato e pure fallito che non concluderà mai nulla nella sua vita, marchiato in una sorta di evoluzione della Lettera Scarlatta.
L’altra parola (vincente) poi viene associata automaticamente, nella mia testa, a figure di manager (o presunti tali) fotografati a braccia conserte, di tre quarti, con un sorriso vincente (appunto).
Oppure fotografati con sorrisi a trecentosettandue denti, coi pollici alzati, vincenti (appunto).
Se poi sfoggiano una abbronzatura caraibica, ancora meglio…
Qualcuno mi potrebbe giustamente chiedere: “Ok… Va bene… E quindi? Cosa proponi in alternativa?”
Propongo un po’ di “sano pragmatismo”.
Nulla più.
Non uno stracciamento di vesti.
Non un lamento, accompagnato da pessimismo sottile e strisciante.
No.
Voglio solo un po’ di sano pragmatismo.
Sano pragmatismo…
Una definizione di cui mi sono letteralmente innamorata appena l’ho sentita pronunciare.
Per me rappresenta concretezza, fatica (certo), ma anche capacità di guardare in faccia ai problemi (magari se li chiamiamo “questioni” suona meglio e meno drammatico) con la volontà di trovare una sana e concreta via di uscita (che c’è).
Sano pragmatismo mi riporta anche parole dense di significato, che costituiscono pilastri importanti su cui poggiare la costruzione di cose/iniziative/idee solide.
Parole che ci siamo dimenticati, buttandoci a capofitto su altri vocaboli presi in prestito e scimmiottati da una cultura che non ci appartiene.
Nella speranza, forse, che il loro utilizzo ci possa far fare cose diverse.
Ma che – per come la vedo io – poggiando sull’inconsistente, non portano a nulla se non ad un risultato effimero e di breve durata.
Un risultato che magari non ti appartiene e che risulta essere di superficie, non tuo.
Quindi basta con il linguaggio pushy, per favore.
Basta con queste immagini rampanti così démodé.
Fa molto anni ’80.
E gli anni ’80 sono finiti da mo’.
C’è altro là fuori.
C’è ben altro.
E richiede una linguistica ed un comportamento ben diversi.
Richiede meno inconsistenza e proclami e slogan.
Richiede più concretezza, flessibilità e forza/energia risolutiva.
Almeno secondo me.
Credo che sull’altare della programmazione ossessiva compulsiva siano state sacrificate bellissime e, forse, irripetibili esperienze sia di vita privata sia di professione.
Sono per una programmazione flessibile e aperta al cambiamento. So che può sembrare un ossimoro ma non è così.
D’accordo con te, Barbara sull’analisi.
Ciao Antonella,
mi rincuora ciò che dici.
Infatti a volte io mi sento inadeguata, nel non riuscire (avere voglia?) di stabilire obiettivi.
Mi piace l’idea di avere un macro-obiettivo (“mi piacerebbe fare questo”) e di avere un disegno generale.
Magari lo scrivo anche, raccontandomelo con ricchezza di dettagli e particolari.
E poi avanzo passo-passo, aggiustando la rotta durante la navigazione.
Questo mi fa sentire più flessibile e mi da l’idea di avere (vedere) maggiori opportunità che un piano dettagliato non mi permetterebbe di vedere.
Ciao e grazie!