Tra il mondo e l’orto

Stamattina, ascoltando Morning (la rassegna stampa mattutina de Il Post), ho ascoltato (mi si perdoni la ripetizione) della situazione in Sudan (e dei legami tra Stati coinvolti a vario titolo con la regione in guerra, che disegnano – elaboro le parole utilizzate – “un nuovo mondo che rifiuta l’Occidente” [questione di cui ascolto già da parecchio tempo da parte di un collega]).

E – all’interno dello stesso podcast – ho ascoltato anche della vicenda del programma di Massimo Giletti (non voglio entrare nel merito della trasmissione, che non ho mai guardato e sulla quale ho una mia opinione che però non è oggetto di questa riflessione) e delle ipotesi che si fanno sul motivo della sua sospensione (dalle più prosaiche [questioni di ritorni in termini di pubblicità] alle più complottiste).

In una improvvisa ed inaspettata associazione mentale ho ripensato alla conferenza di apertura del festival Cara Casa (alla quale ho assistito sabato mattina, dedicato al tema della casa e – ad esso collegato – delle metropoli), al percorso a piedi che ho fatto successivamente da viale Padova (il convegno era ospitato allo Spazio Mosso) a Lambrate (percorrendo strade a me sconosciute fino a quel momento e che mi hanno mostrato un mondo altro), all’attenzione che ho posto qualche giorno fa alle case a ridosso della ferrovia a Genova (“Non va bene così”, ho pensato, “come si possono accettare queste situazioni?”)…

Le foto qui sopra le ho scattate dal treno mentre ci stavamo avvicinando alla stazione di Genova Porta Principe. Nessuno zoom: nelle prime tre foto (partendo dall’alto al basso, da sinistra a destra, si vede il parapetto della ferrovia).

[Perché mi interesso così tanto (sono così reattiva) a questi temi?, mi sono domandata. Perché penso che un giorno potrei trovarmi anch’io in una situazione simile e non vorrei mai trovarmici, mi sono risposta. E così cerco di capire e di conoscere per prepararmi, quasi a rassicurarmi, pre-occupandomi di qualcosa che potrebbe accadere ma non è detto che accada.
Sarebbe poi molto più comodo volgere lo sguardo altrove, non curandosene. Ma – come dicevo ad un altro collega – alla pulsione di tapparsi le orecchie e chiudere gli occhi, rispondo col forzarmi a guardare e ascoltare per non diventare indifferente, scivolando nella disumanità.]

Dunque una realtà, un perimetro, di ragionamento più o meno ampio.
Costantemente sotto gli occhi.
Altamente instabile e in transizione verso nuovi equilibri che – per una comune mortale come me – sono sconosciuti e dei quali posso solo cercare di intuirne i contorni (per – appunto – prepararmi).

Una faccenda, questa, da mal di testa e – se non ben gestita – generatrice di stati d’ansia.

Ma…

Ma sempre quel collega di cui scrivevo qualche riga sopra (colui che da tempo riflette sui nuovi equilibri mondiali), qualche giorno fa mi ha detto (lo scrivo con parole mie): “Mi preoccupo di quello che succede alla macro-scala, ma se mi fermo a pensare alla mia vita (alla mia realtà, al mio intorno, n.d.r.) va bene. Non posso lamentarmi. Sì, ci sono problemi e preoccupazioni, ma va bene.”

Ecco – riflettevo stamattina – un buon modo per non farsi travolgere da loop mentali che si innescano (e si autoalimentano) a causa di ciò che si legge, si osserva e si ascolta di quello che accade nel mondo (vicino o lontano che sia), che affardella ulteriormente, è quello di tornare spesso nel proprio “orto”. Concentrandosi e prendendosene cura.

Uno scorcio dell’Orto comune di Niguarda, bella realtà di orticoltura sociale (http://www.ortocomuneniguarda.org/)

Adottando però – nello stesso tempo – uno “strabismo funzionale”.
Ossia stare nel proprio “orto”, coltivandolo, senza comunque perdere di vista (con la coda dell’occhio) quello che accade al di fuori (ciò che non ci tocca direttamente).

Perché anche asserragliarsi, isolandosi nel proprio “orto”, può non essere una buona idea.
Essendo il recinto sempre (almeno un po’) aperto e impollinabile (e talvolta anche infestabile).

[Foto di CHUTTERSNAP su Unsplash]

Tempi complicati

Premetto di essere un po’ drammatica e cupa in questi giorni, ma leggendo alcune notizie il primo pensiero è stato: “Dopo 1984 [Orwell, n.d.r.] ci stiamo avvicinando a passo felpato e circospetto a scenari alla Fahrenheit 451 [Bradbury, n.d.r.]”

Dei libri di Robert Dahl (della loro riscrittura) avevo letto, di Ian Fleming ho letto di recente e di Agatha Christie ho sentito in queste ultime ore…
Scoprendo nel frattempo una nuova professione: il Sensitivity reader. Cioè colui (o colei) che ha il compito di leggere i libri, valutarne il linguaggio ed un possibile suo aggiustamento per non urtare la sensibilità dei lettori.

Che dire davanti a tanta idiozia umana?
(Mantenendo il beneficio del dubbio sui Sensitivity reader.)
Nulla. Semplicemente nulla.

Ma mi sono ricordata di due cose.

La prima.
Una sera di tarda estate del 2020 su un terrazzo in centro a Milano.
L’ultimo incontro del Bookeater Club di Zelda Was a Writer (al secolo Camilla Ronzullo), ed uno dei primi incontri in presenza dopo mesi di lockdown e incontri online.
Libro – o meglio audiolibro – in oggetto: “Via col vento”, letto magistralmente da Anna Della Rosa, in una nuova traduzione curata da Neri Pozza che ne aveva acquisito i diritti.
Ricordo che dibattemmo sul tema della riscrittura fatta – in questo caso – per adattare il linguaggio a termini più moderni (c’era un problema di linguaggio appesantito dalla vetustà). Si ragionò sul rischio di operazioni di riscrittura, di cancel culture e di rischi di neo-lingua (tirammo in ballo “1984” di Orwell)…

La seconda.
Ricordo mia mamma quando mi raccontava dei libri all’indice durante la sua giovinezza.
Dell’elenco di libri banditi esposti nelle bacheche delle parrocchie (se ricordo bene…).

Ora… io non avrei mai pensato di vedere anche questo.
Non nel 2023.

Dopo una pandemia, una guerra alle porte dell’Europa, una crisi energetica e climatica sempre più presenti… la cancel culture che diventa sempre più pervasiva (già ai tempi della prima Guerra del Golfo, gli USA bandirono il termine “French fries” perché la Francia era restia a partecipare e/o sostenere il conflitto…).
Perché sembrano eventi slegati tra loro, ma sono espressioni di un mondo sempre più complesso, veloce, interconnesso e instabile.

Contradditorio e generatore di paure.

Perché “fa niente” se una persona entra in una scuola armata di fucile d’assalto e fa una strage (solo per citare l’episodio più recente).
L’importante è cambiare nome ad una scuola perché Washington è un personaggio controverso (cambieranno anche le immagini sui dollari…?), l’importante è protestare per una immagine del David perché i genitori non erano stati preventivamente avvisati, l’importante è (perché ce n’è per tutti, anche qui in Italia) emettere leggi su ipotetici reati relativi alla carne sintetica (la notizia è di poche ore fa) in una miopia conservatrice incurante delle possibilità di sostenibilità alimentare e ambientale…

Ci sono dei periodi (e questo è uno di quelli) nei quali chiuderei tutto, cancellerei tutti gli account e smetterei di informarmi (ed ascoltare) per non leggere (e ascoltare) di questi deliri dettati da una ignoranza abissale e profondissima.

Oggi sono cupa e drammatica, lo so.
E allo stato attuale non vedo un bel futuro.
Da qualsiasi parte mi volti.
(Poi magari domani mi alzo più riposata e vedo qualche spiraglio di ottimismo…)

Di sicuro sono tempi turbolenti ed è in atto una frattura culturale (sociale e politica) preoccupante (inutile edulcorare i termini).
Dove l’ignoranza urla e spintona, mettendo nell’angolo il sapere e la cultura. Che si devono fare silenziosi e capillarmente pervasivi per poter proseguire la propria opera di divulgazione utile a navigare in tempi così complessi e complicati.

[Foto di Ed Robertson su Unsplash]

Idee per il 2023

#BigIdeas (seguito dall’anno imminente) è l’hashatg con cui LinkedIn ragiona e ascolta delle prossime tendenze alla vigilia del nuovo anno: Big Ideas 2023: 16 tendenze che segneranno i prossimi mesi

E quest’anno ho raccolto l’invito di LinkedIn Notizie ad una personale escursione nelle Big Ideas sulle quali presterò attenzione e cercherò di percorrere nella mia vita professionale nel 2023. Muovendomi soprattutto nel mondo delle soft skill.

Provo a tracciare un ragionamento.

Innanzitutto penso sia ormai necessario esplorare (e sperimentare su di sé) la Interdisciplinarità.
La verticalizzazione spinta delle nicchie professionali temo abbia fatto il proprio tempo: la velocità con la quale le cose cambiano, porta alla loro rapida saturazione. E a tale proposito, riprendo un tema già trattato nel libro di Giulio Xhaet, #Contaminati: siamo passati da competenze I shape a Comb shape (le competenze a “pettine”) – attraversando le competenze a T e a “Pi greco” (perdonatemi… non trovo il simbolo…).

[Immagine tratta dal sito CertiBanks]

Credo sia ormai necessario fare uno sforzo nel mettere in dialogo fra loro l’emisfero destro e l’emisfero sinistro (tra creatività e razionalità), lavorando allo sviluppo di questa propria meta-competenza (che potrebbe anche essere diversa per ognuno di noi).

E questo si collega (per lo meno nella mia testa) ad una seconda necessità, che sembra in conflitto con la prima: il Less Is More (di cui avevo già scritto in un recente post).
Una necessità di pulizia del “rumore di fondo” (perlomeno di sua individuazione e suo isolamento) per avere una maggiore chiarezza di lettura, ascolto ed individuazione delle tendenze e di ciò che si profila all’orizzonte.

Una terza variabile è il Linguaggio.
Un linguaggio inclusivo, inteso come riconoscimento di ciò che è altro da noi, ma che – proprio per questo – non sconfini nella cancel culture: l’esclusione di tutto ciò che è “sbagliato” (non politicamente corretto, diverso, ecc. ecc.) e quindi oggetto di rimozione (Vera Gheno ha scritto una interessante riflessione sul tema della necessità di riconoscimento della diversità nella pubblicazione de Il Post dedicato a “Questioni di un certo genere“).
Una deriva rischiosa che potrebbe portare all’oblio e quindi (nei casi più delicati) alla possibile incapacità di individuazione di ritorno di alcuni fenomeni, anche sotto aspetti diversi.

Forse la sintesi di questo mio ragionamento può essere raggruppato in una ulteriore parola chiave: Complessità.
Un concetto – ma anche una “situazione” – con il quale ci confrontiamo sempre più quotidianamente e che non possiamo più ignorare.
E che quindi necessità di una nostra graduale, progressiva e costante familiarizzazione con essa.

Complessità e incertezza

Il periodo che stiamo vivendo (e non mi riferisco solo alla pandemia in corso, ma anche alle altre vicende che agitano il mondo negli ultimi tempi), mi hanno fatto immergere nelle realtà parallele del comportamento umano.
Talvolta sfiorando la morbosità e comunque vivendo un certo disagio (mi è capitato di leggere su Internazionale un reportage scritto da Wu Ming 1 [un collettivo di scrittori] sul mondo di QAnon, che mostra una realtà che si fa fatica ad accettare come esistente: Il mondo di QAnon: come entrarci, perché uscirne. Prima parte).

E proseguendo in questa assai particolare esplorazione “dell’animale uomo” (come lo chiama mio padre), l’altro giorno ho letto un altro interessante articolo (sempre su Internazionale): L’intreccio tra complotti e populismo in Italia

Al suo interno vi è un passaggio secondo me interessante.
Lo ri-coniugo qui sotto, come introduzione alla lettura dell’articolo.
Partendo da un episodio abbastanza surreale, perché coinvolge un giornalista sempre abbastanza assennato, l’autore dell’articolo (Alessandro Calvi di Voxeurop) scrive:

“[…] anche per i più “insospettabili”, scivolare dall’analisi della realtà verso teorie di natura complottistica le quali, in genere, semplificano la complessità del reale, rassicurando chi le ascolta o costruendone l’identità.”

Semplificazione di una realtà sempre più complessa, che talvolta stentiamo a comprendere.
Una sorta di due velocità (la nostra, di creature analogiche con un numero “limitato” di sinapsi, e quella là fuori che viaggia ad una velocità molto più elevata) che genera un divario profondo.

E questa incomprensibilità può portare a due comportamenti, secondo me:

  • una continua, costante (e faticosa) corsa al cercare di comprendere (e di anticipare),
  • un rifiuto generato dal non comprendere che genera a sua volta paura e porta al rifugiarsi all’interno di una fortezza.

Una fortezza le cui mura sono costituite da certezze acquisite nel tempo che fu ma che – in confronto alla realtà là fuori – hanno (nel bene e nel male) fatto il loro tempo.
Certezze che rifiutano a priori qualsiasi cosa sia diversa dal proprio schema consolidato.

E questo atto di proteggersi dalla “paura del là fuori” mi fa pensare anche al fare gruppo/branco: l’aggregarsi con chi la pensa come noi rinforzando i nostri bias, in un corto circuito vizioso.

Foto di Ishan @seefromthesky su Unsplash

A questo punto il post che avevo inizialmente pensato di scrivere avrebbe preso una direzione di appello all’informarsi, alla verifica delle fonti, ecc. ecc.

Ma stamattina in “Morning” (il podcast de Il Post) ho ascoltato di un post scritto su Facebook da Daniele Ranieri (giornalista de Il Foglio) che sono andata a leggere e che – ahimè – mi sono ritrovata a condividere nel ragionamento.
E che sintetizzo in questa frase qui sotto (che è una personale sintesi).

E’ uno spreco di tempo ed energie il voler convincere persone a fare cose che non vogliono fare: più insistiamo più confermiamo i loro bias; più ne parliamo e li coinvolgiamo, più li facciamo sentire persone speciali e quindi importanti, rinforzando la loro identità.

Ed è quello che – con grandi scrupoli e a modo mio – sto facendo da qualche giorno a questa parte anche sui miei piccoli profili social (soprattutto Facebook, dove lo scontro è molto acceso): sto rimuovendo (e talvolta bloccando) persone i cui post mi compaiono in timeline e narrano di complottismi, sostenendo teorie negazioniste.

Questo non mi fa di certo stare bene, eticamente parlando (mi faccio una montagna di scrupoli).
Un’amica commentava il suo timore (da me condiviso) di chiuderci a nostra volta in una bolla contrapposta all’altra.
Ma in questi tempi così complessi mi vedo costretta a fare “di necessità virtù”.

Coltivando il dubbio (che ha modalità espressive ben diverse dal negazionismo e dal complottismo).
Cercando di aprirsi un varco nella foresta di parole, per cercare di intravedere possibili strade valide da percorrere.

[La foto di intestazione e dì Waldemar Brandt su Unsplash]

Perdersi nella complessità

“Mentre cerca di affrontare la crescente complessità delle conoscenze e delle terapie, la medicina fallisce obiettivi modestissimi” [Don Berwick]

Stamattina in metropolitana leggevo alcune pagine del libro di Atul Gawande “Con Cura” (Ed. Einaudi) e mi ha colpito questa affermazione di Don (Donald) Berwick (per sapere chi è, su Wikipedia vi è una pagina in inglese a lui dedicata).

Mi ha colpito in modo particolare perché l’ho immediatamente associata a dinamiche della mia professione (progettazione, ingegnerizzazione, cantieri, …).

C’è sicuramente differenza tra i due mestieri, che hanno gradi di sensibilità abbastanza diversi (anche se lo stesso Gawande, nel libro Checklist, esplora il mondo dell’edilizia alla ricerca di spunti utili legati a “liste e processi di controllo” per la sua professione di medico), ma ci sono anche molti punti di contatto.

Quei punti di contatto che mi hanno fatto pensare a come sovente accade di perdersi nella complessità (che c’è, esiste e con cui dobbiamo fare i conti) a scapito del mantenimento (necessario e fondamentale) di una visione d’assieme.

[L’immagine in evidenza è tratta dal New York Times]

Complessità e Semplificazione

Stamattina – scorrendo le timeline dei vari social e leggendo diversi post – mi facevo una considerazione, frutto forse anche della fatica psicologica che molti di noi stanno vivendo da un punto di vista professionale (che non esclude ricadute anche nella sfera personale).

Una riflessione che mi ha ricordato una frase di Jeff Bezos che avevo visto condivisa via Facebook nei giorni precedenti:

“Bisogna essere testardi nella visione e flessibili nei dettagli.”

Frase che fa parte di una intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica: Jeff Bezos: “Un passo alla volta”, dai libri ai giornali e poi fino alle stelle

Jeff Bezos
Foto di Marco Montemaggi via FB (pagina Sebastiano Zanolli – La Grande Differenza)

Considerando la sua affermazione, ho pensato a quante volte – negli ultimi tempi – mi sono confrontata con la personale idea dell’avere un obiettivo, lasciando un buon margine di approssimazione alla programmazione, riservandomi diversi gradi di flessibilità.

Un controsenso rispetto alla definizione nota dell’obiettivo SMART:

  • Specifico, cioè che non lascia spazio ad ambiguità;
  • Misurabile senza equivoci e verificabile in fase di controllo;
  • raggiungibile (dall’inglese Achievable), poiché un obiettivo non raggiungibile demotiva all’azione allo stesso modo di uno facilmente raggiungibile;
  • Rilevante da un punto di vista organizzativo, cioè coerente con la mission aziendale;
  • definito nel Tempo.

[Fonte Wikipedia]

La questione è che ho l’impressione che la programmazione per obiettivi misurabili, temporalmente definiti, ecc. ecc. sia valida solo in alcuni casi: in particolare se tratti un oggetto, o un servizio, “concreto”.

E che tale approccio forse non è applicabile all’interno della complessità crescente dell’ambiente nel quale ci muoviamo, dove – tra l’altro – gli stessi beni e servizi hanno durata molto più breve e sono soggetti ad un “deperibilità” (una caducità) molto più rapida rispetto al passato.

Complessità

 

Se poi navighi, ti interessi e ti confronti con l’intangibile, allora ti rendi conto che certi metodi semplicemente non vanno bene.

Con la conseguenza che se li hai sempre considerati fondamentali bussole per orientarti nelle scelte e nelle interpretazioni, puoi trovarti costretto gioco-forza a scegliere di “navigare a vista”, assumendoti un nuovo tipo di rischio (indeterminazione), cercando di intercettare e ascoltare quello che il mondo là fuori fa, dice e crea, passo-passo.

Tutto questo mi fa pensare anche a quanto è comoda la semplificazione. Di processi, di metodi, di concetti.

Una comprensibile necessità umana utile per leggere e codificare la realtà in un linguaggio semplice e accessibile, ma in talune condizioni a rischio di miopia interpretativa.

Un bisogno favorevole alla creazione di una nuova zona di comfort, nella quale erediti chiavi di lettura confezionate da altri.

(A questo proposito segnalo una interessante intervista a Zygmunt Baumann, pubblicata sul sito del Corriere della Sera: Zygmunt Bauman: «Le risposte ai demoni che ci perseguitano»)

Credo ci si trovi di fronte a delle scelte.

O si sceglie di vivere secondo letture ed interpretazioni prodotte da altri.

O si sceglie di confrontarsi con la complessità e l’interdisciplinarità, cercando di comprenderla, e di navigarla, secondo le proprie interpretazioni, sperimentando.