Di recente ho commesso un errore.
Importante, secondo i miei parametri.
Ho ceduto alla lusinga dal “vago sentore primitivo” (leggasi “intervento del cervello rettile”) di quella benedetta/maledetta piattaforma che si chiama Facebook: ho ceduto alla pulsione di voler esprimere un opinione personale su una vicenda di grande risonanza mediatica che “fa scopa” (termine mutuato dal celebre gioco a carte) con un tema fortemente polarizzante.
Praticamente una tempesta perfetta che – se ben condotta – può generare engagement (che non era il mio obiettivo) ma che se sfugge al controllo genera un flame (che si stava generando) su cui bisogna cercare di intervenire rapidamente, con tutta la difficoltà derivante da una comunicazione temporalmente non allineata e priva di tutta una serie di canali comunicativi che possono smorzare eventuali malintesi (tono di voce, espressioni del volto, sguardi, ecc. ecc.).

Anzi, l’errore non è stato uno.
Bensì sono stati due.
Il primo è stato quello di voler esprimere una opinione sulla questione (non necessaria, anche se pubblicata sul profilo personale).
Il secondo è stato quello di toccare uno degli argomenti più sensibili in circolazione negli ultimi giorni.
Parto dal secondo per poi collegarmi al primo.
Di solito un suggerimento che si da a chi muove i primi passi nella comunicazione in pubblico, e al pubblico, è di evitare di trattare argomenti relativi a politica, religione e sesso (a meno che non siano esattamente i temi di cui si deve parlare, nel qual caso si lavora sul come trattarli a livello di linguaggio utilizzato e “tono di voce”).
Perché questo?
Perché sono temi che bisogna saper gestire (anche a livello emotivo), così come bisogna saper gestire quello che si muove a valle. Cioè quello che le tue parole scritte (o dette) generano in chi ti legge (o ascolta).
Ai tre argomenti sopra citati se ne devono però aggiungere altri due: lo sport (ma di questo già si sapeva, in particolare sul tema calcio, e oggi anche in estensione su altre discipline) e la questione vaccini (anche se non esprimi opinioni contro chi non la pensa come te).

Una ingenuità mia, lusingata da vecchi insegnamenti male interpretati: il prendere posizione per (mi si perdoni la ripetizione) posizionarsi.
(Dove per “posizionarsi” intendo acquisire autorevolezza su qualcosa.)
Ma il posizionarsi non si accompagna necessariamente all’esprimere opinioni su argomenti che non sono attinenti al tema su cui vuoi acquisire (o hai) – appunto – autorevolezza.
Anche se esprimere opinioni (anche su argomenti “esterni” alla tua area di competenza) ti posiziona. Irrimediabilmente. Nel bene e nel male.
(E quando sei posizionato/a devi saperti gestire e devi saperne gestire le conseguenze.)
Recentemente – a valle del post (che ho poi rimosso) – mi è tornato in mente quello che aveva riflettuto qualche giorno prima un contatto (sempre su Facebook): la decisione di non condividere più opinioni su tutto, constatandone il beneficio (anche mentale) che ne stava traendo.
Una scelta editoriale.
Così facendo qualcunә potrebbe pensare che questo vada a compromettere la libertà di espressione.
Ma non è così.
Si è liberә di pensare ciò che si vuole ma non ci si deve sentire obbligatә (dal proprio Ego) ad esprimere le proprie idee.
Anzi, questa scelta può essere l’occasione per esercitarsi nella misurazione delle parole, nella osservazione e nell’ascolto. Senza esprimere un giudizio e senza cedere alla pulsione indotta dalle emozioni che i contenuti altrui possono generare.
Non dico che l’adozione di questo comportamento sia un percorso facile.
Continueremo ad arrabbiarci, o a indignarci, davanti a ciò che non è allineato con il nostro pensiero: siamo umanә e siamo fatti di emozioni. E’ giusto che sia così.
Ma se desideriamo instaurare dialoghi costruttivi, anche se i nostri interlocutorә si trovano su posizioni opposte alle nostre, la strada da percorrere è questa: sospendere il giudizio, riconoscere le nostre emozioni (mettendole momentaneamente da parte) e – soprattutto – predisporsi all’ascolto (anche attivo).

Forse i canali di comunicazione a nostra disposizione (i social media), con la loro modalità di comunicazione asimmetrica (nei termini di cui scrivevo all’inizio), non sono il luogo ideale per affrontare temi importanti.
A meno che si sviluppino competenze emotive e di linguaggio (in senso ampio) tali da consentirci confronti dialettici “calibrati” e approfonditi.
Perché queste piattaforme offrono indubbiamente potenzialità immense e sono – di conseguenza – strumenti molto potenti. E come tutti gli strumenti (potenti o meno) la bontà (o meno) dell’uso che se ne fa, dipende solo ed esclusivamente da noi.
E – nello specifico – dalle nostre competenze emotive e di linguaggio.
(Nota finale “ludica”: parallelamente ho avuto modo di “apprezzare” la velocità di risposta dell’algoritmo che – al mattino successivo alla pubblicazione del disgraziato post – mi mostrava con solerzia contenuti analoghi di contatti che non ricordavo neanche di avere e che mi hanno generato qualche “mal di pancia”. Confido che la rimozione del post e il riordino del profilo sollecitino a breve l’algoritmo ad un aggiustamento altrettanto rapido della timeline.)