Questioni di “Ә” e di genere

Si scrive “ə”, si pronuncia Scevà (dal tedesco Schwa, a sua volta derivato dall’ebraico shĕwā).
Il suo suono dovrebbe collocarsi – se ho ben compreso – tra la “a” e la “e” (una sorta di “e rilassata”)

[Immagine tratta da Wikimedia Commons]

Non è una lettera introdotta di recente.
Esiste da tempo negli alfabeti esteri.

Ma il suo impiego nella nostra lingua sta avvenendo in tempi recenti, in modo sempre più pervasivo.
Si colloca al termine di quelle parole che si distinguono tra il maschile e il femminile, sostituendosi per rendere il termine utilizzato inclusivo anche per coloro che non si riconoscono nella identità binaria (maschile o femminile).

Non mi dilungo nella presentazione e spiegazione di questa piccola lettera che sta generando grandi discussioni più o meno “polarizzanti”: c’è chi è a favore e c’è chi è contro (quando ho scritto un post su Facebook, nel quale raccontavo della sperimentazione personale in corso, mi sono trovata a dover moderare commenti anche un po’ veementi).
E’ interessante invece il lungo articolo che l’Accademia della Crusca dedica alla differenziazione di genere nel linguaggio: Un asterisco sul genere.

Per quanto mi riguarda continuo nella sperimentazione (ho preso “coraggio” introducendola anche nella homepage del sito), procedendo per piccoli passi e tastando il terreno.

I primi esperimenti sono stati all’interno di slide di un webinar che ho tenuto di recente dove – anziché utilizzare asterischi o “o/a” (“e/a”) – ho inserita la “ә” come “declinazione inviluppo”. Anche se nel parlato ho continuato a declinare le parole in femminile e maschile.

Perché l’ho fatto?

Perché ho iniziato a prestare attenzione a coloro che stanno scrivendo (anche da tempo) della dominanza della coniugazione al maschile nella definizione di ruoli e professioni (maschile sovraesteso).
Una particolarità che sino ad oggi ho acquisito come dato di fatto, non avendo mai vissuto la questione come una discriminante.

Apparentemente. Forse.

Perché un passaggio che faccio molta fatica a fare è la declinazione al femminile della parola “architetto”: architetta.
Lo faccio (sforzandomi) in ambienti esclusivamente al femminile, ma all’interno di situazioni professionali miste (soprattutto cantieri, e vi lascio immaginarne il motivo per chi conosce un po’ l’ambiente…) continuo a prediligere la declinazione “al maschile” (“si tratta di un ruolo, non di una identità”, rifletto tra me e me).
(Avrei preferito – confesso – il termine Architettrice, come pittrice [ho sentito dire anche “pittora”, e mi si sono rizzati i capelli in testa], che è anche il titolo del bel libro di Melania Mazzucco sulla figura di Plautilla Bricci.)

[L’Accademia della Crusca si è espressa anche su questo tema: Nomi di mestiere e questioni di genere.]

La lingua si evolve. Sempre.
L’italiano che usiamo oggi è diverso dall’italiano usato anche solo 50 anni fa.
Quindi non mi sento di condannare l’uso della schwa, così come non mi sento di escludere a priori l’uso del termine “architetta”.

C’è sempre un po’ di attrito iniziale davanti ai cambiamenti.
Soprattutto nel linguaggio che ha anche il potere di definire, descrivere e quindi di dare una identità ed un riconoscimento a ciò che viene nominalizzato (finché non lo nomini non esiste).

Da parte mia continuo a provare e ad osservare.
Il tempo mi/ci dirà se alcune scelte e sperimentazioni linguistiche recenti continueranno la loro strada o se verranno abbandonate a favore di altre opzioni ad oggi magari non ancora disponibili.

Vi lascio con il video del Talk di Vera Gheno dedicato proprio alla schwa:

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