Essere nel team di TEDx Torino

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Si è appena concluso TEDx Torino “Humans in Co”.
E dopo circa 36 ore, superata la fase di positivo frastornamento, si entra nella naturale fase dei bilanci in una sorta di debriefing personale (poi sarà la volta di debriefing con il tuo speaker e con il team di TEDx).

E’ stata la mia seconda esperienza come speaker coach (la prima volta era stata a quattro mani – ad ottobre – con Mavy Mereu per il TEDxTorino Salon “Visioni”, dove avevamo affiancato Maureen Fan, CEO di Baobab Studio).

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Maureen Fan a TEDxTorino Salon “Visioni” – ©TEDxTorino

Questa volta invece sono stata affiancata a Bali Lawal (CEO e Founder di A Coded World, no profit attiva nel mondo della moda e della creatività, che dà voce, visibilità e spazio a giovani designer che arrivano da tutte le parti del mondo).

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Bali Lawal a TEDxTorino “Humans In Co” – ©TEDxTorino

Due esperienze – per certi aspetti diametralmente opposte – con due donne di notevole caratura, che mi hanno dato modo di imparare ancor di più sugli aspetti legati al public speaking e – in particolare – sulla preparazione di un talk di TED.

Infatti un TED talk è una esperienza interessante ed emozionante.
Emozionante perché entri nella idea che lo speaker porta sul palco.
Interessante perché “proteggere” la forza dell’idea adattandola agli standard TED, senza “prosciugarla” della sua essenza, è una sfida che può assumere dimensioni anche notevoli.

Con una variabile in gioco molto importante: lo speaker.
Che è un essere umano.
Con la sua storia, il suo carattere, le sue debolezze, le sue paure e le sue idee.

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Con Bali Lawal, dopo la conferenza, in relax ed in modalità chiacchiera

E che – come suo referente – devi prendere per mano e accompagnarlo.
Ascoltandolo e capendo quando intervenire, quando suggerire e quando sostenere.

Sappiamo anche che parlare in pubblico è una delle paure irrazionali più forti di cui – a livello razionale – non ti capaciti.
E questa volta questa paura l’ho provata anche io, presentando proprio la speaker che avevo preparato.
Una (bella) novità che TEDxTorino ha dispiegato quest’anno, lasciando l’introduzione dei talk ad alcuni volontari e ad alcune persone del pubblico che si sono candidate.
(Ampliando quindi il concetto di condivisione, filo conduttore della conferenza.)

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I 60 secondi di paura sul palco (Foto di Maria Los Angeles Castro del team HR di TEDxTorino)

E devo dire che, nonostante sia abbastanza abituata a parlare in pubblico, la presenza di centinaia di persone in sala, la presenza del red dot e del logo TED, hanno fatto la differenza nella personale percezione dell’ambiente.
Giocando con l’emozione che ha presentato puntuale il vuoto di memoria, nel perfetto rispetto delle dinamiche neurologiche (“Speriamo non mi venga un vuoto di memoria” mi dicevo dietro le quinte e… indovinate un po’ cosa mi è successo?).
Vuoto gestito alla bene-meglio con delle pause (una amica tra il pubblico, mi ha detto che è rimasta colpita dall’uso delle pause che ho fatto, non percependo minimamente il caos che c’era nella mia testa in quel momento, a conferma che quanto vivi tu sul palco – in determinate condizioni – non è quello che viene percepito da chi ti ascolta).
Facendomi toccare con mano il gap che c’è tra la fase preparatoria e la performance vera e propria.

(Nella griglia di foto qui sopra: momento backstage con trucco pre-palco – Foto di Accademia Italiana di Estetica, responsabile make-up dell’evento)

Però – a conti fatti – è proprio l’emozione quella che aggancia l’audience.

Non una emozione costruita a tavolino, bensì una emozione che arriva direttamente dalla pancia e che tendiamo a controllare per paura di risultare imperfetti e vulnerabili.

E la soddisfazione più grande è stata quella di sentire, da dietro le quinte, il pubblico ridere alle battute di Bali (che ha sfoderato anche una ironia – talvolta amara – a supporto della sua storia), sentire gli applausi calorosi e sapere – dopo – che una ragazza si è commossa ascoltando il suo talk.
Credo che non ci sia feedback migliore di questo: quando l’idea e l’anima dello speaker che hai aiutato nel suo percorso, arrivano direttamente al cuore di chi è seduto in platea.

 Mosaico di foto pubblicata sulla pagina Facebook di TEDxTorino – ©TEDxTorino

Per come vedo colui (o colei) che prepara lo speaker, si tratta di un ruolo che porta ad una esperienza molto immersiva ed empatica.
All’interno di un team (e condivisa con un team) che si muove verso un unico obiettivo: la condivisione di idee.

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Il team dei coach di TEDxTorino con il Direttore Artistico Enrico Gentina – Foto di Ruggero Colombari

[Foto di copertina ©TEDxTorino]

L’analisi dello speech di Oprah Winfrey [dal blog Manner of Speaking]

75th Annual Golden Globe Awards - Press Room, Beverly Hills, USA - 07 Jan 2018
Foto ©Variety

John Zimmer è colui che si può definire un “professional speaker” (figura professionale non ancora pienamente nota da noi).
Il suo blog è stato menzionato come uno dei blog più interessanti (ed influenti) relativi al “public speaking”.
Ed essendo un argomento (quello della comunicazione in pubblico) che mi interessa molto, lo seguo e lo leggo con una certa assiduità.

Ebbene, questo articolo che “re-bloggo” è una analisi molto interessante ed approfondita del discorso di Oprah Winfrey alla premiazione dei Golden Globe.
Un discorso che ho guardato ieri (ma lo riguarderò anche nei prossimi giorni, con occhio via-via sempre più tecnico) e che considero come forse uno dei discorsi più potenti che io abbia mai ascoltato.

Dicevo che me lo sono guardato/ascoltato/osservato ieri.
E sebbene sia partita con un atteggiamento analitico e di studio della struttura e della “delivery”, sono finita con le lacrime agli occhi.
Ho pensato a come mai.
Che cosa stava facendo questo discorso su di me?
Perché non è un discorso recitato, teatrale, o in forma di arringa.
E un discorso colloquiale, ma che ha una potenza emotiva che arriva da una grande profondità ed entra in profondità.
E che va in crescendo (come un’onda lunga, come scriveva Sara a commento del mio post su Facebook)

Il testo del discorso (in inglese) è a questo link:
Read Oprah Winfrey’s Golden Globes Speech

Il video dello speech è qui di seguito:

https://youtu.be/fN5HV79_8B8

Qui sotto invece il reblog dal sito “Manner of speaking” di John Zimmer (testo in inglese).

Manner of Speaking

The 2018 Golden Globe Awards were handed out last night (7 January 2018). There were several highlights and many winners, but the overwhelming consensus is that Oprah Winfrey stole the show.

Winfrey, a talk show host, actress and philanthropist was honoured as the first black woman to win the Cecil B DeMille lifetime achievement award. She used her acceptance speech to repudiate racial injustice, abuse against women and attacks against the press.

It was a powerful speech that brought the audience to its feet for prolonged applause on more than one occasion. The speech, in full, is below. My thoughts follow.

    • Oprah had clearly prepared for this moment. Of course, she knew that she was being honoured with the award, but it is obvious that she had worked hard on her speech.
    • And yet, as prepared as she was, her speech felt natural and conversational. That is the result of good…

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Ci salverà l’esperienza?

03-2-Human-Alarm-ClockSarà perché è venerdì.
Sarà l’età che ti fa fare riflessioni.
Sarà che – complice il “caso” – in questo periodo mi capita spesso di affrontare l’argomento con amici e colleghi, leggendo, osservando ciò che accade e ascoltando…

Fatto sta che le domande che mi si parano davanti negli ultimi tempi sono sempre più grandi e (apparentemente?) insormontabili.
Ed io non so se sono in grado (e sarò mai in grado) di rispondere.

Provo a elencare, in una sorta di libera associazione di pensieri.

Nel weekend pasquale, passeggiando col babbo, mi domanda: “Come va il lavoro?”.
Alla mia risposta tranquillizzante (più o meno), riflette: “Eh sì, perché se accade qualcosa adesso, per te può essere difficile trovare qualcosa d’altro… alla tua età… ed io penso che magari rientri a casa ed in qualche modo facciamo…”
Immediata la mia reazione (energica, ma che camuffa la paura del domani con la quale convivo quotidianamente): “Non è detto! Se pensi al mondo del lavoro come lo hai vissuto tu, non hai dei parametri di riferimento giusti. Quello che c’era ieri, oggi non c’è più!”
Ed il buon babbo concorda… Non so se per pacifica convivenza o per effettiva convinzione.

Già…
Quello che era (e c’era) ieri, oggi non c’è più. O va scomparendo.
(Questo mi fa tornare in mente uno “speech” che ho ascoltato di recente, che illustrava i lavori di un tempo e che sono andati via-via scomparendo. Un esempio: l’uomo che andava a bussare alle finestre per svegliare la gente “The Knocker up”. Altre professioni scomparse le puoi trovare in questa gallery curiosa dalla quale sono tratte le immagini di questo post.)

Ma è vero tutto questo?
Non lo so. A volte ho delle certezze, a volte dei dubbi.

E non so voi, ma io mi danno l’anima nel cercare di leggere, informarmi, ascoltare, capire.
Per cercare di cogliere segnali del futuro.
Per cercare di capire che strada percorrere.
Per cercare di modificare il mio modo di pensare, adeguandolo al mondo di oggi.
Per disegnarmi un possibile “piano B”, nel caso in cui tutto vada a scatafascio.
Per cercare di dare un senso alla pianificazione… (quasi un paradosso rispetto alle velocità del cambiamento in atto).

E proprio stamattina riflettevo con un collega sulla sempre più grossa difficoltà nel lavorare. Nello svolgere la nostra professione.

Si rifletteva su come tutto stia diventando sempre più faticoso.
Su come ci sia in atto una specie di scontro tra normative (e burocrazia), professionalità (nel senso di figure professionali), metodi di progettazione (che stanno cambiando e che non vanno bene con quanto richiesto dalle norme) e variabili che ti si presentano dietro ad ogni angolo.
Tutto questo rende infernale il cercare di muoversi in modo congruente, e consono alla propria identità professionale.

La propria identità professionale…

46 anni (quasi 47), laurea in Architettura, da quasi 16 anni nel mondo della ingegneria (e quindi convivente già da tempo con dissonanze di identità professionali) preceduti da un’altra manciata di anni in studi tecnici.
Con ruoli operativi e di gestione.
Ma non verticalizzati.
Non iper-specialistici.
E quindi in “collisione secca” con chi ti dice che bisogna essere specialisti di nicchia, in un mondo che cambia ad una velocità imprevedibile e che vede nella trasversalità e nella elasticità mentale, e di vedute, delle chiavi di lettura fondamentali.

“Che diavolo posso fare?”, mi domando sempre più spesso.
Come diavolo posso affrontare un mondo così, che ha un margine di prevedibilità prossimo allo zero?
Se tutto va a “carte quarantotto”, come ne esco? A quasi 50 anni…?

L’unica risposta (che è anche una domanda) che mi viene in mente è: mi (ci) salverà l’esperienza(?).
Forse.
Una esperienza intesa come una struttura in continua crescita, che si stratifica e si arricchisce attraverso un continuo interscambio tra vita professionale e curiosità (e necessità) di imparare sempre cose nuove che magari esulano anche dalla tua area di esercizio professionale.

Almeno io ci provo…

centralinisti