L’abito non fa il monaco. O sì?

“L’abito non fa il monaco”, recita un antico adagio.

L’interpretazione che ho sempre dato a questo detto popolare è: non fidarti solo dell’apparenza, non valutare una persona solo dal come si veste, perché potresti essere tratta in inganno.
(Anche un altro proverbio sottolinea il concetto: “L’apparenza inganna”.)
Ma un paio di giorni fa ho – inconsapevolmente – modificato il significato.

Ma andiamo con ordine.

Tempo di saldi e lo scorso weekend sono tornata dopo un po’ tempo a curiosare da Muji (marca giapponese che apprezzo molto, insieme a Uniqlo), cadendo preda (volentieri, ad essere sincera) della “sirena dello shopping” facendo man-bassa di camicioni di lino e scarpe.
(Tornando in settimana a “finire il lavoro”, acquistando stole e altro…)

E un paio di mattine fa – nel mentre mi accingevo a indossare una mise Muji-only (quella della foto di apertura del post) – mi sono sentita particolarmente soddisfatta del risultato.
Una stranezza per me, abituata ad indossare solo pantaloni e a rifiutare tutto ciò che ha la parvenza di una gonna (lunga o corta che sia).

Ho pensato inaspettatamente se questo cambiamento nel modo di vestirmi fosse stato possibile per me (per “la mia testa”) 3/4 anni fa (ai tempi sono successe delle cose che hanno spostato pesantemente il mio punto di vista su alcuni aspetti della vita).
Mi sono fermata un momento a pensare e ad osservar(mi) per cercare di indagare se questa “rivoluzione” sia un puro capriccio o nasconda qualcosa di diverso e più “sotterraneo”.

E ho tratto delle mie (prime) “conclusioni”.

Nell’ultimo anno ho praticamente rifatto totalmente il mio guardaroba (sempre con un occhio rivolto al portafogli…): un cambiamento che sentivo la necessità di fare in una sorta di (credo inconsapevole) “atto di rimozione” – da un lato – della perdita subita (oggi, a distanza di due anni, sorrido al pensiero della mia reazione nei primi tempi al leggere che l’elaborazione del lutto può durare anche due anni: “Due anni??!!”, avevo esclamato sicura di metterci meno tempo…), ma anche – dall’altro lato – per saldare ancora di più il ricordo del viaggio in Giappone di tre anni fa (l’ultimo fatto con mia madre, tra l’altro), continuando ad alimentare il legame con questo Luogo in modo diverso (e a distanza, in attesa di tornarci un giorno…).

Nel contempo il riorganizzare la mia immagine, abbracciando i due brand nipponici, mi sono resa conto essere stato un curioso ed inconsapevole atto di affermazione di una nuova identità.

So che può suonare strano.
Anche perché chi mi conosce sa che non ho mai subito alcuna pressione da parte di nessuno (a maggior ragione dei miei genitori) su come dovevo vestire e cosa dovevo fare.

Ma quello di cui ho preso atto negli ultimi tempi è un legame (un laccio robusto) con il “senso del dovere” declinato in molti modi tra cui il non voler deludere persone con le quali ho (per l’appunto) dei legami.
Un obbligo che mi sono costruita nel tempo – da sola – nel mentre ero impegnata a fare altro.

Ora, complice gli accadimenti di due anni fa, il varcare la soglia dei 50 anni (anche questo fattore mi rendo conto essere importante perché innesca un cambio di mentalità che può percorrere due strade: l’inseguire la giovinezza o l’accettarsi per quello che si è, letteralmente fregandosene [nei limiti della decenza, ovviamente]) e anche quello che abbiamo vissuto in questi ultimi mesi (che ha portato personalmente ad una asciugatura delle esigenze e ad un avvicinamento all’essenzialità), hanno riposizionato molte cose.
Comportando il rivedere se stessi in modo diverso, anche attraverso ciò che si indossa (che è uno degli “artifici” con cui ci presentiamo agli altri e che contribuisce a formare l’idea che gli altri si fanno di noi).

E questo mi ha fatto tornare in mente un libro di crescita personale scritto da un italiano (di cui non ricordo più il nome) letto molti anni fa.

L’autore (life coach) adottava coi suoi clienti un metodo che ai tempi giudicai assai “stravagante”: durante il percorso, ai suoi coachee faceva rifare il guardaroba come atto fisico di rinnovamento.
Ripeto: ai tempi pensai che fosse una idiozia (non lo nascondo).
Oggi – ricordando quelle pagine – credo non sia una cosa completamente priva di senso.

Ad ogni modo, tornando al Giappone e alla sua estetica (che amo), sempre in questi giorni mi è tornata in mente un’altra immagine.

Qualche anno fa incontravo spesso in treno una donna giapponese di età indefinibile.
La guardavo sempre affascinata: essenziale (quasi spartana nel modo di abbigliarsi) era di una eleganza straordinaria (secondo me).
Capelli grigi raccolti in uno chignon, indossava gonne lunghe, golfini, cappotti, calzini di lana e scarpe tacco basso, tutto declinato in tinte neutre. In una composizione in equilibrio che dava l’idea di discrezione, morbidezza, comodità, ed eleganza.

Non so che fine abbia fatto.
Però, mi è tornata alla mente in questi giorni.
Una figura che avevo momentaneamente dimenticato ma che -evidentemente – non avevo totalmente rimosso.
Un “appunto mentale” che ha sempre costituito un punto fermo nei miei canoni estetici di riferimento, nel mentre sperimentavo altre modalità di presentarmi al mondo.

Ridurre

Riordino_BagaglioAMano_BarbaraOliveri

Sarà che un contatto di Facebook ha scritto che ha fatto un viaggio in Giappone di circa tre settimane con solo il bagaglio a mano.
Sarà che attraverso lo stesso contatto ho letto il libro “Solo bagaglio a mano” (interessante) e una amica mi ha regalato il libro di Marie Kondo “Il magico potere del riordino” (di prossima lettura).

Fatto sta che stamattina pensavo al valigiotto nero che ho preparato per la trasferta di questo weekend (partenza oggi pomeriggio, rientro domenica pomeriggio).

BagaglioAMano_BarbaraOlivieri

Valigiotto che sarà bagaglio a mano e che spero non mi facciano imbarcare nella stiva dell’aereo che prenderò.
(Non dovrebbero… Ho fatto tutte le verifiche possibili ed esistenti: dimensioni, peso, imballaggio dei liquidi…)

E stavo pensando a quante masserizie ho e quante me ne porto via ogni volta che mi muovo.

Questa estate me ne sono accorta in modo particolare: ho utilizzato il 70% degli abiti che mi sono portata via.
(E va già meglio rispetto a qualche anno fa, quando utilizzavo il 40% di quello che mettevo in valigia. Ai tempi non c’era consapevolezza dell’ingombro, c’era attenzione all’esibire.)

Bagagliaio_Viaggiare_BarbaraOlivieri
Il bagagliaio della nostra auto (non si vede bene ma è coinvolto anche il sedile posteriore a sinistra). Quante persone? Tre…

Quindi posso dire che sulla “questione abiti” sto migliorando.
Mentre sulla “questione accessori” no.
E per accessori intendo libri, cosmetici, oggetti vari. (Con l’aggiunta negli ultimi tempi degli oggetti elettronici, che dovrebbero sostituire oggetti ma che attualmente – per me – sono ancora un di più.)

PostazioneLavoroMobile_BarbaraOlivieri
Quest’estate ho lavorato un po’ su alcune cose e mi sono attrezzata con una piccola postazione mobile che sogno sempre diventi LA postazione di lavoro per antonomasia.

Ed è da tempo che penso a come eliminare definitivamente il PC per restare con iPhone e iPad (la strada è ancora lunga per me, essendo in fase di implementazione di YouTube e video che – per le mie competenze in materia – necessitano di editazioni da PC.)

Libri_CartaceoDigitale_BarbaraOlivieri
Questione di ingombri e pesi…

E poi c’è l’annosa questione dei libri.
Una personalissima spina nel fianco, assai combattuta (su cui rifletto da tempo): è da tempo che sono divisa tra libri cartacei e formati digitali.
E quest’anno l’ho sentita ancora di più: mi sono portata via 5 libri cartacei ed il Kindle.
Dei 5 libri ne ho letto 1…
Il resto è arrivato da fonti diverse.

Libri_BarbaraOlivieri
I libri che mi sono portata via e che volevo leggere…

LettureEstive_BarbaraOlivieri
… I libri che ho effettivamente letto: solo 1 dei 5 che mi sono portata via. Il resto è arrivato strada facendo .

(E proprio ieri ho acquistato la versione eBook di “Yeruldelgger” dopo che sono entrata in difficoltà con la copia cartacea per una questione di maneggevolezza e trasportabilità… pur non essendo un gigante come “L’ombra della montagna”.)

Che poi con tutte le masserizie piccole e grandi che mi porto dietro, finisce che dimentico qualcosa e – per esempio – recupero al volo lo spazzolino da denti dimenticato, infilandolo in borsa…

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Raccogliendo cose seminate in giro

Così, tra il disfare le valigie sabato scorso e fare il valigiotto stamattina, mi sono resa conto – ancora di più – delle montagne di stratificazioni (come ere geologiche) che stocco, e talvolta ficco in tutti i pertugi, ammucchiando.

Ed è da queste considerazioni che mi sono fatta sabato scorso, disfando le valigie, che mi sono data un obiettivo ad orizzonte lungo: da adesso e per un anno, ogni domenica dedicherò un’ora a smaltire e riordinare.
Facendo spazio.
Puntando all’essenzialità.
Facendo pulizia.
Che magari finisce per essere non solo fisica ma anche mentale.

Chiudo con un link ad un articolo sulla estremizzazione della essenzialità applicata da un ragazzo giapponese: Less is Less – Japan’s minimalism

[Immagine di copertina tratta dal web]

Un po’ di pulizia…

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Essenzialità
Umiltà
Understatement‬

Tre parole chiave per me (mi spiace ma l’ultima non riesco a tradurla in un termine in italiano ugualmente efficace… suonerebbe come “attenuazione”, ma non dà l’idea).
Tre parole chiave che sono tre “valori”, tre caratteristiche sulle quali sono sempre più fortemente orientata.

Che – credo – facciano parte del mio DNA.

Per diverse ragioni.

La prima è cultura di famiglia: si lavora duro, si fanno le cose al meglio che si può, in silenzio e senza strombazzamenti. Si fa parlare il lavoro e si è puliti e lineari.

La seconda è una reazione uguale e contraria che ho davanti a post, messaggi e altro, conditi di parole maiuscole, di decine di punti esclamativi,… tutti segnali che io percepisco come “falsi segnali”.
Esagerati, esacerbati e tirati per i capelli.
Ma che sono poco realistici e poco rappresentativi del reale pensiero che sta dietro il messaggio stesso (se dovessi usare un termine sintetico, parlerei di “contentino” in alcuni casi).

La terza è legata all’uso sempre più dilagante di “anglismi” a mo’ di slogan apparentemente più efficaci.
Ma che – proprio perché dilaganti – stanno diventando un enorme rumore di fondo che distingue ormai ben poco.

Lo so… ne sono cosciente… sono nata nel secolo sbagliato.

E ci sono giorni – come questi – dove questo linguaggio strabordante risulta assai più fastidioso e assai meno credibile del solito.
Perdonatemi, ma (come dice una mia amica): “Io non sono cattiva… E’ che mi disegnano così!”

[In foto vasi di Guido De Zan – prelevati dal sito http://www.italianways.com]