Se non lo vivo, non lo capisco

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In questi giorni ho ricominciato a “liberarmi” di un po’ di libri.
Di manuali di gestione, di comunicazione, di crescita personale, …
Libri che magari acquisti in determinati momenti della tua vita, durante i quali sei alla ricerca di nuovi strumenti per capire, per comprendere, per imparare.
E che oggi – passati quei momenti – ti rendi conto non hanno più nulla da dirti. Restando solo come presenze coi quali condividi lo spazio.

Attenzione, non sto dicendo che non sono testi validi. Tutt’altro!
Sono testi che hanno fatto la storia di alcune discipline e alcuni di loro sono diventati dei classici.
Solo che con me hanno fatto il loro tempo.

E stamattina, non so per quale strana ragione, mi è tornato in mente un libricino di cui ho già parlato in precedenti post, che – se di primo acchito mi aveva lasciato un po’ perplessa – oggi continua (silenziosamente e subdolamente) a lavorarmi ai fianchi su alcuni concetti che colsi durante la sua lettura.
Un paio di esempi (di concetti)? Prossimità e semplicità delle cose.
(E di “prossimità” ho scritto qualche settimana fa in questo post: Stanzialità e prossimità.)

Il libricino si intitola “Quando siete felici, fateci caso” (di Kurt Vonnegut).

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Author Kurt Vonnegut Jr., wearing khakis, sitting in front of his typewriter in studio-like room. (Photo by Gil Friedberg/Pix Inc./Time Life Pictures/Getty Images)

E da questo inaspettato flash mattutino, è emerso un secondo ricordo più antico: l’esame di Fisica Tecnica e Impianti all’Università.
Esame che ho rifatto cinque (sì… 5…) volte per poi passarlo esausta con un 20.
(Era quasi più mortificato il docente della sottoscritta: avevo frequentato tutto il corso, sempre in prima fila a prendere appunti, studiato il suo libro fino a distruggerlo dalle tante sottolineature… e questo era il risultato… “Non ce la faccio a fare più di così…”, dissi al docente distrutta e sconsolata, arrendendomi all’evidenza… [Le quattro volte precedenti non avevo neanche superato la prova scritta, tanto per dire…])

Non c’era niente che potessi fare di più.
Quella materia non mi entrava in testa.
Nonostante le pazienti ripetizioni estive con un cugino laureato in Fisica e docente alla facoltà di Fisica di Napoli: due/tre volte alla settimana, di mattina – durante un agosto di tanti anni fa – con mio zio (insegnante di Matematica) che passava a prendermi e andavamo in campagna (dove soggiornava mio cugino per l’estate) e facevamo un’ora di ripetizioni di Fisica. Che proseguivano con lunghi e solitari pomeriggi di studio.

Mi ricordo che mentre cercavo di farmi entrare in testa il concetto di Entropia, nel mezzo di una delle tante crisi di incomprensione per la materia, avevo detto: “Se non riesco a capire concretamente il concetto non riesco a ricordarlo…!”
Lui (il cugino) rispose rassegnato: “Purtroppo alcune cose le devi ricordare così come sono. Senza alcuna spiegazione concreta.”

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La formula della Entropia (Fonte Treccani)

Ecco, probabilmente questo è un mio “baco cognitivo alla San Tommaso”: se non lo vivo, non lo capisco.
(Un “vivo” che può essere anche declinato in “vedo”)

E questo mi fa tornare alla questione dei libri (di cui ho già ampiamente scritto in vari post a più riprese).
Le tecniche, le strategie, su di me hanno una presa limitata (nella comprensione e nel tempo).
Affinché si installino nel retrocranio (o nel DNA, come preferite), devo vederle in storie e/o viverle con esperienze.

E questa considerazione mi fa sorgere una ulteriore domanda:
Sono nate prima le esperienze o le strategie?

(Una domanda che è anche l’origine delle personali crisi d’ansia da manuali… “se non leggo manuali, non imparo cose nuove”…)

[Immagine di copertina tratta dal sito http://www.medioera.it]

Siamo tutti generali

Falegname

Siamo tutti generali” ha detto un collega geologo un venerdì sera, in una riflessione tipica da chiusura di settimana lavorativa.

È vero, condivido: siamo tutti generali.

Siamo tutti manager, nelle più disparate declinazioni: social, project, marketing, community, office, e chi più ne ha più ne metta.

Siamo tutti coach (nelle più disparate declinazioni: life, executive, project, e chi più ne ha più ne metta…).

Siamo tutti filosofi, facilitatori, sociologi, e lo sa Dio cos’altro.

Siamo tutti a caccia di titoli (Prof., Ing., Arch., Comm., Cav., Dott., e chi più ne ha più ne metta…).

Siamo tutti impegnati a pluridecorarci di master costosissimi e – spesso – perfettamente inutili. Per la gioia di chi li organizza.

Siamo tutti impegnati a vendere parole.

Tutti vendiamo servizi…

E non mi torna.

Continua a non tornarmi.

E non mi torna sempre di più.

Questo disagio lo avverto già da un po’.

Osservando internet, leggendo, parlando con altra gente, lavorando, mi aggiro da un po’ – smarrita – con una domanda: “Sì, va bene, ma chi fa?

Sì, va bene, ma chi realizza?

Chi costruisce qualcosa di concreto?

E mi pongo la domanda: sì, ma io che faccio? Come li misuro i miei risultati?

Tempo fa una persona che stimo mi ha chiesto (e ‘sta domanda continua a girarmi nella testa): “Ma tu cosa fai?

Bene, sono rimasta spiazzata perché non sono riuscita a dare una risposta che avesse un senso per me e per il mio retrocranio. Anche se faccio un mestiere che è già più identificabile di tanti altri, seppur la mia figura professionale (ossia il “professionista Barbara Olivieri”) sia già pesantemente ibridata da molto tempo prima che la parola “trasversalità” diventasse il mantra/tormentone degli ultimi tempi.

Non so, forse essendo una migrante digitale, sono a cavallo di un passaggio epocale del quale faccio fatica a vedere l’orizzonte a lunga gittata.

Oppure, forse, c’è un oggettivo problema di assoluta mancanza di concretezza. Di materialità.

E se è così, penso si sia prossimi ad un pesante aggiustamento.

Spero salutare.

Perché non si può continuare a vendere virtualità, immaterialità, inconsistenza.

Qualcuno deve costruire case.

Qualcuno deve realizzare pentole.

Qualcuno deve realizzare scarpe.

Qualcuno deve realizzare vestiti.

Qualcuno deve produrre cibo…

Le cose devono essere realizzate fisicamente.

Mica viviamo di aria e di irrealtà.

E mi torna in mente una immagine che mi ha raccontato mio papà: di recente (per questioni di lavoro) ha fatto un salto al Salone del Mobile. È rimasto colpito da uno spazio dove c’era una dimostrazione di lavorazione del legno: ragazzi che lavoravano i pezzi di legno, trasformandoli in oggetti. C’era una folla impressionante di giovani ad assistere e a prendere informazioni.

È un segnale.

Un buon segnale (secondo me).

Sì, perché io sono fondamentalmente concreta e leggere di questo mi fa ben sperare. In cosa non so. Ma mi fa ben sperare.

Perché amiamo tutti leggere, amiamo tutti parlare, amiamo tutti spiegare, amiamo tutti scrivere… E tutto questo è molto bello.

Però le cose, gli oggetti, poi devono essere fatti… Secondo me…

Forse è per questo che amo molto i cantieri