La calzolaia che va in giro con le scarpe rotte (di “conflitto dialettico”).

Diversi giorni fa scrivevo il post su Facebook riportato qui sotto, raccontando di un episodio accaduto qualche ora prima.

La settimana successiva a questo episodio – a valle di un mini-corso sulla “comunicazione in pubblico” dedicato alle studentesse di ingegneria e architettura del Politecnico di Milano – ho fatto improvvisamente (tra me e me) un collegamento tra alcune riflessioni condivise con le partecipanti e quello che ho fatto (e detto) nel “conflitto dialettico” di quel giorno.

Fatto salvo le idee che hanno sostenuto le rispettive “uscite” (del collega e mie) e sospendendo qualsiasi tipo di giudizio sulle rispettive posizioni politiche e ideologiche, mi sono resa conto di avere commesso un errore strategico di comunicazione.
Riflettendo anche sulla effettiva (e scomoda) validità dell’osservazione del collega sulla emotività messa in gioco.

Vado a spiegare partendo con l’immagine qui sotto: un semaforo e alcune piccole parole (No, Però, Ma, Sì e…).

Questa è la slide che utilizzo per spiegare l’importanza di alcune piccole e apparentemente inoffensive “paroline” (congiunzioni) che usiamo con grande disinvoltura e che – collocate all’interno della frase strategicamente o a casaccio – possono fare una grande differenza nel significato complessivo del concetto che stiamo comunicando.

Durante il ragionamento su queste congiunzioni, e su situazioni di comunicazione in conflitto, una delle partecipanti ha raccontato della sua esperienza di persona un po’ polemica (a detta di altri) che nel tempo ha imparato a esordire nelle sue osservazioni con un tocco di ironia (“Sì, con tutto il bene che ti voglio, ma…”).

L’ironia ha fatto da ponte ad un ragionamento sulla gestione della pressione emotiva che si crea in queste situazioni, insieme all’uso delle parole (“confronto dialettico” è il sinonimo che ho usato per trasformare la situazione da “scontro” a qualcosa che risuona meno pesante: un termine ascoltato tempo fa in un podcast).

Pressione emotiva da riconoscere e da gestire. Dalla quale prendere le distanze. Per mantenere il controllo del dialogo e delle parole che lo compongono (“controparte” vs “interlocutore” è un altro escamotage linguistico per “raffreddare”).

Quindi quale errore strategico di comunicazione ho commesso?

Non sono stata in grado di gestire le emozioni.

Emozioni generate da quello che avevo letto e avevo visto quella mattina.
Che mi aveva provocato sofferenza e dolore.
(Che mi provoca tutt’ora un enorme senso di sofferenza, dolore e impotenza. [E i fatti di Bucha di queste ore – nel mentre scrivo questo articolo – stanno gettando ulteriore benzina sul fuoco; ma su questo ne scriverò la prossima settimana per lasciar(mi) il tempo per decantare e riflettere.])

Grosse emozioni in gioco che hanno schiacciato e soverchiato tutto il resto, “mandandomi fuori di testa” in una frazione di secondo.

Errore. Mio.

Un errore che – se visto su diverse scale – può creare conseguenze difficili da riparare.
(E di errori simili – in contesti diversi – ne ho commessi in buon numero nel passato, imparando nel tempo – con fatica – a gestirmi.)

Quindi cosa avrei potuto rispondere alla frase del collega “a Mariupol non sta succedendo nulla” (con un linguaggio del corpo che supportava le sue parole, amplificando la mia interpretazione emotiva)?

Anziché scattare come un rettile dicendo “Ma cosa stai dicendo???”, proseguendo con una neanche tanto velata accusa di “negazionismo”, avrei potuto – con calma – porre una domanda:

Cosa intendi dire con non sta succedendo nulla?”

Proseguendo poi, domanda dopo domanda, ad estrarre informazioni e pensieri del collega.
Valutando di volta in volta cosa chiedere, a seconda delle risposte.

Avanzando con ulteriori domande.
Ancora e ancora.

Estraendo informazioni.

Riconoscendo nel contempo le (mie) emozioni in corso e mettendole momentaneamente da parte, in funzione di un chiarimento dei concetti utili a sostegno della mia argomentazione.

Forse non avrebbe risolto, ma sicuramente sarebbe stato utile a “tamponare”.
Un “tamponare” utile (a sua volta) a non farsi sopraffare, e che non deve essere visto come un processo di disumanizzazione e un segnale di assenza di empatia.
Bensì un “tamponare” utile a mantenere stabilità ed equilibrio (emotivo), utili (a loro volta) a gestire conversazioni, riflessioni ed azioni.

[La foto in evidenza è di Alice Yamamura su Unsplash]