Fermarsi talvolta è faticoso.
Sembra quasi un paradosso.
Anzi forse lo è proprio, un paradosso.
Però a volte è necessario.
Perché si corre, si pensa, si progetta, si rumina, si ipotizza ed immagina… senza soluzione di continuità.
Preda del confronto, della performance, dei numeri, della filosofia della competizione.
Della velocità e del suo incalzare.
Dell’esserci.
Del dimostrare.
(Quasi) incuranti di ciò che sta attorno.
Di ciò che si muove attorno.
E accade anche se si crede di avere qualche strumento in più per non cadere in certe trappole.
Anche se si pensa di avere una sensibilità maggiore nel cogliere certe criticità.
Anche se ci si fa qualche (vana?) riflessione in più.
E così sembra che debbano accadere delle “cose robuste” per far fermare e far riflettere.
L’evento dirompente che fa saltare il banco o lo incrina in modo evidente (e talvolta preoccupante).
L’evento dirompente che serve (purtroppo o per fortuna… dipende dal tipo di evento) a mettere in discussione variabili che forse si stava già (inconsapevolmente o meno) mettendo in discussione.
Per spingere alla (quasi) immobilità.
Al back to basic per decidere scientemente di mettere in pausa.
Per lasciare decantare la turbolenza (quella turbolenza che potremmo rappresentare come una polvere in agitazione dentro un liquido)
Per capire.
Per osservare.
Per ascoltare.
Senza (provocatoriamente) fare nulla.
Senza (provocatoriamente) progettare nulla.
Navigando in modalità back to basic.
Restando in ascolto di quei segnali deboli indicatori di possibili future tendenze (micro e macro).
Segnali deboli forse più difficili da cogliere proprio perché preda di attività convulse spinte dalla velocità, dalla turbolenza dei tempi e dalla costante fluidità.
E così facendo ci si rende conto di quanto fermarsi sia talvolta faticoso.
[La foto è di César Couto on Unsplash]