8 marzo, una riflessione tardiva

Una settimana fa trascorrevo l’8 marzo in una bella realtà: SisTech, una associazione no profit che aiuta donne rifugiate a ricostruire la propria professione aiutandone l’inserimento nel mondo del digitale.

Nello specifico il mio contributo è stato dare una mano alle fellow (così si chiamano le donne del programma di formazione) nel costruire il loro pitch per un evento di networking nel quale si sono presentate e hanno raccontato della loro professionalità e del loro percorso di studi.

Sono stata contenta di essere stata coinvolta dall’associazione anche quest’anno (avevo collaborato anche per l’edizione del 2021) e sono stata contentissima di presenziare all’evento (cosa che non mi era stata possibile nell’edizione precedente, a causa di un impegno di lavoro).

E’ stato un bel modo di “festeggiare” l’8 marzo.

Lo scrivo con profonda convinzione perché per anni, soprattutto quando ero più giovane, mi toccava festeggiare in ristoranti e/o locali tra altre donne (alcune inquietantemente assatanate) e l’inevitabile spogliarello di maschietti (nello specifico imbarazzati camerieri e/o baristi).

Nel corso degli anni mi sono gradualmente sfilata da questa incombenza (raccogliendo talvolta giudizi di disapprovazione).
Iniziando ad evitare questa data e iniziando a capire il perché si celebra questa ricorrenza (si festeggia per gioia, si celebra per ricordare).
[Per sapere qualcosa di più sull’origine dell’8 marzo, il podcast “Cosa c’entra” di Chiara Alessi ha dedicato una puntata ascoltabile qui, e Il Post (testata che prediligo) ha scritto un articolo.]

Per come sono fatta io (che ho passato anni a rincorrere l’approvazione altrui) c’è voluto del tempo prima che mi autorizzassi a fare quello che ritenevo più allineato al mio sentire. C’è voluta una presa di consapevolezza dovuta anche all’età. (Le ragazze di oggi sono molto più attente e consapevoli delle ragazze del mio tempo: altri tempi, altra cultura; non giudico, era solo un tempo diverso.)

E proprio l’8 marzo, ascoltando su Instagram le stories di Cristina Fogazzi (nota come l’Estetista Cinica) mi sono ritrovata a riflettere. Ascoltandola ho ripercorso una serie di pensieri fatti negli ultimi tempi che mi hanno avvicinato al tema della inclusività.
Che – a sua volta – mi ha portato ad essere più attenta ad una serie di sfumature di parole e comportamenti che incontro quotidianamente.
Che – a sua volta – è frutto di incontri con associazioni e persone (donne e uomini) che trattano l’argomento.
Che – a loro volta – mi hanno fatto avvicinare a letture che stanno ulteriormente alimentando la sensibilità sul tema molto vaso e composito, a rischio di riduttività (che impoverisce e banalizza).

Ci sono alcuni momenti nei quali questo tema (declinato al femminile) mi provoca ancora qualche fastidio.
Ma oggi questo fastidio non genera più – come prima – una scrollata mentale per togliermi di dosso un qualcosa che mi (appunto) infastidisce.
Oggi il fastidio è diventato un prezioso alleato che mi indica che là (in quel punto) c’è ancora un nodo da sciogliere e da comprendere.

Mi sono sempre “fatta pregio “ di lavorare con uomini e di non avere mai percepito “accondiscendenza” nei miei confronti. Oggi però il dubbio mi viene e mi pongo alcune domande.
È perché non mi sono mai posta il problema e quindi – non ponendomelo – non l’ho mai generato nella “controparte”?
Oppure è un mio punto cieco?
Non lo so. E non lo saprò mai, perché quel tempo ormai è andato.

Oggi è un tempo diverso.
Che si porta dietro esperienze, nuove conoscenze apprese e in corso di apprendimento, e nuove sensibilità.

[Foto di Katherine Hanlon su Unsplash]